mercoledì 29 dicembre 2010

Levitation - Need for not (1992)

Travagliatissimo quintetto inglese capeggiato da Bickers, personaggino inquieto che era stato sbattuto fuori dagli House Of Love per aver dato fuoco ad una pila di soldi...Ed in effetti il suono dei Levitation era alquanto nevrotico, lasciava poco spazio alle melodie lineari, proponeva break e piccole orchestrazioni acrobatiche che facevano ricomparire il tanto famigerato fantasma del progressive, così abiurato ai tempi....
Ciò nonostante la stampa li esaltava e le porte del successo sembravano potersi aprire. Oltretutto ricordo un'intervista a Ciccio Smith in un Rockstar del 1992, in cui li nominava come un ascolto preferito. In certi punti (il bellissimo break strumentale di World around, o lo spleen galattico di Resist) faceva capolino per l'appunto una lieve influenza Cure. Il chitarrismo arzigogolato di Bickers e il dispiegamento di tastiere didascaliche (Pieces of Mary) portavano ad alcune derive psichedeliche. Proprio quelle che, esattamente come il prog, venivano isolate quando non derise dalla stampa inglese. Occorre anche dire però che i Levitation avevano il punto di forza propulsivo in Francolini, un batterista autenticamente posseduto dal demonio, che suonava ogni rullata come se fosse stata l'ultima della sua vita.
Con tali premesse, Need for not sarebbe potuto diventare un capolavoro, ma non lo fu perchè le idee, anche quelle migliori, finiscono per amalgamarsi male e far perdere spesso il focus del lavoro. Insomma, mancò omogeneità al risultato finale e i Levitation forse avrebbero potuto rimandare il target al disco successivo, non fosse stato che nel 1993 un Bickers sempre più schizofrenico durante un concerto confessò al pubblico il suo disagio e si chiamò fuori, decretandone di fatto lo scioglimento.

martedì 28 dicembre 2010

Laughing Hyenas - You Can't Pray A Lie (1989)

Barbari, selvaggi, caotici, i LH erano la naturale reincarnazione americana dei Birthday Party all'epoca del primo noise-rock. Quindi di discendenza hardcore, quindi spogli di qualsiasi velleità barocca e/o gotica. In compenso, il vocalist Brannon era una versione grandguignolesca di Cave, dotato di un ruggito aggressivo monocorde e costante, senza quasi mai mollare la presa coi denti, e pensare che in quei pochi attimi in cui canta normalmente (Dedication to the one I love) mostrava di avere anche un bel tono. Chiaro che alla lunga finiva per essere il tratto distintivo maggiore della band, rischiando quasi di oscurare il trio che lo sosteneva che era di assoluto valore. La chitarrista Strickland proponeva un rifferama ipnotico e ultra-tagliente, la ritmica di Munroe e Kimball aveva ottima pasta da maneggiare.
Poi c'era l'elemento blues, per dirla alla Cows, newyorkesi quasi coetanei che lo presero allo stesso modo. Non voglio fare paragoni con il compianto Cpt. Beefheart, e non perchè siamo in tema di necrologio, ma perchè dopotutto qui le strutture erano inserite in un contesto compatto e con pochi scopi se non di incutere timore e sarcasmo.
Quindi, noise-blues da macelleria, che forse suona un po' limitato nella produzione troppo compressa ma fa ancora il suo bell'effetto nevrotico.

lunedì 27 dicembre 2010

Lanterna - Lanterna (1995)

Niente a che vedere con Genova, bensì Henry Frayne. Un chitarrista dell'Illinois che nei primi anni '90 provò a sfiorare il successo con i Moon Seven Times, band shoegaze che incise 3 dischi su una sussidiaria major e poi scomparve nel nulla.
Da allora Frayne ha condiviso il suo lavoro di ingegnere del suono presso una radio con il discorso Lanterna, un progetto che, pigramente, ha realizzato 5 dischi in 15 anni, con l'aiuto del batterista Gamble, anche lui ex-M7T.
Questo debutto è al 95% strumentale ed è un bellissimo viaggio. Le chitarre sono ricche di delay come da vecchio copione shoegaze, ma Frayne ostenta un gusto esplorativo davvero unico, senza mai uscire dalle righe, senza velleità sperimentali alcune, soltanto con la voglia di far rilassare la mente.
E' un disco lungo e ricco di spunti, talmente leggero che come finisce viene voglia di rimetterlo su dall'inizio. Anche perchè il primo pezzo, Silent hills, è una bellissima divagazione ethereal-morriconiana. Quando Frayne ha voglia di muoversi un po', rivisita la new-wave con le cascate elettriche e la frenesia di Turbine. Di fascino gotico si nutre la lenta 1985, Dark Spring è un volo sul canyon. End of the tunnel, Dragon season, Slides, sono soltanto fra le prime scelte in mezzo a questo prato multicolore in cui si respira aria pungente e sbarazzina, in cui ambient, un po' di elettronica, qualche svisatina blues e/o folk e tanto altro concorrono all'estrema godibilità di Lanterna. Il cui finale, Puerto de la luna, è un solo chitarristico di quelli che l'estate suoneresti sul balcone di casa, come degna sigla di buonanotte, contro i grilli e le cicale.

domenica 26 dicembre 2010

Mark Lanegan - Whiskey for the holy ghost (1993)

Il fotogramma è importante: il vocalist capellone che smette i panni di frontman elettrico e si ritira nella campagna, a catartizzare i problemi e gli eccessi. A dimostrare che Winding Sheet non era solo un una tantum, ma uno stato d'animo, una nuova veste.
Per me l'inquadratura perfetta sta in Riding the nightingale, il preferito: chitarre acustiche cristalline, motivo tenue ossessivo con una sola variazione, ed una performance vocale da brividi come solo Lanegan può fornire.
Whiskey è un compendio folk multi-umore che si adatta a qualsiasi stagione. Solo El Borracho è pienamente elettrica, un vortice quasi violento. Ma dopo si fa il vuoto col trittico memorabile di Kingdoms of rain, Carnival e la sopra-citata Riding. Come nel precedente, Johnson è il deus-ex-machina musicale che si occupa di arrangiare e suona più o meno tutto. Sunrise è un tripudio silente di organi e voci femminili, Judas Touch è la sua Needle and the damage done.Prevale il disincanto, l'ambientazione allegra e rasserenata, in netto contrasto col periodo difficile che l'uomo stava attraversando. Ancora oggi non so se preferire questo o Winding sheet, l'unica cosa certa è che dopo Lanegan non saprà più tornare a questi livelli.

Lambchop - I hope you're sitting down (1994)

Mi è sempre stato molto simpatico, Wagner, con quel cappellino col maiale o il cavallo disegnato in fronte. Non è che sia un fanatico del country, a meno che non si parli di Will Oldham ai tempi d'oro. E' che quando uscì il debutto della sua orchestra Lambchop si fece un gran parlare ovunque di questo disco che, recuperato dopo 16 anni suona ancora contrastante.
I Hope è un disco lunghissimo, talmente lungo che ci si dimentica delle sue piccole gemme incastonate lungo il percorso. Sono gli arrangiamenti certosini e raffinati a fare la sostanza, in un impianto logicamente semi-acustico, ma Wagner a tratti dimostra anche la stoffa dell'autore di razza. Because You Are the Very Air He Breathes con le sue chitarre lunatiche very very Young, Hickey con la sua atmosfera notturna e le slide a languire, Let's go bowling con il suo refrain circolare, Soaky in the pooper con i fiati a sostenere un motivo tenue e fragile.
Alla lunga si soffre dei tanti riempitivi o standard poco più che evitabili, cosa che ritengo fosse dovuta ad un auto-indulgenza che si respira più o meno ovunque.

giovedì 23 dicembre 2010

La Otracina - The Risk of Gravitation (2008)

Sembra quasi incredibile che lo space-rock, vecchio e consumato com'è, possa ancora generare mostri dalla forma smagliante e con la forza giusta.
E' il caso di questo progetto newyorkese, curiosamente guidato dal batterista/cantante Kriney, che sa essere veramente cattivo nelle sue orbite, riuscendo quasi a sorpassare per impeto anche i grandi Comets On Fire di Field recordings from the sun, seppur con uno stile sensibilmente diverso (meno compatto, si potrebbe dire).
Un power trio che ha visto parecchi cambi di formazione, anche se il bassista Sobel mantiene il posto da qualche anno. Non è chiaro se in The Risk of Gravitation ci fosse ancora l'italiano Morgia, comunque è un disco davvero impressionante per energia e grinta sprigionata. Dopo un breve frammento free-space-jazz, i La Otracina partono con la martellante Raze the sky, che si sgrana in una durissima jam dai volti multipli. Kriney svolazza su pelli e tamburi con grande competenza, si susseguono acidi assoli sia di chitarra che di basso. Lo spazio lasciato all'improvvisazione è notevole, ma le strutture sembrano comunque ben definite.
Il roboante caos di Behind the Ocular Curtain è un ammasso di iperboli elettriche dall'effetto allucinante. Un'impronta pesantamente blacksabbathiana/bluecheeriana affiora nei 10 minuti Crystal Wizards of the Cosmic Weird, anche se la fase discendente in picchiata è uno dei momenti più emotivi del disco. Fight for the night è il pezzo sicuramente meno ostico, con la sua ritmica metronomica costante che stride rispetto agli sballi terrificanti della media.
An ancient confusion chiude con un abominevole impro fatta di pulsazioni atomiche, interferenze radio e testosterone randomizzato.
Parlare di free-jazz, in queste fasi di libertà disorganizzata, mi sembra un po' eccessivo, però credo che bisogna dare ai La Otracina il merito di avere un approccio tutto proprio a quello che, come si diceva, è un genere vecchio come il cucco e praticamente impossibile da innovare.

mercoledì 22 dicembre 2010

LA Dusseldorf - LA Dusseldorf (1976)

Naturale che vengano dei dubbi.
Un anno soltanto dopo il superlativo Neu! 75, Dinger debuttava con i LA Dusseldorf, reclutando il fratello e Lempe, che già in precedenza avevano collaborato negli shows dei Neu!.
Per cui, se la carica eversiva ed innovativa di '75 mi è sempre sembrata più farina del sacco di Dinger, questo invece mi fa riflettere e non poco. Quattro brani, di cui tre molto lunghi, e pochissime idee. E manca un certo Rother, eccome se manca!
Sostanzialmente per me i LA Dusseldorf sono stata un enorme delusione. Non tanto per la relativa accessibilità delle melodie, che ci potevano anche stare, ma per la monotonia immane che pervade il disco dall'inizio alla fine. Gli arrangiamenti sono ricchi di tastiere e c'è qualche chitarra acidula, le ritmiche sono metronomiche come da copione anche se manca il classicissimo motorik, ma Dinger come cantante pop non funziona per niente e i pezzi sono estenuanti nelle loro tiritere. Non c'è più nessuna traccia della voglia di avventura dei Neu!.

lunedì 20 dicembre 2010

Kustomized - The battle for space (1995)

Quartetto dalla vita relativamente breve su Matador, fronteggiato dall'ex batterista dei Mission Of Burma, Prescot, reinventatosi come cantante / chitarrista.
Punk'n'roll screziato di wave primitiva per i Kustomized, qui al 2° disco di 3. Grezzi e ruvidi, senza dubbio pagavano un dazio notevole al gruppo madre del leader, dandone una versione però molto meno creativa, senza le sottili sperimentazioni. Qualche scoria dei primi Husker Du, se non addirittura dei Wire di Pink Flag. Man mano che il disco scorre i limiti però vengono fuori impietosamente, per fortuna che la traccia numero 7 salva il disco da un disastro: The place where people meet è un devastante treno in corsa, degno dei Killing Joke più feroci. Nel finale si cerca di divagare un po' dalla noia generale con la marcia spettrale di La geune o col violino che s'insinua nel tessuto joydivisioniano della lunga Air freshener. Ma sono solo piccoli salvagenti che non impediscono ai Kustomized di cadere nel dimenticatoio dei '90.

domenica 19 dicembre 2010

venerdì 17 dicembre 2010

King Crimson - Red (1974)

Che strana combinazione di eventi, Red. Nato da una situazione di precarietà estrema, esce quando i KC di fatto sono già sciolti. La sua realizzazione avviene con un Fripp sfiduciato e stanco, che delega come mai aveva fatto in passato. Wetton e Bruford perciò prendono in mano la baracca, Cross aveva appena abbandonato e che cosa succede? Ne consegue il disco migliore di tutta la carriera, insieme ovviamente al primo storico. Due apici lontani anni luce, e pensare che erano passati appena 5 anni e i KC (anzi, Fripp) avevano vissuto molto velocemente.
Innanzitutto, la title-track, un mostro tentacolare, un apertura shock. Un violento strumentale ricco di tempi dispari (courtesy un Bruford stratosferico) e bombardamenti chitarristici che di fatto inventa il rock matematico, che influenzerà non poco un istituzione degli anni '90 come i Don Caballero. La drammatica Fallen angel è principalmente farina del sacco di Wetton, che impone le sue eleganti linee vocali e il basso legnoso, e si fregia anche di ospiti di lusso come Charig e Miller ai fiati. Un altra intro granitica alla Red presenta One more red nightmare, che include invece il grande ex McDonald con un assolo di sax ed è forte di una struttura avvincente e progressioni armoniche da brividi. E' quasi paradossale che Fripp abbia la consapevolezza di non avere nulla da perdere, e sfodera comunque l'ennesima prova fenomenale.
Providence è un live di qualche mese prima, che quindi comprendeva anche Cross ed è avanguardia pura, una specie di free-jazz in crescendo, che disorienta e minaccia.
Il mellotron e l'enfasi cosmica dell'inizio di Starless fanno pensare ad una nuova Epitaph, con la differenza della robusta voce di Wetton, fino a quando la fase ostica non prende il sopravvento. Un'altro dei momenti topici di tutta l'opera del KC, i secondi 6 minuti del pezzo sono un escursione ossessiva per i deliqui di Fripp, la ritmica pesante ed un altro recupero, il sax del sempre impeccabile Collins.
Un finale tragico e solenne, che chiude in grandezza il circolo della prima fase. Red è un capolavoro che a quasi 40 anni dalla sua genesi appare sempre attuale e decisivo negli sviluppi futuri.

mercoledì 15 dicembre 2010

Khanate - It's Cold When Birds Fall From The Sky (Live 2005)

Doveva essere un esperienza terminale vedere i Khanate dal vivo e farsi imbarcare nella loro orrorifica moviola, con tutti gli effetti collaterali del caso.
Non so quanto pubblico assistesse a questi temibili sets, ma un dettaglio che si coglie molto bene, in corrispondenza dei numerosi silenzi, è che non si sente pressochè volare una mosca.
Questo documento magnificamente registrato (peraltro in location diverse) raccoglie 3 mastodonti registrati durante il loro ultimo tour. Due sono Capture e Release, ovvero l'EP che era la loro pubblicazione più recente, e Pieces of quiet dal primo album. Rispetto al capolavoro Things viral, l'EP si caratterizzava per una maggior durezza in Capture e in una rarefazione più organica in Release.
Ma non è che ci sia molto da descrivere in queste profonde catastrofi. Nella prima, il grido acutissimo di Dubin si fa ancora più raggelante col delay. Nella seconda, spicca la fase centrale in cui Plotkin e O'Malley incrociano le corde in una quieta (de)composizione, senza neanche il supporto di Wyksida. Il batterista, per l'appunto, è figura e perno cruciale come si può evincere dai video presenti su Youtube, è lui che fa il navigatore della macchina ultra-doom più sperimentale di sempre.
E ostica. Ma io oggi non riesco a smettere di ascoltare It's cold e di recuperare i 3 album pubblicati in vita. La grandezza dei Khanate è stata anche nel sapersi fermare al momento dello zenith artistico; non era detto che la formula potesse evolversi (anche se le outtakes pubblicate l'anno scorso su Clean hands go foul facevano intendere possibili, grandi sviluppi) e ciò che hanno prodotto sta lì a fregiarsi magnificamente.
Mortali, insuperabili.

lunedì 13 dicembre 2010

Kepone - Skin (1995)

Noise-Punk a rotta di collo per questo trio virginiano che fece tre dischi a metà nineties sulla gloriosa Quarterstick, succursale della T&G che ad un certo punto rischiava quasi di superare la casa madre come qualità media dei prodotti.
Chitarre torrenziali, ritmiche serratissime e voce che si divide fra urla feroci e cori doppiati in stile hardcore, queste le principali caratteristiche di Skin, l'album del mezzo, a mio avviso il loro migliore. Un ibrido interessante in quanto non erano abbastanza devastati da essere newyorkesi ed erano tecnicamente bravi per essere punk. La compattezza complessiva del disco è un punto di forza, ma come spesso succede sono le varianti ad attirare più curiosità, nonostante la bontà della proposta generale. La malsana Thin solution scomponeva l'omogeneità precedente con una perversione sonora impressionante. Piazzati a metà del disco, i due esperimenti (per modo di dire) aiutano a riprendere fiato. Ed's sad party è un assolo tribale di batteria, assolutamente inusuale per l'ambiente underground americano, che quando vede l'ingresso di basso e chitarra si tramuta in un wall of sound minimale quanto efferato. Idiot ball drop invece è un malinconico ed accademico solo di piano, dai clangori sotterranei che crescono di volume fino a sotterrarlo.
Nello stile più convenzionale i pezzi che convincono maggiormente restano la spettacolare Velveteen e la problematica Blue-Devil.In sostanza un discreto gruppo. Certo che però nel 1995 di grandi dischi ne uscivano e anche parecchi...

domenica 12 dicembre 2010

Tre Anni di T.M.

Un 2010 tormentatissimo per T.M.
Il 19 aprile alle 22.10 Blogger, su insistenza della stramaledetta DMCA, ha chiuso il T.M. originale. Immediatamente ho aperto il #2 con ingenuità, in quanto non immaginavo che ad una nuova infrazione mi avrebbero chiuso anche quello. Per cui ho dovuto aprire un nuovo account personale e, con tutte le precauzioni del caso, varare il #3.
Nel frattempo, scopro che molti blog che seguivo da tempo hanno subito lo stesso destino di #1 e molti links vengono cancellati senza alcuna notificazione.
Vita dura?
Macchè, il divertimento è immutato.... :-)

I 10 dischi più scaricati ad oggi
1. Kasabian - 2004 Kasabian
2. Godspeed You Black Emperor! - F#A#(Infinity) (1998)
3. Death Cab For Cutie - We Have The Facts And We're Voting Yes (2000)
4. Replacements - Tim (1985)
5. Mission Of Burma - Vs. (1982)
6. Cave In - Jupiter (2000)
7. Helios - Eingya (2006)
8. Flaming Lips - Telepathic Surgery (1988)
9. Cat Power - The Covers Record (2000)
10. Husker Du - Warehouse Songs and Stories (1987)

Keiji Haino - A challenge to fate (1995)

Questo è un artista che devo approfondire, anche se non dev'essere facile orientarsi visto che è effettivamente 30 anni che KH pubblica musica e oltretutto a valanga. Qualche anno fa approcciai questo A challenge to fate, che uscì in un momento in cui se non ricordo male veniva citato dai Sonic Youth come una specie di icona.
Occorre più di un ascolto per capirlo, almeno in questo capitolo. Tornandoci sopra con insistenza, comprendo meglio molte cose. Come altre mosche bianche giapponesi, KH è un artista a sè, un chitarrista improvvisativo. Ci sono veri e propri banzai rumorosissimi (Not beginning, The born one, You who will...) in cui le distorsioni maniacali e la vocalità schizoide incutono vero timore.
Ci sono conati orrorifici (First, Second, Third blackness) che sembrano incroci fra le urla di un lottatore di sumo, barriti di elefante e rantoli di chissà quale bestia alterata.
Il meglio di sè KH lo dà quando si tranquillizza, stacca il distorsore e va in trance. What stalking fate è un trip surreale per arpeggi inquietanti e voce estatica/angelica. My only friend, Become one hanno una serenità ancestrale, quasi da levitazione. Appena appena più marziale The curse that..., con i riverberi chitarristici a stratificarsi fino alla catarsi, un suono davvero affascinante.
Ed il finale quasi new age di Affection, col suono acuto di un triangolo (?) che scandisce un tenue coro gregoriano per circa dieci minuti. Sì, occorre approfondire con qualcos'altro.

Keiji Haino - A challenge to fate (1995)

sabato 11 dicembre 2010

Karate - Cancel / Sing EP (2002)

Concepito come esperimento di estensione temporale, Cancel/Sing è un EP di due pezzi che si sviluppano oltre i dieci minuti, in netto contrasto pertanto alla classica forma canzone su cui si erano sempre concentrati. Un paio d'anni prima Unsolved aveva cambiato totalmente le carte in tavola dei bostoniani, e dopo qualche mese dall'EP avrebbero rilanciato con Some Boots.A mio avviso, l'esperimento fu brillantemente positivo. Cancel inizia con fare ombroso e compassato, con quell'indie-jazz pulito ed ordinatissimo ed il solito Farina a svisare con maestria. Al sesto minuto però succede qualcosa di inatteso; il ritmo si fa marcia frenetica, l'ordine si sgretola lentamente, la chitarra diventa nebulosa iridescente. E' una fase mistica, una liquefazione sonora che porta magicamente il pezzo alla fine.
Sing ha una struttura simile, ma c'è una maggior tensione (e qualche reminescenza dei primi due album nel songwriting). Al decimo minuto, arriva di nuovo il trip cosmico con McCarty a svolazzare sui piatti, Farina in feedback galattico e l'effetto è ancora stupefacente. A differenza di Cancel, però, il pezzo si rianima e parte con una sfuriata degna del capolavoro In place of real insight.
Ottimo ed abbondante.

mercoledì 8 dicembre 2010

June Of 44 - Anahata (1999)

Nell'impossibilità di poter replicare il loro capolavoro dell'anno precedente, Four Great Points, e forse con le teste già altrove (chè fisicamente erano sempre stati distantissimi, così sparsi per gli Usa), i June Of 44 tentarono comunque un nuovo approccio stilistico prima di sciogliersi. Anahata vede scenari meno burrascosi che in passato, con l'impiego di chitarre quasi mai distorte e varianti sonore non da poco, come l'utilizzo frequente della tromba da parte del bassista Erskine. O come la tendenza di Scharin ad elaborare ritmiche sempre più distanti dal rock, ovvero dirette a quel world globalizzato ben impersonato nel progetto personale Him.
Anche nelle voci; il carico rauco e cupo di Mueller scompare, in favore di un recitato sgraziato (penso appannaggio di Meadows) che forse si sarebbe potuto evitare. Ma nella sostanza Anahata resta un disco non troppo focalizzato, in cui i momenti migliori sono la rilassata Cardiac Atlas, la percussività insistita di Equators to bi-polar, il dub vibrafonato di Southeast of Boston, e il quarto d'ora di Peel Away Velleity, che inizia con la tempestosità dei primi dischi, prosegue con una fase psichedelica che vede la tromba ancora protagonista e termina con una coda ambient-minimalista, a chiusura delle trasmissioni per uno dei gruppi più importanti della seconda metà dei '90.

martedì 7 dicembre 2010

Julie's Haircut - Fever in the funk house (1999)

Lungi da me essere un esterofilo a priori, ma il college-rock dei modenesi (almeno ai primi tempi come in questo caso) non mi ha mai detto un granchè. E neanche dopo quando hanno iniziato a spingere verso altri lidi meno immediati.
Ciò non toglie che Fever resti un dischetto fresco ed epidermico, ma resta anche ben poco di memorabile non appena finisce. Il problema è che l'indie-pop da cui prelevavano a piene mani era già fuori tempo massimo alla fine dei '90, e di certo la loro intenzione non era di operare una innovazione ma di divertirsi e creare jingle-jangle a presa diretta, ora più fragorosi ora più tendenti alla ballad elettrificata.
Da prendere pertanto così. Emil-college.

lunedì 6 dicembre 2010

Joy Wants Eternity - You who pretend to sleep (2007)

(2) Spuntano come funghi. Hanno nomi lunghi, evocativi e talvolta persino pomposi, etc etc....Così succede, di trovarsi nel bosco. Alla ricerca di perle nascoste in quel filone che probabilmente è stato il mio preferito dell'ultimo decennio, mi sono avventurato nella ragnatela dei similar artists che molto democraticamente gli utenti di what.cd eleggono, in questo caso specifico degli Explosions in the Sky. Ed è una pesca che statisticamente non può andare sempre bene, chè altrimenti tutto sarebbe oltremodo inflazionato. Così, per un paio di brillantissime rivelazioni (If These Trees Could Talk e You May Die In The Desert su tutte), capitano anche i meri cloni come questi JWE di Seattle, che più che dai texani mi sembrano tuffarsi a pesce nell'universo Mogwaiano senza tanto ritegno.
Pertanto, You who pretend to sleep risulta dischetto ben fatto e di gradevole ascolto per chi ama il genere, ma che alla lunga ti fa credere di essere capitato veramente in una raccolta di outtakes periodo Rock action - Happy songs for happy people, con qualche puntata neanche tanto opportuna verso il Texas tanto amato.
Passare oltre.

venerdì 3 dicembre 2010

Journey To Ixtlan - Journey To Ixtlan (2008)

Ennesimo, lampante esempio di come la psichedelia (quella vera) sia uno stato d'animo in grado di auto-riciclarsi all'infinito reinventandosi, se affidata nelle mani giuste come nel caso di questi californiani (io non ci credo che sono quelli nella foto, ma non sono riuscito a trovarne altre in rete) che sepolcrarizzano, impolverano, imbastardiscono una fusione inusitata di doom, ambient e lisergie assortite con un aureola costante di misticismo.
Più che odore di incenso e marijuana, si sente una fragranza stranissima, elaborata in chissà quale circostanza. JTI è un disco avvolgente che conquista ascolto dopo ascolto, che arrivato alla fine ogni volta mi ammanta di mistero ed incoraggia a far ripartire la tracklist per (cercare di) capirci qualcosa in più.
E dire che non ci sono artifizi di nessun genere: Pueblo è una marcia solenne scandita da bonghi e una elettrica solista sulfurea, che mi fa pensare ad un'altra mosca bianca che mi ha entusiasmato nell'ultimo anno, i Coconuts, sbalzati da NYC direttamente al deserto del confine col Messico.
Una cosa davvero atipica è il lavoro vocale, che entra in scena con il drone di organo di Spiritual delousing; una sorta di gorgoglio deforme, un growl alla moviola che sembra provenire dal sottosuolo, demoniaco! The mesa è il capolavoro del disco, davvero indefinibile, con quella sub-voce a scandire su un tappeto tranquillo di tom e deliquio chitarristico. I Blues Control ubriachi a Tijuana, per dire.
Corpse of the mesa, drone organistico da setta satanica. The cactus shrine, epica favoletta con flauto svolazzante. Pyramids of light, la versione doom dei corrieri cosmici. Dawn of the nagual, strimpellio stentoreo d'insubordinazione. Burnt coyote teeth, doom cosmico tribale dai deliri vocali incontrollati. Codex of crows, chiosa ambient da purgatorio al ballottaggio.
Un disco che ha gli stessi suoni del 1972, ma con una tale deviazione concettuale che non sarebbe potuto che uscire dal deserto californiano nel 2008. Attendo un seguito da questi folli misticisti.

mercoledì 1 dicembre 2010

Johnboy - Pistolswing (1993)

Il noise degli anni d'oro non era solo New York. Nell'assolata Austin c'era questo trio che ebbe vita molto breve (solo due album nel biennio 93-94 e poi la scomparsa), ma realizzò in particolare un esordio in grado di eguagliare gli esordi devastanti di Helmet ed Unsane in quanto ad efferatezza spietata.
Un disco apocalittico, rovinoso, una cascata continua di rumore catramato, Pistolswing. Nonostante i pezzi finiscano per assomigliarsi un po' tutti, è la loro esecuzione che toglie il fiato, un martellamento continuo che si auto-cementa grazie alle raffiche chitarristiche urticanti, le ritmiche vorticose e le vocals feroci, alla Unsane per l'appunto. Qualche maceria math-core poi rende il tutto ancora più notevole, visto che i Don Caballero esordivano quello stesso anno.
A titolo di bonus track ho inserito Bob And Cindy, il pezzo con cui contribuirono al sample della illustre Trance Syndicate I cinco anos, in quanto a mio avviso rappresenta il manifesto propositivo dei Johnboy, col suo delirio di stop & go, di stratificazioni e climax rumoristico, fino allo sfumare finale che lascia con un senso di oppressione e claustrofobia difficilmente replicabile.

lunedì 29 novembre 2010

Jesus And Mary Chain - Psychocandy (1985)

Scopiazzando in quà e in là dal passato (Velvet Undrerground su tutti), i Jesus And Mary Chain guadagnarono la gloria con un intuizione che nessuno ai tempi aveva ancora elaborato: affogare innocui motivetti in quintalate di fuzz e distorsioni.
A dir la verità, Psycho candy vive un dualismo che alla lunga rende il disco godevolissimo anche dopo un quarto di secolo; le ballad quiete e zuccherose (Just like honey, Cut dead, Some candy talking, Sowing seeds) semi-acustiche e dirette eredi del jingle-jangle anni '60 evidenziano comunque una buona scrittura pop da parte dei fratelli Reid. Ma ciò che rese famosi i JAMC erano per l'appunto gli ispidi e fischianti treni di The living end, In a hole, Never understand, Inside me (i migliori), indiavolati manuali di punk-pop altamente infiammabile.
Un ambito che poi finiranno per abbandonare progressivamente verso un easy listening-indie di maniera, mentre intanto la legione di complessi a loro ispirati inizieranno ad accalcarsi sullo scenario shoegaze di fine '80 inglese.

domenica 28 novembre 2010

Jesu - Jesu (2005)

Il grande ritorno di Broadrick con una nuova creatura, in grado di salire un altro scalino di innovazione dopo le imprese dei Godflesh negli anni '90.
La trovata di Jesu, che non esito a definire geniale, sta nel concetto: stessi chitarroni, stessa pesantezza ritmica, ma con un apertura ad atmosfere di grande luce e respiro, e novità assoluta, le linee vocali. Non più growling feroce, bensì canto modulato a voce tenue, spesso raddoppiato, quasi angelico ed estasiato.
Come definirlo: dream-doom, shoegaze-metal, indie-industrial? Non importa, basti prendere i pezzi migliori di Jesu per capire e farsi avvolgere all'ascolto. Tired of me, Walk on water, Sun day, Friends are evil, sono elegie catramose ed evocative, in cui fanno comparse decisive anche tastiere ed organi aciduli ad ispessire il clima da sogno generale.
Di maggior cupezza, ma non per questo inferiori, ci sono anche i cingolati luminescenti di Your path to divinity, We all faulter e Guardian angel. L'unico pezzo in stile Godflesh anche col canto, Man/Woman, finisce per essere quasi disturbante.
Un marchio spiazzante, quello dei Jesu, che si ripeterà con grandi risultati anche sul successivo Conqueror.
Un panzer da estasi.

venerdì 26 novembre 2010

Jessamine - The Long Arm of Coincidence (1996)

Band dell'Ohio protagonista della prima gloriosa stagione della Kranky, nella seconda metà degli anni '90. Questo secondo album propone una psichedelia abbastanza particolare in quanto gli sbraghi acidi di chitarra e organo vengono ancorati da una sezione ritmica elastica e granitica, in particolare il basso pesante di Smithson, mixato notevolmente alto (forse anche troppo).
Il canovaccio portante dei Jessamine sta in lunghe improvvisazioni in cui il quartetto si compiace un po' troppo delle proprie capacità, spesso strumentali (le parti vocali erano anche evitabili, vista la poca consistenza) e dilatati all'impossibile. Le frasi di organo possono riportare a certe formazioni dei tardi '60, quando non ai Pink Floyd più oscuri. La ritmica saltellante che spesso sale alla ribalta fa venire in mente i Can.
Occorre riconoscere ai Jessamine una certa competenza in materia lisergica, oltre che meramente di tecnica, ma Long Arm of coincidence alla lunga finisce per stancare un po', denotando un autoindulgenza paurosa.

mercoledì 24 novembre 2010

Peter Jefferies & Jono Lonie - At swim two birds (1987)

Si sa, da cosa nasce cosa e così la scusa è buona per farne un altro di Jefferies, oltretutto questo non fu proprio solista ma realizzato con tal dei tali Jono Lonie, chitarrista / violinista del tutto sconosciuto (immagino neozelandese anch'egli), che in rete viene menzionato solo esclusivamente in relazione a questo magnifico disco realizzato in pochissime copie nel 1987, appena alla fine dei This Kind Of Punishment.
At swim two birds nasce da un netto contrasto: la forza impressionista e sovversiva di Jefferies contro il surreale onirismo di Lonie. E il risultato finale è un mix variegatissimo di entrambi, con un equilibrio che ha del miracoloso. Quando predomina il primo, i toni sono grevi e drammatici (il martellamento pianistico di Thief with the silver, l'ipercinetico schizoide di Interalia). Ma sommando le parti, appare chiaro che è Lonie il vero conduttore del filo: i riffs sanguigni e i vagiti deformati di The standing stone, il drone siderale con violino della title-track, i loop sinistri di Tarantella, la psichedelia deforme di Where the flies sleep, nonchè la serenità della magica Aerial, mostrano tutte un vero e proprio visionario dedito a forme atipiche personalissime, ad un raggio pressochè illimitato.
Un vero delitto pertanto, che si sia trattato di un episodio una tantum, visti anche gli apici che i due raggiungono quando trovano un punto d'incontro ideale. Piano (One) si apre con una frase pianistica di Jefferies a cui si aggiunge prima un languido violino, poi basso e chitarra effettata, per una piece di eleganza e raffinatezza assolute. Per non parlare della Piano (Two) che chiude il disco con le sue atmosfere neo-classicheggianti da camera ed uno spartito struggente, una sigla finale da restarci incantati.
Già Jefferies ha fatto i salti mortali per farsi conoscere ad una ristretta cerchia di appassionati nel mondo, immagino che questo Lonie sia un musicista rimasto confinato in NZ, a sprecare il suo talento per pochissimi isolani. Ma in fondo è anche questo il bello della musica: che le pepite vanno cercate con cura e senza fretta. Sempre.

martedì 23 novembre 2010

Peter Jefferies - Substatic (1998)

E' sempre bello scoprire così, quasi per caso, i geni incompresi, gli assi misconosciuti. Mi succede raramente, tipo una o due volte all'anno, ed è una soddisfazione. L'ultima della serie è questo neo-zelandese che fu protagonista e prime-mover della prima scena nazionale all'inizio degli anni '80 (Clean, Tall Dwarfs), con i Nocturnal Projections prima e This Kind of Punishment poi, sempre in compagnia del fratello, fino a quando, nel 1990 si mise in proprio a tutti gli effetti.
Il bello di Jefferies sta nella crescita artistica, perchè è uno di quei casi rarissimi in cui la qualità del prodotto aumenta col passare degli anni. La cosa più clamorosa, poi, è stata che ad un certo punto, dopo l'ultimo disco del 2001, si è ritirato dalla scena discografica senza dire niente a nessuno. Ed oggi vive ancora nella sua Nuova Zelanda, dove di lavoro fa il maestro di batteria.
Perchè è come batterista che nasce Jefferies, ma è come pianista e compositore che sviluppa la sua possente cifra stilistica.
Subatatic è stato un punto di ulteriore rottura nel suo vorticoso cammino degli anni '90 verso musiche molto poco catalogabili, fortunatamente sorretto dalla benefica label texana Trance Syndicate. Al contrario dei precedenti, in cui si salvava ancora a malapena una vaga forma canzone e comparivano anche delle ottime parti cantate, questo è composto da 5 strumentali disorienta(n)ti ad alto tasso sperimentale.
Minimalismo, post-wave, avanguardia, cacofonia, ambient e soliloquio pianistico: è possibile condensare tutto ciò in un solo pezzo? Gli 8 minuti di Index sono subito un pugno nel cervello. L'ossessione opprimente di Signal porta quasi a stati di allucinazione che si annullano sul surreale panorama di Damage, un drone post-nucleare agghiacciante.
Ritmica martellante e chitarre acuminate segnano il risveglio improvviso di Kitty Loop, che spiana la strada allo splendore di Three movements, che in 16 minuti recupera una sanità mentale che sembrava irrimediabilmente persa. Ed infatti Jefferies dimostrava che senza smanettare troppo, con un impianto e sonorità più convenzionali, restava un autore di razza, di quelli che fanno la differenza. Prima fase, con l'immancabile piano a svisare sopra un giro di basso circolare, flauti e synth ad ingrossare. Seconda fase, assolo di chitarra su progressione epicheggiante. Terza ed ultima, lento sfumare del motivo guida sopra clangori di dubbia provenienza, quasi a riportarci al terrorismo sonoro della prima parte di Substatic.Tutti i suoi dischi solisti sono stati molto personali, ma questo ha rappresentato uno zenith artistico in tutti i sensi. Davvero geniale, quest'uomo che, come ho letto da qualche parte, veniva definito come colui che suona la batteria come il pianoforte e il pianoforte come la batteria...

Arab Strap - Dieci anni di turbolenze

La monografia fiume che ho scritto per Sunday Morning il neo-blog collettivo è on-line

domenica 21 novembre 2010

Bachi Da Pietra + Massimo Volume - Live in Bronson 20-11-2010













Ed ecco quello che ritengo uno dei connazionali più originali dell'ultimo quinquennio. Una piacevole conferma, se non sorpresa (era la prima volta in cui li vedevo). C'è da dire che la stragrande maggioranza della gente si era recata al Bronson per vedere i Massimo Volume, così ho potuto visionare i Bachi con la massima tranquillità (a parte il solito, fastidiosissimo casino infernale che fanno al bar, una peste bubbonica dura a morire) e subito sotto il palco.














Innanzitutto, l'impianto e la tecnica. Dorella ha un set più che essenziale. Un rullante, un timpano che utilizza come cassa e un piatto su cui indugia molto raramente, quasi sempre spazzole nelle mani. Il suo è un battito primordiale ed elementare, ma il Bachi-sound non esisterebbe con un batterista convenzionale, senza la sabbia delle sue pelli, senza le basse vibrazioni che mi si fermavano alla gola.
Succi è un fenomeno. Risoluto, determinato e voglioso di coinvolgere quei pochi attenti con sorriso sornione. La sua tecnica chitarristica è spettacolare: senza plettro, elabora una specie di tapping istintivo, sul ponte della Stratocaster, a toccare armonici nevrotici e note strozzate.








Gran parte dei (soli) 45 minuti è concentrata su Quarzo, il nuovo disco, che non ho ancora ascoltato ma si rivela più aggressivo dei tre precedenti. Ed infatti i primi pezzi sono veloci ed abrasivi, ma non è una normalizzazione, anzi. Ciò a cui ci hanno abituato, cioè le viscere lente e viscose, le litanie nebbiose sussurrate con occhi e bocca semichiusi, il lavoro ai fianchi resta un trademark non marcabile anche in caso di maggior velocità e chiarezza. E Succi si rivela anche un grande vocalist, uno shouter trascinante. Questa è stata un altra, piacevole sorpresa. Imprescindibili.















Poco dopo ecco comparire l'attrazione principale della serata. Clementi è rasato a zero e dirà sì e no due parole in tutto il concerto, che comprenderà ben due bis.
Devo ammettere di non possedere molta competenza riguardo ai Massimo Volume. Neppure ai tempi in cui venivano esaltati dalla stampa li seguivo con attenzione, e paradossalmente, il loro disco che apprezzo di più è quello all'unanimità ritenuto il più debole (Club Privè). Anche nel loro caso non ho fatto in tempo a sentire il nuovo albo, ma mi pare che anche qui sia stato oggetto di gran parte del set.












E che dire? Che non è cambiato molto rispetto alla seconda metà degli anni '90, anzi a pensarci bene è rimasto tutto uguale. I racconti di Clementi, le ritmiche della Burattini, gli arpeggi di Sommacal, l'unica novità è il nuovo chitarrista Pilia che si è rivelato l'elemento di gran lunga più interessante, un ottimo ricercatore di suoni.
A mio avviso il loro limite maggiore sta nell'eccessiva linearità di tutto. Le esecuzioni sono impeccabili, ogni cosa sta al suo posto. Speravo in qualche modo che la reunion avesse qualcosa di nuovo da dire, ma evidentemente sono io che non riesco ad entrare nel loro mondo....

martedì 16 novembre 2010

Japandroids - Post-nothing (2009)

Attenzione che potrebbe diventare una nuova tendenza, sulla scia dei bravissimi No Age, quella dei duo chitarra-batteria che fanno un indie-punk-pop-noise che non rivoluzionerà certo la storia della musica, ma ha energia e frenesia fresca da vendere.
Questi vengono dal Canada e debuttano con questo (gran bel titolo!) crogiuolo di granitici anthems dalle melodie catchy annegate in un mare di fuzz, tutte pressochè uguali ma apprezzabili per gli scarti, i giri azzeccatissimi, le ruvidità gioviali. Poi è chiaro che i No Age hanno molte più soluzioni e ampiezza di visuale, ma ciò non esclude che i Japandroids non possano evolvere verso qualcosa di più elaborato senza perdere quella saltellante epidermicità che rende Post-nothing un dischetto piacevole.
Attendiamo fiduciosi.

domenica 14 novembre 2010

Jackie-O Motherfucker - Fig. 5 (1999)

Inizia con uno stralcio minaccioso di elettronica primitiva, Analogue Skillet, questa prima uscita su Road Cone del collettivo di Greenwood. Approdando ad un etichetta seria, così, poterono iniziare a farsi sentire perlomeno anche in Europa, dopo le prime uscite alquanto carbonare. All'epoca il co-fondatore fiatista Bucket era ancora parte integrante del nucleo, ma il suo contributo era già minoritario o comunque allo stesso livello di tutti gli altri.
Greenwood coordinava così un ensemble anarchico che spaziava su tanti fronti. Il pezzo no.2, Native Einstein, è un quieto delirio organizzato di psichedelia fra squittii di clarino, clangori chitarristici sparsi, violini come seghe e scampanellii tenui.
Ci si inizia a dare una regolata con la più convenzionale Your cells are in motion, sorta di country-indianeggiante dagli umori volubili. A quel punto sale in cattedra la Owens con Go down old Hannah, un coro stile-traditional dolente e ripetitivo, e la pigrissima cantilena di Beautiful September. Bucket si ritaglia uno spazio importante nel marasma libertino di Amazing grace.Nel finale, fra i brevi quadretti surrealisti di Chiapas e Madame Curie, trova posto la gigantesca dilatazione di Michigan Avenue Social Club, che si protrae per ben 25 minuti in un impro totale di psichedelia-tribal-jazzata. Si poteva troncare qualche passaggio o farla partire dopo o farla finire prima, ma il bello dei JOMF sta proprio qui; il suono di una comune completamente fuori dal tempo, guidata da un leader democratico che tende quasi ad eclissarsi una volta dettata la linea al fine di far risaltare i compari del momento. Il suono di un allucinazione collettiva fresca e positiva.
Good trips.

venerdì 12 novembre 2010

Jack Or Jive - Kagura (Live in Kyoto 1994)

Venni introdotto al duo nipponico dal famigerato conduttore di Tedio Domenicale, che annunciando Snow covered landscape proprio da questo disco li bollò come "gruppo giapponese dalla vocalist soave...e anche buona). Gusti estetici a parte, i JOJ sono un entità personale e difficilmente catalogabile, e che ha trovato un maggiore riconoscimento in Europa piuttosto che in terra natale. Questo in virtù di un sentore onirico-gotico che permea le loro elucubrazioni, sempre però filtrato dal dna del sol levante, a creare un mix indefinibile e personalissimo.
La cantante Chako e il tastierista Makoto sono coppia fissa anche nella vita e nel loro sito questo live viene definito fortunato, in quanto non ne era in previsione l'uscita, ma la performance evidentemente fu reputata degna di essere pubblicata. Ed in effetti Kagura è di una bellezza sconvolgente, trasporta in una dimensione sconosciuta fatta di arie brumose post-classicheggianti e ipnosi vocali. Chako, infatti, gorgheggia in un modo mai sentito: il timbro è gentile ma imponente, il feeling generato conta molto di più dell'esecuzione meramente tecnica (e andiamo, non sono stonature, e anche se lo fossero? L'effetto di fondo ne risente? Per me ci guadagna!).
I pezzi sono 4 e durano più di 10 minuti l'uno. Snow covered landscape è un rituale solenne in cui i drones di synth si incrociano con le frasi di organo. Morning dew and the crescent, una passeggiata lunare melanconica dalla gentilezza commovente, ma con un finale tetro di dark-ambient ed esperimenti vocali orrorifici. Sea of flames è un bordone serioso di drammaticità, Woman in black una sospensione metafisica da polo nord.
Tutto ovviamente senza ritmi, tutto galleggia nella foschia; nonostante le ambientazioni siano perlopiù cupe, ritengo che il maggior pregio dei JOJ sia l'eleganza sonora tutta orientale che irradia queste generazioni d'atmosfera.
Magia pura.

mercoledì 10 novembre 2010

Isis - Oceanic (2002)

La preparazione al capolavoro.
Oceanic, metallo in progressione verso nuove coordinate. Disco con cui si giocarono una fetta di fans puri e duri esaltati dalle eruzioni di Celestial, ma diretti a guadagnarne dei nuovi, oltre che sconvolgere la critica a tutto campo.
Misero in campo un formidabile percorso che continuava la scia lasciata dei loro padri putativi, Godflesh e Neurosis, ma aprendo i loro castelli granitici a fasi meditative di cristallina bellezza: prendesi ad esempio la splendida Carry, con una fase centrale da brividi, un po' il manifesto del disco.
Uno schema che si ripeterà più o meno regolarmente in tutti i pezzi, tant'è che il trittico iniziale è linearmente imperniato su questa ambivalenza; The beginning and the end denota una ferocia stemperata dalla melanconia dei fraseggi puliti. La durissima The other è godfleshiana fino al midollo, esclusa la ritmica. Le ossessioni di False light sono ai limiti di un minimalismo monotonico, con Turner che si sgola furioso e amaro.
Ma è un disco che cresce, inesorabile, nel finale; il barocco strumentale di Maritime è un intermezzo del tutto atipico. La stratificazione di Weight, con voci femminili incantevoli. Gli 8 minuti e mezzo di From sinking, sublimazione totale dei sensi sprigionati dal solco insieme alla chiusura minacciosa di Hym, che porta al parossismo l'onda innalzata dai lenti tsunami.
Sebbene le chitarre abbiano il dominio totale, anche le ritmiche hanno un importanza capitale nel loro scandire medio-lente, a volte dispari e spettatrici inermi del disastro oceanico che gli Isis hanno concepito con questo sforzo pindarico.

martedì 9 novembre 2010

Illusion Of Safety - Water seeks its own level (1994)

Progetto di sperimentazione sonora che di recente ha celebrato il quarto di secolo di età, praticamente sempre nella persona del chicagoano Burke.
Eppure, per circa un lustro, ha fatto parte della coalizione anche un poco più che adolescente Jim O'Rourke; questo fu l'ultimo disco a comprendere la collaborazione del talentuoso, che nel frattempo aveva riscoperto la chitarra "tradizionale", una forma di suoni leggermente più umana e già avviato i Gastr Del Sol al fianco di Grubbs. Molti anni dopo, O'Rourke rinnegherà totalmente quegli anni di folli sperimentazioni sia da solista che nell'ambito di altri progetti, arrivando persino a degradare umanamente le persone con cui aveva iniziato i propri passi discografici.
Water mi ricorda molto certi collage rumoristici di Nurse With Wound, ma anche in sonorità così difficili da maneggiare si possono notare differenze negli approcci: laddove Stapleton si è sempre distinto per un surrealismo tipicamente british anche nei lavori più temibili (Homotopy to Marie è il primo titolo che mi sovviene) che gli ha permesso di diventare voce fondante, gli Illusion Of Safety affondano duro con seriosità costante e induzione al timore. A parte l'unico motivo ritmato e vagamente musicale, Dissenting Voices, il disco è un corridoio buio e gelido, in gran parte dronico e solo minimamente graffiato da sprazzi di power electonics, sirene, fischi.
Diciamo nella sufficenza generica dell'industrial e niente più.

lunedì 8 novembre 2010

If These Trees Could Talk - If These Trees Could Talk (2006)

Spuntano come funghi. Hanno nomi lunghi, evocativi e talvolta persino pomposi. Si potrebbero riconoscere anche dalle foto, in cui i membri appaiono distanti, sfuggenti, ritratti spesso in ambienti naturistici, con gli sguardi assorti e lontani dall'obiettivo della camera.
Ma basta, mi sono stufato del tag post-rock, è orribilmente inadeguato. Nel 1995 aveva un senso per i capostipiti, come i Tortoise, ma già nel 1997 con la bomba-Mogwai era limitante. Da allora non si è trovato un altro termine per individuare i gruppi strumentali che avessero fantasia e libertà da vendere, nemmeno per i 4-5 giganti che hanno compiuto miracoli nel decennio zero.
E nella seconda metà di esso sono arrivati i replicanti, la seconda generazione. E per la legge della probabilità, nel mazzo dei funghi spunta qualche asso. Così si rende necessaria una definizione alternativa, ed ho deciso di coniare il mio personale tag epic-instru nella comodità di inquadrare queste band, per la stragrande maggioranza americane, che armate di immaginazione e buona tecnica si inerpicano in questi sentieri difficili, già abbondantemente battuti ma comunque ancora da sfruttare, per chi ne abbia le capacità.
Questi ohioani rispettano fedelmente i comandamenti soprariportati. Ma se tutti fossero a questo livello, ci sarebbe da fare festa ogni giorno. Con questo debutto auto-prodotto i Trees hanno pescato in qua e in là fra i giganti, sintetizzando in un concept di 27 minuti cinque pezzi legati fra di loro in cui i rimandi, i voli e l'immaginazione salgono alla ribalta.
Si immagini una versione decisamente muscolare degli Explosions, e ancora non si renderà giustizia alla personalità del quintetto. A partire dall'iniziale meraviglia di Malabar front, i Trees espongono le loro doti con compiacenza: i lavori di cesello delle tre chitarre, sia sull'altissimo pulito che sul distorto acidulo. Il batterista Kelly, potente e risolutivo. Le trame avvincenti e le progressioni da brividi scorrono senza soste nell'effluvio della suite; Smoke stacks fa dell'usuratissimo standard quiet/loud un utilizzo intelligente. The friskalating dusklight pastoralizza prima, spinge forte poi sul gas di più azzeccatissime sequenze di accordi.
La ripresa del tema iniziale, in Signal Tree, non lascia tregua al susseguirsi dell'inseguimento. Sono dei folli troppo lucidi per essere credibili. La chiusura del cerchio si ottiene con The death of paradigm, commosso fragore di innocenze che non si vogliono ancora lasciare alle spalle. Sento a tratti quella voglia di tornare alla prima giovinezza che mi invase 7 anni fa, ai tempi di The earth is not a cold dead place. E ho detto tutto.
Un disco da divorare.

domenica 7 novembre 2010

Jeff Martin (Idaho) - Days Soundtrack (2004)

Ancora Martin. Da uno dei suoi 3 siti, la colonna sonora di una serie TV americana intitolata Days, immagino non molto fortunata in quanto non ci fu un seguito alla prima serie di episodi. Come testimonia il piccolo spazio ad essa dedicata, la prima esperienza come scorer. Dal momento che i suoi siti sono alquanto criptici e confusionari (ma credo sia più una scelta artistica che altro), non è dato di sapere se ne ha fatte altre, ma ritengo sia una buona occupazione per Martin, se non altro per sopravvivere e lavorare più tranquillamente alla sua produzione Idaho.
Trattasi di 36 frammenti di durata fra i 30 secondi e il minuto e mezzo, quasi esclusivamente strumentali, c'è qualche vocalizzo fonetico in qua e in là a guarnire con gradevolezza. Il filone è quello del cantautorato semi-digitale di Lone Gunman (nel mucchio c'è persino l'intro di Orange Cliffs), e anche se la funzionalità alle immagini è rilevante, appare chiaro che si tratta di un prodotto ispirato e preparato con molta cura, con tanti di quegli spunti che si arriva persino a recriminare che siano stati sacrificati in qualità di bozzetti, vignette didascaliche ad uso del telefilm.
Anche se adatto esclusivamente ai consumatori onnivori di Martin, Days risulta piacevolissimo e ricco di atmosfera.

venerdì 5 novembre 2010

Idaho - White Session, Paris 20-02-2008

Ormai non ci credo più, ma le ultime news di Jeff Martin danno in uscita il disco nuovo di Idaho a marzo. Così saranno quasi 6 anni di hiatus, ovvero come prendersela comoda, chè non voglio immaginare che sia stata crisi compositivo/creativa...Insomma, non sembra essersi sforzato più di tanto. Nell'attesa quindi del successore di Lone gunman ci si può anche accontentare di questa session (credo radiofonica, ci sono anche un paio di video disponibili e sembra in effetti di essere in uno studio del genere) registrata a Parigi nel febbraio 2008, durante il tour europeo in cui Martin viene accompagnato da una sezione ritmica.
Deve avere un rapporto particolare con la Francia, il nostro. In questa decina di pezzi (cordialmente passatami da un amico d'oltralpe, grazie Tony!) il trio si concentra molto sul periodo 1998-2000. Viene da chiedersi pertanto se Martin abbia smaltito la sbornia elettronica dell'ultimo disco in favore di un sound più caldo ed umano, vista anche l'obiettiva qualità dei due comprimari e la totale assenza di pezzi da esso.
Tendenza confermata, peraltro, dalla presenza di un gustoso inedito, in stile pianistico e trasognato come da manuale di rito. Un pezzo che potrebbe confermare la nuova tendenza oppure limitarsi a restare un classico stage-only come la sempre presente e sempre splendida Lately. Prevalgono i pezzi con la 4-string guitar, con le riprese quasi insperate di Jump up, Get you back, ed una straniante versione iper-velocizzata di Social Studies. Non si disdegnano neanche i classiconi di 20 years on e To be the one. Unico neo del set, un Martin non eccessivamente nella solita forma vocale, per non dire un po' giù di tono.
A mò di bonus track, il buon Tony mi allega anche un paio di estratti lo-fi da un concerto sempre francese, con Just might run ed un altro ottimo inedito chitarristico, che mi fa ben sperare per la prossima primavera.

mercoledì 3 novembre 2010

Balmorhea - Live in Bronson, 30-10-2010











Questo è il bello dei concerti (sottolineando fino alla noia la grande stagione che sta realizzando il Bronson, un programma ricchissimo e per tutti i gusti); vai a vedere un gruppo di cui hai ascoltato tutti i dischi, che ti crea un bel sottofondo, che è elegante e raffinato e ha delle belle soluzioni, ma in fondo non ti ha fatto impazzire nè fatto proprio venire quella voglia matta di tirarlo fuori in un qualsiasi momento della giornata. Lo vai a vedere e ne resti così entusiasta che ti cambia la considerazione generale di esso. Così mi è successo con i texani, sabato sera.








Arriviamo e troviamo uno stuolo di sedie sistemate per l'occasione, sotto il palco. Una buona idea da parte degli organizzatori, alla luce delle caratteristiche in scena. Il sestetto entra quasi in punta di piedi e si sistema. I due leader sono dei classici nerds all'americana; Lowe ha una formazione classica preparatissima ed è un pianista coi controfiocchi, il suo aspetto vivace e sbarazzino lo fa sembrare come uscito direttamente dalla cover del primo dei Feelies...Muller invece sembra un professore universitario, ha un aria molto più compassata e si divide fra chitarre e basso. Il resto del gruppo però non scherza per niente. L'elemento più interessante per me si rivelerà il violoncellista Rieck, col suo ornare le composizioni magistralmente ma soprattutto in grado di tirare fuori dei suoni inusuali per il suo strumento. Poi c'è una giovane violinista di colore e la sezione ritmica di batteria e contrabbasso, discreta e funzionale.









Fin dall'inizio si capisce che la preparazione e la coesione dell'ensemble sono impressionanti, ma non solo. Viene fuori alla grande anche la pregiata qualità del songwriting, che sa svolazzare fra tenui malinconie e sinfonie festaiole passando attraverso tutto lo spettro che ci corre dentro. Non ci sono stravolgimenti rispetto alle versioni in studio, a parte quando Lowe si mette a vocalizzare (denotando quasi altrettanta bravura) foneticamente in qualche pezzo e in occasione del penultimo, in cui tutti e sei inscenano un coro generale curatissimo di grande effetto.









L'entusiasmo del pubblico è ampiamente manifestato e i Balmorhea sembrano quasi commossi dalla contentezza di ricevere effluvi di applausi al termine di ogni esecuzione. Piacciono per l'atteggiamento umile e amichevole, quindi.
Unico neo della serata, la parte di presenti, principalmente avventori del bar, che se ne sbattono altamente della concentrazione e del silenzio degli interessati facendo un casino bestiale. Ci sarebbe voluta una paratia anti-rumore contro di essi.
I video non sono neanche pessimi, dato che stavo in piedi dietro la gente seduta e l'acustica del sound escludeva bassi pesanti. Li condivido tutti e 4.




I Love You But I've Chosen Darkness - Fear Is On Our Side (2006)

Ecco un clamoroso caso di getto di maschera, che può anche sembrare modaiolo ma trova nel suo risultato finale un degno coronamento.
Goyer e McNeely, fra i fondatori dei Windsor For The Derby, e l'ex-bassista dei Paul Newman Robert, alle prese con uno spudorato e curatissimo dark-wave. Ovvero due fra i gruppi texani che negli anni '90 hanno aderito al filone post-rock. Se i secondi sono praticamente dissolti, i WFTD continuano a ciccare un disco dietro l'altro in modo inesorabile, i 5 non trovano meglio da fare che varare un progetto revivalistico proprio negli anni di maggior martellamento.
Dunque la questione è sempre la solita: roba stra-sentita trent'anni fa ma fatta tremendamente bene. Quindi piace a chi ama il genere, nulla più. Il bello è che, come si evince da foto, i 5 non sono propriamente giovinotti di primo pelo e quindi hanno l'esperienza dalla loro, elemento che consente loro di evitare stereotipi già fin troppo sfruttati da bands contemporanee presto assurte alla fama ma destinate a bruciarsi nel giro di poco.
Quindi in Fear si sentono umori di nomi meno conosciuti ma non meno gloriosi della wave inglese, Sound e Modern English sono i primi nomi che mi vengono in mente; quella capacità atmosferica di far vibrare certe corde che risiedeva nel talento di Borland si percepisce spesso nell'arco delle dodici tracce.
Poi è ovvio che dei texani non resterà molta traccia anche nel futuro, ma un ascolto gradevole se lo guadagnano volentieri.