martedì 31 agosto 2010

Elegi - Varde (2009)

Dopo lo stupendo debutto di Sistereis, il norvegese Jansen lo ha bissato l'anno scorso, e c'è ancora da sobbalzare sulla sedia per gli amanti della sperimentazione dark.
Varde è un lavoro che, rispetto al predecessore, spinge sull'oscurità avvolgente delle 12 pieces, con ottica più ossessiva e raggelante. Se Sistereis sembrava acquatico, Varde è esplorazione notturna e glaciale (tant'è che Jansen si è ispirato alla disavventura polare di un escursionista).
Sono piccoli dettagli che affiorano all'ascolto accurato ed attento di questo secondo atto, che fondamentalmente non rivoluziona quanto espresso nel precedente. La ricerca di Elegi sta nel condensare caverne di dark-ambient con neo-classicismi abbozzati, fra cristalline gocce di piano, bordoni di violoncelli o stridori di violini. Esempio, il capolavoro Uranienborg, il pezzo meno intimidatorio dal fascino luminescente, o le meditazioni astrali di Svanesang e Sovnens skelertak. La desolamte Skrugard, i baratri profondissimi di Drivis, Fandens Bre, le solennità seriose di Angekok, Rak, sembrano comunque essere i motivi guida di questa colonna sonora antartica, buia e depressa.
Jansen non ha cambiato rotta ma stupisce di nuovo per la sua classe nell'appaiare strumenti classici ai tapes, alle trovate da field recordings, all'elettronica spartana e subliminale. Non sembra ancora necessario un cambiamento, visti i risultati, ma stiamo alla finestra per il terzo disco.

domenica 29 agosto 2010

Editors - An end has a start (2007)

Nel momento esatto in cui gli Interpol cedevano il passo con l'ultimo, deludente albo, gli Editors ne rimpiazzavano il posto con prontezza e simbolicamente incarnavano la rivincita inglese della new-new-wave sugli americani, ovvero come "riprendersi" ciò che era stato da loro inventato e adattarlo al presente.
Dosi energiche e songs contagiose sono diventati gli ingredienti di un successo mondiale a presa rapida, e occorre dirlo, meritato. Soltanto dopo ripetuti ascolti, sono riuscito anch'io a farmi prendere profondamente da An end has a start, che all'epoca dell'uscita avevo bocciato. Il primo scoglio da superare è senz'altro la voce di Smith, che sembra esattamente quella di Banks, e allora pensavo: cosa ci serve un'altro imitatore di Ian Curtis?
La somiglianza con gli Interpol è un preconcetto duro da morire, ma una volta superato questo e l'evidente retaggio new-wave non si può resistere ad una decina di pezzi letteralmente "perfetti". Come highlights segnalerei la title-track, The racing rats e Bones con le loro folate ipercinetiche, le decadenze autunnali di When Anger shows, Escape the nets, nonchè le due commoventi ballad finali, Spiders e Well worn hand, che stemperano la grinta spesa in tutto il disco con la meditazione melanconica irrinunciabile per qualsiasi band che si ispiri alla new-wave che conta.
Tratto distintivo della band, oltre al frontman Smith, è il chitarrista solista Urbanowicz che indugia spesso sulle note altissime del legno con effetti penetranti.
Ma è il quadro d'insieme che funziona alla grande, e se brit-pop dev'essere, così sia.

lunedì 23 agosto 2010

Ecstasy of Saint Theresa - Free-D (1994)

Cechi, gli EOST partirono come band indie-chitarrosa in stile MBV nei primissimi nineties per poi svoltare di scatto verso l'elettro-ambient con il presente. Le info in rete sono scarsissime e non è dato di sapere a quale film sia stato attribuito (il sottotitolo è Original Soundtrack), e Free-D è una metamorfosi davvero ai limiti dell'incredibile, per i (scarsi) replicanti che erano di formule già ampiamente testate nel Regno Unito ai tempi.
E' un elettronica quasi silenziosa, con poche increspature: l'estrema calma spaziale dell'apertura di Vacuum Blow è poco più che un tremolio di bleeps. La meraviglia di Surfing on steam (conosciuta ai tempi delle Mental Hours) è senz'altro il punto più alto del disco; intro giocosa con beat sordo, frenata e arpeggio paradisiaco (chitarra privata dei toni alti?) con eterei vocalizzi femminili, per nove minuti di magia. Il ritmo incalzante di Trance between the stars è il loro versante electro-beat alla Aphex Twin, con ancora la voce della Libowitz ad impreziosire lo spettro galattico. Her eyes have it è un tappeto per chitarra e synth, memore del Gone to earth Sylvianiano con acclusa coda robotica.
Ma la calma piatta ritorna con la panoramica Sooper Kosmos e le due tracce finali, Interstellar overdose e la seconda parte di Trance between the stars, che fra concretismi animali (cinguettii vari e canti di gallo in lontananza) e mimetismi appena udibili portano il disco sempre più lontano dalla realtà.
Di certo non un capolavoro del genere (anche se Surfing on steam è davvero molto bella), ma non mi risulta che siano arrivate ondate di gruppi dalla Repubblica Ceca negli ultimi 20 anni. Mi si corregga se sbaglio, ovviamente...

venerdì 20 agosto 2010

Echo & The Bunnymen - The Complete Peel Sessions 1979-1983

Questa non è la raccolta parziale che uscì come bonus disc ad una delle reunion di McCulloch e Sergeant, bensì un valente assemblaggio di tutte e 6-sei-6 le Sessions registrate a Maida Vale durante l'epoca d'oro, ovvero fra il 1979 e il 1983. Ed è quasi superfluo dire che di prezioso colato si tratta, album fotografico della prima sfolgorante fase di una carriera destinata a lasciare il segno, seppur il declino che ne conseguì abbia un po' offuscato la stella. Le versioni sono strumentalmente differenti (nulla di rivoluzionario rispetto agli originali in studio, ma interessanti comunque), il carisma e il fascino decadente tipico degli E&TB risplende incontrastato in tutte le fasi del lustro.
Ferragosto 1979, McCulloch, Sergeant e Pattinson sono ancora privi di batterista, al cui posto c'è la cosiddetta Echo, una beatbox spartanissima che rende il suono un po' ingessato, ma le songs sono già leggenda vivente: Stars are Stars, Villiers Terrace, Read it in books, Bagsy yours, sono leggermente diverse da come andranno a vivere sul primo album.
Maggio 1980: Crocodiles sta per uscire e De Freitas siede al predellino, i risultati sono eclatanti: Pictures on my wall, All that jazz e in anticipo di un anno, Over the wall.Novembre 1980: inarrestabili, rodano costantemente quel capolavoro che uscirà dopo qualche mese, Heaven up here, con un poker d'assi. La title-track è ivi presente in versione scarnificata, già fenomentale crogiuolo di perversione psichedelica. That golden smile (diventerà Show of strenght), Turquoise days, All my colours, mostrano un work in progress di lussureggiante perdizione e valore artistico elevatissimo.
Maggio 1982, da Porcupine la lugubre No hands, la splendida Taking advantage, la circospetta An equation.Giugno e Settembre 1983, siamo nel pieno della stagione barocca di Ocean Rain, il successo è arrivato e il suono è sereno e rilassato, con l'hit sempreverde Killing moon, la sarabanda teatrale Nocturnal me, le raffinatissime digressioni esotiche di My kingdom e Ocean Rain, ed altri.
Non si poteva esattamente gridare allo scandalo commerciale, dal momento che questi E&TB avevano perso quella tensione spasmodica degli esordi ma non erano certo da buttare via.

sabato 14 agosto 2010

Duello Madre - Duello Madre (1973)

Seppur uno dei tanti one-shot dei seventies italiani, il Duello Madre non era poi una manica di novellini, anzi. Zoccheddu e Callero avevano già sparato una cartuccia isolata coi mitici Osage Tribe, e con questo progetto puntarono a muso duro sul jazz con il batterista LoPrevite e il sassofonista Trentin. Ovvero, una concentrazione di musicisti dagli attributi quadri, intenta a sfogare tutte le proprie abilità in 5 temi labirintici e cervellotici.
Detto questo, occorre dire che DM è un disco non proprio facile. I Soft Machine strumentali di Ratledge, Dean e Hopper appaiono una grossa influenza sul quartetto, se non altro perchè Zoccheddu si ritaglia assoli estraniati con la sua chitarra acrobatica e si cimenta spesso alle tastiere, perchè Trentin ha un ruolo assolutamente centrale nel sound e la ritmica folle imperversa.
A parte i break pastorali (i temi iniziali di Aquile Blu e Duello, la fase centrale di Momento) il disco è scuro e nervosissimo, davvero troppo ostico anche per quegli anni. Sarà piaciuto senz'altro agli integralisti del genere, non a sufficienza agli altri estimatori di prog e derivati. Specialmente al confronto delle altre esperienze, precedenti e future, da protagonisti o da session men. Tanto per dire, l'anno successivo Callero risponderà ad una nuova chiamata di Battisti portando con sè LoPrevite alle registrazioni di nientemeno che Anima Latina...

sabato 7 agosto 2010

Drunkdriver - Born pregnant (2008)

Non faccio in tempo a trovare i miei nuovi campioni del noise che succede qualche inconveniente. Appena i detronizzati Pissed Jeans perdono il titolo a causa dell'ultimo disco, molle e sfilacciato, scopro questo power-trio pauroso che sposta un po' più avanti il confine della follia e della sporcizia sonica, realizzando un debutto (sulla ottima Parts Unknown) di rara ferocia ed efferatezza.
Born pregnant è un movimento tellurico di neanche mezz'ora, al cui termine mi è quasi inevitabile far ripartire la scaletta. E' una catarsi atomica che non ammette compromessi nè condizioni, da parte di trio neanche tanto convenzionale. Lo shouter Berdan è un serial killer debosciato che grida senza soste, ma con abilissimo stile ondulatorio. Il batterista Villalobos non sarà un mostro di tecnica ma pesta e martella come un demonio, e sorpresa sorpresa, alla chitarraccia pantagruelica e urticante c'è una ragazza, la Greene, che si fa carico della fonderia di riffs impressionante, rigorosamente atonale of course.
La forza di Born Pregnant sta nelle variazioni, impercettibili ad orecchio disattento (un po' come nel caso del noise concettuale di altri campioni come Hair Police o Air Conditioning, che prendono la causa da un punto di vista sostanzialmente diverso), nelle pause e ripartenze micidiali, nelle micro-trovate che lo rendono una spina nel fianco continua. Ha una forza che non ha nulla da spartire col punk, o con l'hardcore, nè con la stagione dei nineties. E' un mostro figlio di quest'epoca malata e deviata.
Purtroppo i DD si sono sciolti: sul loro blog lo fanno capire con due meste parole relative al secondo disco uscito pochi mesi fa, sadly the last. Villalobos è stato accusato di stupro, che lo sia o no non ha importanza, perchè in ogni caso questa noise-saga eccitante è già terminata.

venerdì 6 agosto 2010

Drown - Hold on to the hollow (1994)

Quartetto losangeleno che debuttò direttamente su major e poi scomparve nel nulla, amaro destino per il valore che dimostrarono. Non avevano nulla da spartire col metal commerciale di quegli anni, esprimevano un disagio soffocante ed avevano una forza spettacolare, erano stati prodotti divinamente ed avevano uno screamer impressionante, Boquette, per potenza e abrasione vocale. Il versante più devastante dei Nine Inch Nails era una influenza tangibile, ma laddove Reznor svariava su più fronti i Drown invece optavano per un approccio di urto frontale, rabbioso e scurissimo. Quindi, chitarroni sludge, ritmiche pestate e il quid degli effetti elettronici a fare un po' tendenza. Gli highlights erano Beautiful, Trasparent, Reflection, Everything, forti come detto prima di una produzione essenziale e diretta.
La cosa curiosa è che l'unica variante di Hold on to the hollow era una perla fenomenale, Longing, per voce e synth. Un'affresco gotico raggelante e tenebroso, saliscendi emozionale, quasi un inaudito connubio fra i Dead Can Dance più freddi e un Henry Rollins agonizzante.

giovedì 5 agosto 2010

Discharge - Why? (1981)

Potenza del p2p; nell'estate del 1993 Rumore pubblicava un fascicoletto intitolato tipo Il Rumore dalla A alla Z e alla lettera D si parlava di questi pionieri hardcore inglesi con una prospettiva di assoluta reverenza. La firma era di Frazzi, che ho sempre guardato con un occhio di sospetto in quanto a mio avviso fin troppo integralista del filone punk e derivati.
La mia curiosità è stata comunque soddisfatta con 17 anni di ritardo, e anche se l'hardcore classico non è propriamente la mia cup of tea occorre tributare ai Discharge una funzione anticipatrice non indifferente. La lezione hard-punk dei Motorhead veniva amplificata all'ennesima potenza, dissanguata di qualsiasi residuo blues, cannibalizzata e iper-velocizzata. A parte qualche breve assolo di chitarra che fa un po' metallo, Why è una grezzissima esplosione di schegge impazzite, e non nascondo che l'ascolto mi diverte parecchio.
Con le bonus tracks i titoli sono diventati 24, tutti sotto i due minuti di durata. E' impossibile ricordare un pezzo piuttosto che un altro per l'egualità diffusa, e le tematiche erano fortemente social-politicizzate. L'ascolto di questo solco bruciante mi diverte per l'effetto catartico che ha, per le mitragliate di batteria e il celebre D-beat, per lo stile del vocalist e il suo effetto vomitante di terminare quasi tutti i versi con quel bleaaaah, che fa veramente molto "sporco e brutto", definizione fin troppo ovvia per un disco che non ha bisogno di tante causali...

mercoledì 4 agosto 2010

Dirty Three - Whatever you love, you are (2000)

Fra liquefazioni desertiche e ribellione cameristica, i D3 pervennero al loro punto più alto nel 2000 con questo 6-trax da incanto vero e proprio. Nonostante la povertà di mezzi che non prevede altro che i 3-elementi-3, Whatever giganteggia per lo stile che è sì ambizioso, ma privo di mediazioni accademiche di alcun appartenenza.
Ellis è il conduttore; c'è qualche sovraincisione del suo rigoglioso violino, ma sono dubs puramente funzionali. Ha avuto il grande merito di sapersi fare largo nell'ambiente indie-rock per lo sdoganamento definitivo di uno strumento ritenuto anacronistico, obsoleto, mentre questo eccellente esecutore ha dimostrato che nelle mani giuste può dare le stesse sensazioni, se non di più, degli strumenti canonici. Alle sue spalle il chitarrista Turner e il batterista White, meramente ritmici e discreti. Il sentore finisce per essere antico nel senso più nobile del termine, e le composizioni sono il non-plus-ultra della formula: la commovente Some summers they drop like flies apre procurando subito brividi sulla schiena. Barocchismi westernati si manifestano con I've really should have gone out tonight, prima che arrivi la fase melanconica in cui i D3 eccellono, sempre con grande savoir-faire e grezza eleganza. Allucinazioni desertiche con la suite I offered it up to the stars, in un crescendo inarrestabile, un po' la Heroin del post-rock strumentale. Tutte tematiche che vengono sviscerate in formule diverse anche nella seconda tripletta, con l'aggiunta di qualche spruzzo di jazz in Stellar, o perlomeno una concetto di materia jazz che si possa imparentare con la sopraffina essenza di bastardi che hanno i D3.
Ovviamente, dotati anche di gloria.

martedì 3 agosto 2010

Dente - L'amore non è bello (2009)

Mi ci sono voluti svariati ascolti per cercare di capire per quale motivo si fa un gran parlare di Peveri, e non pago ho sentito anche gli altri due dischi che ha fatto. Alla prima botta, tempo fa, avevo trovato L'amore non è bello insopportabile e terribilmente ruffiano, archiviandolo velocemente.
Oggi, il mio giudizio è un filo migliorato, ma la sostanza non cambia; non trovo molte differenze con i classici cantautori dell'area commerciale italiana. Sì, c'è un approccio naif e piacevolmente ironico, cosa che senz'altro gli fa guadagnare immediata simpatia, ma i testi non sono un granchè di memorabile (carina la storiella di Quel mazzolino e poco altro).
A livello strumentale gli arrangiamenti sono squisitamente vintage, basati su una linea semplice di chitarra acustica e qualche coloritura di fiati, ed è un punto a favore. E' un dischetto senza pretese, e lo spirito di Dente va preso per come è; un cantautore leggero e disincantato, che cade di tanto in tanto in qualche banalità ma resta coerente col proprio approccio.
Ciò che non capisco proprio è l'accostamento che è stato fatto in pratica da tutte le recensioni, cioè Battisti. Ok, La presunta santità di Irene che apre il disco può aver fuorviato parecchio, essendo un tentativo piuttosto maldestro di creare un impossibile medley fra Il mio canto libero e Abbracciala abbracciali abbracciati, o giù di lì.
Auguro al parmigiano di crescere e sapersi reinventare, di progredire il proprio stile. E di non vedersi più appioppare paragoni completamente fuori luogo.

lunedì 2 agosto 2010

Death In June - Rose clouds of olocaust (1995)

Più che apocalittico questo folk mi sembra pastorale, orchestrale, persino bucolico. A parte che è un aggettivo che a mio parere è sempre stato più adatto al maturo Current 93, che ha collaborato tantissimo con il Pearce (ed è presente anche in questo albo).
Che era partito ad inizio '80 alla testa di un trio electro-dark e alla fine si è ritrovato come menestrello esoterico, dai mezzi scarni ma dalle ottime idee produttive. Rose clouds of holocaust non è generalmente indicato come il suo disco migliore, anzi. Ciò che lo rende estremamente gradevole non è la qualità delle songs in sè, abbastanza metodiche e reiterate nei propri schemi non troppo fantasiosi, nè la voce monotona e bassa del Pearce. Ciò che piace tanto è la produzione, lo spiegamento di massa di strumenti al servizio delle sue arie che lo rende praticamente un folk orchestrale. Pertanto, le atmosfere sono ancestrali, fiabesche, quasi progressive nel suo essere baroccheggiante, e di ottimo gusto.
Al punto da far passare in secondo piano una collezione di songs che di certo non è fenomenale.

domenica 1 agosto 2010

Dead Meadow - Feathers (2005)

Stilare un'ipotetica classifica dei miei amatissimi DM risulta essere impresa improba, ma uehi, se proprio devo, Feathers svetta sugli altri di un pelo. Per l'occasione il power-trio si era allargato con l'innesto del chitarrista Shane, forse per lasciare più libertà alla scintillante Telecaster di Simon. Durerà solo lo spazio di questo disco, ma diede ottimi frutti; già la splendida apertura di Let's jump in visualizza l'incrocio perfetto delle sei corde per dar forma ad un panorama di bellezza perversa. Such hawks such hounds spinge su forme di psichedelia dai ritmi dispari dal sapore vagamente '60s.
E' una collection più atmosferica dei suoi precedenti, Feathers, che punta alla creazione di paesaggi desertici e ventosi, in linea con la loro produzione e sempre con la classe vintagistica di Simon e Kille. E' una chicca dietro l'altra: Get up on down, Heaven, Eyeless gaze, sono mix perfetti di riff sanguigni e languori psichedelici in fusione. I toni si affievoliscono con l'acustica Stacy's song, la trasognata Let it all pass, per poi finire in rovente jam con un live della vecchia Sleepy silver door, un quarto d'ora fra space-rock deragliante e pause ambientali di grandissima suggestione.
Il pezzo forte della raccolta però è la magnifica At her open door, dalla melodia a presa efficace ed un finale ultra-movimentato, con le due chitarre a fare faville.
Quelli che.... vintage è bello.

sabato 31 luglio 2010

Danse Society - Heaven is waiting (1983)

Non tanto per inventiva, ma quanto per eleganza e ottime doti di songwriting, questo quintetto inglese avrebbe meritato senz'altro una maggior visibilità e perchè no, anche successo. E pensare che questo disco uscì su major; pare che la loro breve carriera sia stata contrassegnata da litigi continui con tutte le etichette con cui ebbero a che fare, che storicamente sono mazzate assassine sulle teste delle bands. Il filone era quello in piena voga del wave-dark tastierato ed epico, e i DS erano molto bravi nell'equilibrare le varie componenti senza essere ruffiani come invece furono i Mission, nè troppo lubugri nè minimamente pacchiani.
Il cantante Rawlings modulava con le classiche inflessioni scure del genere, ma aveva un timbro abbastanza alto per distinguersi. Il tastierista Scarfe aveva la maggior visibilità ed un ottimo gusto per le tessiture, nonchè sulle parti pianistiche, elementari quanto incisive. Arie maledette fin dall'iniziale Come inside, fatalismo che si taglia col coltello. Wake up però vira verso un ballabile funk solare col chitarrista Nash in bella evidenza, con susseguente contraltare inquietante in Angel. Letteralmente incantevole la pastorale Where are you now, elegiaca orchestrazione per frase chitarristica, piano e fiati splendidamente arrangiati.
Ossessioni pulsanti in The seduction, scalini rollanti nella title-track e in The hurt. Unico neo del disco, l'inutile cover dei Rolling Stones, forse una spinta della label, chi può dirlo. Erano abbastanza vicini ai Modern English, seppur più soft. Qualche reminescenza degli ultimi Bauhaus o dei contemporanei Echo & The Bunnymen si sente, ma questi ragazzi avevano un gran bel gusto e lavoravano molto bene sulle partiture.

Current 93 - Nature unveiled (1984)

Potrebbe essere davvero molto scontato, ma lo storico debutto in proprio di Tibet è quanto di più vicino si possa identificare con una concezione sonora di inferno, oltre che tematicamente vicino ai rituali pagani ed occultistica varia. Certo è che fu il prime-mover della scena industrial a sperimentare pesantemente a livello vocale, supportato quasi sempre da Stapleton e altri artisti del giro inglese che lo aiutavano anche nelle prime, ultra-carbonare esibizioni dal vivo (e posso immaginare le reazioni di un pubblico preso alla sprovvista...).
Nature unveiled fu stampato in 1000 copie e conteneva un movimento a lato. Ach Golgotha è un impressionante collage per ugole sataniche deformate, effetti percussivi sparsi di lastre di metallo, bleeps trivellanti e cadute continue nel vuoto. Mystical body of christ in chorazim stempera le tensioni assurde del primo lato privilegiando una dispersione di pulviscolo sinfonico buio pesto, eccetto il finale intarsiato da un suono simile alla sega a nastro.
La ristampa Durtro di una decina d'anni dopo incluse qualche frattaglia da 7" e cassette del periodo, e sono episodi più surreali e misurati come The burial of the sardine equilibrata collaborazione con NWW e la tribale Lashtal + Salt, ipnotica digressione più verso la luce.
Poi le preziose registrazioni di due live: Amsterdam dicembre 1984, in quintetto, dieci minuti di reale orrore con Maldoror rising. Brighton, qualche mese prima, ancora più caustico e vocalmente deformato, col solo supporto di un batterista.
Attenzione, carboni ardenti....

venerdì 30 luglio 2010

Cure - Bloodflowers (2000)

Ciò che difficilmente perdonerò a Ciccio è l'aver svilito l'entità meglio definita come "il mito della mia prima adolescenza" con i due ultimi, orribili dischi. Anzi, a voler essere cattivelli si potrebbe dire che è da una ventina d'anni che artisticamente i Cure sono morti e si ripetono con stanchezza e prevedibilità estreme. Wish era rosso infuocato, Wild Mood Swings sbandava in manierismo e faciloneria, (ma alla fine c'erano sempre quelle 2-3 perle memorabili a testa...) degli ultimi due obbrobri ho già detto. Nel mezzo ci sta questo qua, che per me rappresenta l'istantanea, il prototipo della maturità di Ciccio (nel caso in cui esistesse una specie di questo concetto per lui, che invece sembra passare dall'infanzia alla senilità con la capriola di una formica). In Bloodflowers c'è un uomo conscio dei propri limiti, della perdita di ogni tipo di inventiva che non vada oltre alle sicurezze stampigliate in lungo e in largo. C'è un uomo tranquillo ma sempre in preda alle proprie inquietudini personali ed inter.
C'è un compositore composto ed equilibrato che azzecca grandi songs per metà abbondante del disco, nonostante le novità stiano a zero. Strumentalmente i ritmi sono lenti e il ritorno di O'Donnell si fa sentire con belle prove di pianoforte e tessiture nebbiose di synth.
Ciò che fa pendere il pollice verso l'alto di Bloodflowers sono una manciata di pezzi degni di entrare in un ipotetico canzoniere definitivo di Ciccio: il maelstrom ossessivo di Watching me fall, undici minuti di saliscendi emotivi tiratissimi (a memoria, un modello precedentemente inutilizzato). La serenità malinconica del motivo caracollante di Where the birds always sing è di una cristallinità rigenerante, doppiata felicemente dall'altrettanto splendida The last day of summer e da quell'Out of this world che disincantata apre elegantemente il lotto.
Un segnale inedito a livello commerciale fu che si decise di non rilasciare singoli pro-classifica. E la cosa ancora più paradossale è che il potenziale candidato sarebbe stato senz'altro Maybe someday, che così diventa il miglior hit mancato della carriera; è il perfetto equilibrio fra pop, non ruffiano, grinta e classico Cure-style, ed ha nella progressione finale uno dei classici momenti spleen da pelle d'oca che si dissolvono quando vorresti che continuassero per altri 10 minuti.
Se la seconda metà fosse stata come la prima, saremmo stati quasi da top5. Ma non è così e purtroppo la sordina ci assale inesorabilmente. Dopo due pezzi davvero insipidi (There is no if e Loudest song), 39 vorrebbe essere il punto gotico-sinfonico ma gira senza lasciare troppe tracce. Alla title-track tocca sigillare tutto con 7,5 minuti di grande enfasi che forse nella testa di Ciccio si ispiravano ai modelli finali dei bei tempi andati (Pornography, specialmente nel finale). Peccato che sia un evanescente buco nell'acqua, così ci accontentiamo di quanto di buono ci è stato propinato prima, e ne facciamo tesoro.
Tanto Ciccio andrà avanti per altri 20-30 anni e non speriamo neanche che ci faccia un regalino ogni tanto.

giovedì 29 luglio 2010

Cromagnon - Orgasm/Cave Rock (1969)

Come mancanza di ortodossia, i Red Crayola di Parable of arable land al confronto sono dei fraticelli cappuccini. A 40 anni di distanza, però, occorre ammettere che la ESP Records era veramente il prototipo dell'etichetta coraggiosa e sprezzante di ogni giudizio, chè non oso pensare come sia stato accolto un prodotto del genere.
L'unico brano che abbia una parvenza musicale canonica è l'iniziale Caledonia, che, dopo un intro per samples di banda e fischi di audio generator, è una sarabanda per tamburi, cornamuse e voci gutturali incarognite (e già siamo ben fuori dai generis). Per il resto Orgasm è praticamente il reality show audio di una tribù di primitivi, che uno ad immaginarselo non si avvicina minimamente a quello che è il disco.
A fronte di questo, occorre ammettere che i Cromagnon furono decisamente avanti. Urla belluine, percussioni di qualunque tipo, danze tribali, versi animali, suoni concreti, etc. Ad eccezione del synth di Fantasy, del proto-industrial di Toth Scribe And I e delle masturbazioni chitarristiche di First world of bronze, uniche testimonianze del fatto che si era nel dopoguerra anche se immerse nel solito contesto triviale/da evoluzione naturale.
Non ci fu un seguito, ed è facile immaginare anche il perchè. In quanto al rapporto osticità/periodo, Orgasm è stato uno degli esperimenti più radicali di sempre.

Crescent - By The Roads And The Fields (2003)

Punto di partenza, la lezione dei Talk Talk di Laughing Stock. Se i Bark Psychosis di Hex ne avevano generato una versione gentile e romantica, i Crescent di questo capolavoro hanno realizzato una variante ancora più free, slegata da qualsiasi dogma o corrente di tendenze del decennio appena trascorso.
A modo suo, il leader Jones si inventa una collezione sottilmente lo-fi, quasi pigra nello svolgimento, all'apparenza fragilissima e con qualche inflessione jazzata, in grado di affascinare anche dopo ripetuti ascolti, che oltre alle songs ha il suo punto di forza nella strumentazione ricca e pennellata con creatività. La sua voce è un tremito incerto e appena soffiato sul microfono.
Nonostante il primo titolo in scaletta sia la splendida Spring, il clima sembra parecchio autunnale, se non da camino in sala. Sembra proprio che sia stato registrato in una piccola stanza, con strumenti da 4 soldi (chitarrine, organetti, bonghi e percussioni di fortuna) quando non subentra un bel contrabbasso nobile (la divina Straight Line), o un bel paio di fiati fantasiosi che fanno tanto slow-jazz fumoso in coppia con la batteria spazzolata, nella chiusura stellare di Structure and form.
Fountains è il pezzo più completo ed arrangiato, al punto che sembra una festicciola al confronto delle scarne elucubrazioni di New leaves e Mimosa. C'è qualche punto di contatto con i contemporanei Cerberus Shoal, specialmente per qualche tratteggio etnico, ma laddove gli americani peccavano di eccessiva dispersione, qui i bristoliani sguazzano nella fresca rugiada di un sound avvolgente, degnissimi eredi delle ultime concessioni di talento infinito di Mark Hollis (che se per caso avrà ascoltato, sono sicuro avrà apprezzato).
Una splendida passeggiata.

lunedì 26 luglio 2010

Helios Creed - Superior Catholic Finger (1988)

Come scriveva un illuminatissimo Piero sulla sua scheda dei Chrome, senza il freno controllore di Damon Edge, il folle HC è pericoloso tanto quanto Fidel Castro che tiene un discorso a Cuba.
Ebbene, dopo il debutto grezzo e monotono di X-rated fairy tales il chitarrista perveniva al suo capolavoro, un disco concentratissimo (neanche 30 minuti di durata, e quindi ancora più pregno di sensazioni), febbricitante e torrenziale espansione di anima violenta e percossa da scosse sismiche lisergiche.
L'intro di Monster Lust è un collage psicotico di rumori industriali e nastri al contrario di chitarre acustiche (notabile la ripresa della title-track del disco precedente), di fascino e magnetismo assoluto. Almeno fino a quando Creed non parte col suo suono noise-cyber inconfondibile e la ritmica compatta e compressa, compresa la seguente Mustard dog, a salmodiare l'acid-punk di cui è stato inconfutabile inventore negli anni d'oro dei Chrome.
Il lento cingolato robotico della title-track è una diabolica emissione sulfurea; quando Creed parte con i suoi deliri solisti è sempre una liquefazione spaziale. Ancora space-punk con Too-bad e la violentissima Weekends, le scorie industrial-mediorientali (?) di The bridge, il dark sintetizzato di Who Cares, il capolavoro sperimentale di The cookie jar con le sue digressioni pseudo-funk, gli atolli di flanger e le saturazioni di nastro.
Seguiranno tanti altri dischi, in cui Creed faticherà non poco ad eguagliare i risultati incredibili di questo, ma con il classico ed unico trademark su cui ha costruito la propria iconica carriera.

domenica 25 luglio 2010

Cranioclast - Iconclastar (1992)

Duo tedesco che prende (prendeva? come al solito info inesistenti in rete...) il suo inquietante nome da un anacronistico attrezzo chirurgico, in attività prevalentemente negli '80 e i primi '90, realizzatore di lavori cupissimi e siderali. Questo disco usciva per l'italiana ultra-underground MMM, ed è davvero un viaggio nell'ignoto. Seppur le similitudini coi corrieri connazionali siano inesistenti, trattasi effettivamente di ambient cosmica ma rigettata nei bassifondi, ritualistica e con rumorismi industriali assortiti. A parte le propulsioni sfigurate di techno-meccanica di Leather Jacket, Iconclastar è improntato su drones profondi ed innestati su bui satelliti in viaggio verso nuove galassie. Notevolissimi in tal senso gli 11 minuti di Astronaut. Solarium movimenta le acque stagne con un riff minimale di synth-bass mentre in sottofondo succede di tutto. Particolarmente spiccata la propensione ad inserire bleeps con frequenze molto alte sui bordoni, in modo da creare una discrepanza sonora che mette curiosità costante.
Spettrali.

giovedì 22 luglio 2010

Cop Shoot Cop - Release (1994)

Dai gloriosissimi nineties nella grande Mela, un'altra grande band indimenticata e vittima delle avide majors (nella fattispecie la terribile Interscope) che posero troppe pressioni sui nostri beniamini, fra i massimi espositori dell'invivibile metropoli e delle sue follie.
Del quintetto capitanato dal bassista/vocalist Ashley restano comunque un poker secco di album in progressione, a partire dal primo rovinosissimo Consumer Revolt, con una crescita musicale (non mi piacerebbe proprio definirla concessione ad un accessibilità maggiore) che li portò a questo signor disco che è stato Release.Chiaro che il fattore noise puro e duro veniva smussato e la produzione era davvero eccellente, ma la cattiveria di fondo restava. I CSC erano diventati un gruppo di blues efferatissimo, quasi un aggiornamento dei Birthday Party, e a tratti somiglianti ad un altro fenomeno contemporaneo come i Girls Against Boys. Avevano aggiunto un chitarrista (McMillen, comunque abbastanza defilato) al quartetto classico con doppio basso (Ashley+Natz) batteria eclettica (Puleo) e samplers (Coleman).
Un poliziesco irresistibile con tanto di fiati come Last Legs ricorda parecchio il primo Cave, così come la malsana fosca Ambulance Song e la tesissima The divorce. Gran parte del disco si concentra comunque sui massicci granitici in mid-timing di Interference, It only hurts when I breathe, Turning inside out, Suckerpunch con punte di accessibilità in Two at a time, Any Day now. Il blues-metal di Slackjaw avrebbe fatto un figurone sul contemporaneo Betty degli Helmet. C'è solo una pausa di riflessione, non a caso Lullaby, la si direbbe una ballad disperata per via del piano soffuso, salvo il fatto che la ritmica pesta come un elefante in cristalleria.
Ashley proverà a battere lo stesso ferro caldo con i Firewater, ma ottenendo risultati inferiori.

mercoledì 21 luglio 2010

Contrastate & Tiger Lilies - Goodbye great nation (1997)

Un connubio alla Mission It's Possible, fra due progetti distanti come il sole e la luna, ma dal risultato a dir poco eclatante. Un EP di 20 minuti per questa London-Connection fra i grandi e dimenticati Contrastate (puntatine precedenti) e i Tiger Lilies, band che non ho mai sentito in proprio ma viene definita di dark cabaret o anarchic castrato blues.
Dunque, blues non mi sembra proprio (siamo sul folk europeo, piuttosto), anarchic lo si capisce fin dalle foto, castrato perchè il loro vocalist Jacques è in possesso di un tono vocale acuto al punto che fino ad oggi ero convinto che fosse una donna!
Goodbye great nation è un melting pot dei due stili, separati o sovrapposti che siano, e l'effetto è assolutamente qualcosa di inedito e spiazzante. E' una free-suite in cui le escursioni termiche sono altissime, da colpo secco. L'argomentazione è una presa in giro colossale alla famiglia reale inglese, casualmente proprio all'inizio dell'anno che vedrà la morte di Lady D. Questa la sua cronistoria:
1) Si parte con un drone catacombale di Meixner & Co., col recitato di Grieve e i vocalizzi fonetici squadrati di Jacques 2) Frase di 3 accordi scarni di chitarra e violino bassissimo, il vocalist sempre in evidenza con i suoi gorgheggi quasi operistici 3) Brevissima fase di terrore, con schizzi di urla e campanoni 4) bordone da navicella spaziale, brevi interventi dei TL 5) loop di montaggio industriale, effetti inquietanti di dubbia natura fino allo spegnimento della macchina 6) i TL partono alla grande con una ballad frizzante dall'ampio respiro, di sapore sixties-vaudeville.
7) la voce di Jacques auto-campionata in loop ripresa da un paio di episodi precedenti 8) tornano le disturbate frequenze elettromagnetiche dei Contrastate, mentre sotto il vocalist gagliardamente si accompagna con l'acustica alle prese con un'altra ballad accennata.
9) Latrare di cani in lontananza, fade out. Fine.
Filed under cosa, una roba così?

Paolo Conte - Un gelato al limon (1979)

Rientra nella schiera di quei personaggi "che vorrei approfondire ma non ne ho mai trovato il tempo", ah, la mancanza di quelle 50 ore al giorno che dedicherei ad ascoltare musica mi consuma e mi esenta dal trovare perle persino in generi che non uso masticare come il Conte, che pur essendo famosissimo si è sempre distinto per classe e signorilità.
Il classico caso di artista che si fregia di uno stile così personale ed unico da potersi permettere di fare sempre le stesse cose vita natural durante. E non a caso è amatissimo anche all'estero.
A 40 anni suonati faceva il terzo album e non era ancora al suo apice di successo ma già realizzava classici irresistibili come Bartali o la title-track. Arrangiamenti asciutti di gran classe già vintage ai tempi e strumentisti raffinati alla base, Conte si ritaglia una figura unica: la voce non eccelsa tecnicamente, bensì teatrale e interpretata con quell'indolenza magnetica che fulmina e cattura l'attenzione. Per non parlare dei testi eccezionali, rime geniali e pillole di filosofia spicciola quotidiana. Da questa decina di pezzi estraggo come highlights, oltre ai due sopracitati, la rarefatta apertura di La donna d'inverno con i suoi accordi sospesi di piano e la sommessa Uomo camion.Il mio preferito è lo splendido Angiolino, dalla doppia faccia melanconica / sorniona nel cambio da strofa a chorus, con tanto di assolo di bouzouki e gran bel suono viscido di basso, ed un testo di surreale inno all'amicizia da incorniciare.
Naturalmente, in stile.

martedì 20 luglio 2010

Compulsion - Comforter (1994)

Discreto gruppo irlandese attivo nella prima metà degli anni '90. Diciamo che se i Pegboy erano nella serie A del punk melodico, questi erano cadetti ma candidati alla promozione.
Lo stile era estremamente semplice ma per nulla ruffiano, non avevano quasi nulla da spartire col marciume pop-punk che stava esplodendo in tutto il mondo. Non erano molto dissimili dai conterranei Therapy? che proprio in quell'anno ammorbidivano notevolmente il loro sound con Troublegum, ma avevano un punto debole nel vocalist Josephmary, davvero poco dotato. L'iniziale Rapejacket è uno dei loro anthem migliori, con ritmica serrata e disperazione di fondo a rendere onesta l'espressione, ripetuta da Accident ahead. Della più immediata Mall monarchy ricordo un video scarno su MTV, sarebbe potuta diventare un hit, soltanto che erano su One Little Indian, che seppur rispettabile era sempre un indie-label.
Peccato anche che non si siano concentrati sugli aspetti alternativi al punk, che su Comforter costituiscono le vette espressive. Le fragorose digressioni indie-rock di Ariadne e I'm John Brain potevano quasi rivaleggiare con i Catherine Wheel.
Ma curiosamente alla fine le perle sono quelle che i 4 inserirono quasi come divertissment, ovvero due strumentali: Late again è un compassato ed azzeccatissimo jingle, letteralmente irresistibile. Dick, Dale, Rick and Ricky è un surf-western avvincente e passionato, e già la combinazione dice tutto.
Due piccoli capolavori che da soli fanno meritare una nicchia di memoria per questi mediani irlandesi.

lunedì 19 luglio 2010

Coil - Horse rotorvator (1988)

Il disco più popolare del duo inglese, forse, in cui non trovo poco o niente di industriale, anzi, non capisco veramente perchè siano sempre stati inquadrati in quel filone. Forse per la militanza di Christopherson nei Throbbing Gristle o per le costanti partecipazioni di Balance a Current 93, perlomeno negli anni '80. Ciò che odo qui è un elettro-dark movimentato e variopinto, ricco di soluzioni anche se non sempre ispirate al 100%. I synth e i ritmi meccanici sono protagonisti dell'iniziale, marziale Anal Staircase, nonchè della beffarda Slur. Per l'appunto, certe sonorità riconducibili all'industriale affiorano in quà e in là, ma è comunque lo svolgimento abbastanza lineare dei pezzi che rendono il prodotto più accessibile.
Quando ci si formalizza sull'esotico, però, vengono fuori le cose più interessanti, come la lussureggiante Ostia (death of Pasolini), ricca di violini e harpsicord, piccolo gioiello di barocchismo mitteleuropeo, doppiato da Who by fire e The first five minutes after death.Ma non si esimevano certo dallo sfoderare le zampate acide di zolfo: le chitarre abbrutite e il ritmo da catena di montaggio di Penetralia, punteggiate da fiati dissacranti. Le grotte robotiche di Ravenous, i cabaret grandguignoliani di Circles of mania e Blood from the air, tese a creare atmosfere surreali e per nulla rassicuranti nonostante un certo appeal melodico che non faticava a galleggiare in superficie.
Lussuriosi e dannati.

domenica 18 luglio 2010

Coconuts - Coconuts (2010)

Per gli stomaci forti e ben foderati al riparo da ogni tipo di ulcera sonica, le noci di cocco in questione sono una delle novità più originali ed estremiste di questa prima metà del 2010.
Trattasi di un weakness-trio di australiani trapiantati a New York, evidentemente l'unico luogo al mondo che possa sopportare (?) le loro litanie angoscianti e acide. All'ascolto iniziale l'artista che mi era venuto in mente era il primissimo Sun Araw, ma dopo diverse analisi mi sono reso conto che questo sound malatissimo d'oltretomba ha una peculiarità tutta sua, non facilmente rintracciabile (almeno alle mie orecchie) in qualche altra formazione passata.
E' un incubo sotterraneo performato da zombies. E' un suono totalmente privo di globuli rossi, ma non è inumano per niente. C'è una chitarra acidula in perenne delirio sull'orlo di feedbak e gorgoglii impietosi. C'è un basso fuzzato e ultra-minimale, poi ci sono un tom e un timpano, uniche forme di percussione e fautrici di ritmi anemici e moviolati.
Non c'è traccia di violenza nei Coconuts: infatti la voce è un lamento anemico a tono, quasi un timbro soffice che stride con l'assurdità del suono. Tutto irrimediabilmente riverberato, proprio a dare l'idea della profondità, di un sound che sembra provenire da sottoterra. Tutto con greve sentore di debolezza, di arrendevole abbandono, di spettri dalle forme indefinibili.
Saremo in 4 o 5 a filarceli, perchè chiunque si avventurerà in questi cunicoli si affretterà ad indietreggiare verso l'entrata, ripugnato.
Senza speranza.

Cloudland Canyon - Silver Tongued Sisyphus (2007)

Non male queste due facce, e curioso il background: un chitarrista tedesco militante in una band stoner-rock e un fiatista americano facente parte della sezione di un combo rhythm'n'blues, incontratisi per caso, davano vita ad un progetto di estremo tributo ai classici galattici tedeschi degli anni '70, con il patrocinio della Kranky.
Silver è un EP di trenta minuti, due tracce di uguale durata. L'unico aggiornamento con meno di 30 anni può essere la messe di glitches e manipolazioni di tapes che infestano l'inizio di Dambala, statico insieme di drone galattici per la prima metà. Quando tutta la nebbia si dissolve arrivano le note di un piano minimalistico a cui ben presto si aggiungono stratificazioni di synth bucolico. Se non è un outtake dei Tangerine Dream di Alpha Centauri, poco ci manca.
Peccato che siano passati quasi 40 anni. Si spera in qualche news nella title-track, perlomeno per l'arrivo della batteria. Intro ambient per moog e piano rhodes, molto suggestiva, poi la ritmica in loop, una chitarra distorta in sottofondo, coro solenne quasi baritono (si direbbe abbassato al mixer), Silver Tongued Sisyphus è un escursione space-rock non particolarmente memorabile.
Merce esclusivamente riservata ai fanatici del genere, vista la ben poca presenza di interventi personalizzati.

venerdì 16 luglio 2010

Clouddead - Clouddead (2001)

Anche questo nasce dalla curiosità di svangare nella classifica dei best del decennio di Blow Up: almeno 5-6 firme hanno inserito questo disco e allora ho pensato, bè lo snobbai per prevenzione quando erano pompatissimi e perchè non sentirlo ora?
Prevenzione perchè io ho sempre detestato il rap, o hip-hop o come lo si voglia chiamare. Sono allergico a quella che definisco, più che musicale, una forma di intrattenimento messa in atto da poseur che snocciolano rime all'infinito, senza pressochè alcuna velleità letteraria e/o artistica.
Se poi mi vengono in mente i rapper italiani, poi, la pelle d'oca è quasi istantanea.
Comunque, questo trio americano ebbe la sua bella riconoscenza all'uscita del primo omonimo, che poi consisteva in una raccolta di 6 singoli tutti usciti in precedenza. Blow Up, come detto, impazzì per loro e io l'ho sentito solo adesso. Le sonorità sono davvero affascinanti e ci sono dei momenti molto alti: Apt. A (2), I promise never to get paint...(2), Bike (2), Jimmy Breeze (1), su tutti. E' un disco colorito e vario, in cui si mette in scena una sorta di rap cosmico e dopato oltre misura, costituito essenzialmente di beat-boxes, synth e samples come di rigore, con ritmiche lente e strascicate, ottimi momenti di ambient pura (Clouddead number five 1+2), trafigurazioni e paradossi surreali. Certo, il rappato non manca e per la mia allergia non è un gran bene, ma non inficia la qualità strumentale di fondo di questo bel dischetto. A detta di tutti, molto innovativo. Io sono troppo limitato per poterlo giudicare.