A modo suo, il leader Jones si inventa una collezione sottilmente lo-fi, quasi pigra nello svolgimento, all'apparenza fragilissima e con qualche inflessione jazzata, in grado di affascinare anche dopo ripetuti ascolti, che oltre alle songs ha il suo punto di forza nella strumentazione ricca e pennellata con creatività. La sua voce è un tremito incerto e appena soffiato sul microfono.
Nonostante il primo titolo in scaletta sia la splendida Spring, il clima sembra parecchio autunnale, se non da camino in sala. Sembra proprio che sia stato registrato in una piccola stanza, con strumenti da 4 soldi (chitarrine, organetti, bonghi e percussioni di fortuna) quando non subentra un bel contrabbasso nobile (la divina Straight Line), o un bel paio di fiati fantasiosi che fanno tanto slow-jazz fumoso in coppia con la batteria spazzolata, nella chiusura stellare di Structure and form.
Fountains è il pezzo più completo ed arrangiato, al punto che sembra una festicciola al confronto delle scarne elucubrazioni di New leaves e Mimosa. C'è qualche punto di contatto con i contemporanei Cerberus Shoal, specialmente per qualche tratteggio etnico, ma laddove gli americani peccavano di eccessiva dispersione, qui i bristoliani sguazzano nella fresca rugiada di un sound avvolgente, degnissimi eredi delle ultime concessioni di talento infinito di Mark Hollis (che se per caso avrà ascoltato, sono sicuro avrà apprezzato).
Una splendida passeggiata.
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