
Ciò che difficilmente perdonerò a Ciccio è l'aver svilito l'entità meglio definita come "il mito della mia prima adolescenza" con i due ultimi, orribili dischi. Anzi, a voler essere cattivelli si potrebbe dire che è da una ventina d'anni che artisticamente i Cure sono morti e si ripetono con stanchezza e prevedibilità estreme.
Wish era rosso infuocato,
Wild Mood Swings sbandava in manierismo e faciloneria, (ma alla fine c'erano sempre quelle 2-3 perle memorabili a testa...) degli ultimi due obbrobri ho già detto. Nel mezzo ci sta questo qua, che per me rappresenta l'istantanea, il prototipo della
maturità di Ciccio (nel caso in cui esistesse una specie di questo concetto per lui, che invece sembra passare dall'infanzia alla senilità con la capriola di una formica). In
Bloodflowers c'è un uomo conscio dei propri limiti, della perdita di ogni tipo di inventiva che non vada oltre alle sicurezze stampigliate in lungo e in largo. C'è un uomo tranquillo ma sempre in preda alle proprie inquietudini personali ed inter.
C'è un compositore composto ed equilibrato che azzecca grandi songs per metà abbondante del disco, nonostante le novità stiano a zero. Strumentalmente i ritmi sono lenti e il ritorno di O'Donnell si fa sentire con belle prove di pianoforte e tessiture nebbiose di synth.
Ciò che fa pendere il pollice verso l'alto di
Bloodflowers sono una manciata di pezzi degni di entrare in un ipotetico canzoniere definitivo di Ciccio: il maelstrom ossessivo di
Watching me fall, undici minuti di saliscendi emotivi tiratissimi (a memoria, un modello precedentemente inutilizzato). La serenità malinconica del motivo caracollante di
Where the birds always sing è di una cristallinità rigenerante, doppiata felicemente dall'altrettanto splendida
The last day of summer e da quell'
Out of this world che disincantata apre elegantemente il lotto.
Un segnale inedito a livello commerciale fu che si decise di non rilasciare singoli pro-classifica. E la cosa ancora più paradossale è che il potenziale candidato sarebbe stato senz'altro
Maybe someday, che così diventa il miglior hit mancato della carriera; è il perfetto equilibrio fra pop, non ruffiano, grinta e classico Cure-style, ed ha nella progressione finale uno dei classici momenti
spleen da pelle d'oca che si dissolvono quando vorresti che continuassero per altri 10 minuti.
Se la seconda metà fosse stata come la prima, saremmo stati quasi da top5. Ma non è così e purtroppo la sordina ci assale inesorabilmente. Dopo due pezzi davvero insipidi (
There is no if e
Loudest song), 39 vorrebbe essere il punto gotico-sinfonico ma gira senza lasciare troppe tracce. Alla title-track tocca sigillare tutto con 7,5 minuti di grande enfasi che forse nella testa di Ciccio si ispiravano ai modelli finali dei bei tempi andati (
Pornography, specialmente nel finale). Peccato che sia un evanescente buco nell'acqua, così ci accontentiamo di quanto di buono ci è stato propinato prima, e ne facciamo tesoro.
Tanto Ciccio andrà avanti per altri 20-30 anni e non speriamo neanche che ci faccia un regalino ogni tanto.