martedì 31 agosto 2021

Klaus Schulze ‎– Timewind (1975)


Altri dolci ricordi della Mental Hour di oltre un quarto di secolo fa. Quinto album di KS, ai tempi già consacrato fra gli dei cosmici, su cui mi sono soffermato nella sua essenza originale, senza le zavorre delle bonus-track legate alle ristampe della storia recente. In una delle magiche ore, apparivano i primi minuti di Bayreuth Return, composizione estremamente dinamica che tocca i 30 minuti di durata, con i sequencer a palla. Più estatica e sognatrice la Wahnfried che fa da contraltare, una space-sinfonia struggente e spesso melanconica. Il pretesto, un tributo al classico Wagner. L'output, immancabilmente imponente, anche se il meglio l'aveva già dato. Da lì in poi, il declino.

domenica 29 agosto 2021

Necks - Three (2020)


Formato diviso per l'ennesimo esercizio di Necks-style. Ogni nuovo disco lo affronto un po' con sufficienza, convinto che prima o poi mi sentirò un po' stanchino delle loro jam, ed alla fine senza fare stravolgimenti accade sempre qualcosa di inaspettato. Three, forse per il suo titolo così pleonastico, non contribuisce ad arricchire il loro catalogo in maniera significativa, ma funziona bene come un condensato di classicità intrinseca. Further è la campionatura del loro versante elegante, col ritmo sincopato e la strumentazione a pieni giri, la ritmica sempre uguale ed Abrahams a dividersi fra piano ed organo.

Bloom è l'emblema della loro rappresentazione di caos organizzato, con Buck ipercinetico a preponderare sopra gli altri. Un treno vellutato in corsa che genera ipnosi nevrotica.

Lovelock l'ambientazione sinistra, notturna ed inquieante. Lloyd-Swanton tremebondo a svisare con l'archetto, Abrahams superbo nel distillare i suoi sgocciolii, Buck viscido a sgusciare fra rullante e triangoli e chincaglierie. 

Ogni nuovo disco, una nuova fiera delle vanità e della destrezza. Alla loro età, la sfida può essere soltanto contro sè stessi e le macchine che hanno in corpo.

venerdì 27 agosto 2021

Screams From The List #99 - Gash – A Young Man's Gash (1972)


Quartetto tedesco, che come nella sventura comune a tanti gruppi europei di stile progressive finirono per essere delle meteore con un solo album in discografia. Provenienti da Brema e guidati dal tastierista cantante compositore Peters, realizzarono A Young Man's Gash nell'indecisione stilistica. La facciata A infatti include 3 pezzi piuttosto ruffiani, per certi versi simili ai coevi Atomic Rooster, con qualche spruzzata di americanate non proprio irresistibile (inclusa l'imitazione di Joe Cocker, evitabile).

Girato il piatto, però, avviene il piccolo miracolo e sembra di vivere uno split-album. La suite di 20 minuti che porta il nome del disco è una cavalcata avvincente, contrassegnata da diverse fasi, reminescente Colosseum, Genesis, e persino Hawkwind nell'allucinata fase centrale. Un gran bel viaggio che valeva il prezzo del ticket, anche per gli intarsi sinfonici, mai preponderanti perchè ben dosati in brevi razioni.

mercoledì 25 agosto 2021

Art Bears ‎– Winter Songs (1979)


Seguito di quel Hopes And Fears un po' AB ed un po' ultimi Henry Cow, con le canzoni invernali Cutler, Frith e la Krause perfezionarono il loro stile. Non è dato di sapere quanto furono influenzati dai tempi e dalle nuove rivoluzioni, ma fu un gesto di rottura: pezzi di durata media 3 minuti, arrangiamenti ridotti all'osso, con Frith che alterna 6 corde al violino alle tastiere per ogni singolo, Cutler che suona scandito e tonfante come mai prima d'ora, poche elucubrazioni e la Krause sempre più angosciosa. Resterà il loro vertice ed uno dei canti del cigno più autorevoli del RIO.

lunedì 23 agosto 2021

USA Is A Monster ‎– Amikwag (2020)


Sono tornati dopo 12 anni di iato, ed è un grande piacere. Il mondo aveva ancora bisogno di loro, soprattutto dopo quel quadriennio terribile che aveva reso gli Stati Uniti ancora più mostruosi. Stilisticamente è quasi come se il tempo si fosse fermato, come peraltro avevano dimostrato le due antologie postume che crebbero il rimpianto per averli persi. Lontani ormai anni luce dalle prove dinamitarde degli esordi, hanno preferito proseguire sul solco del loro art-post-prog elaborato ma istintivo, molto poco virtuosistico ma indissolubile dalle girandole di tempi dispari, dai labirinti chitarristici di Langenus, dai fraseggi di synth ed organo e dai cori sempre più affinati. 

Sono tornati per ribadire uno stile unico al mondo, con un apertura da brivido (Permaculture's Promise, Rapido Amigo) per un disco ben strutturato ed omogeneo, che spero possa farli notare ad un pubblico più ampio di quello che li seguì nel decennio Zero. Anche se il mondo nel frattempo è drasticamente cambiato, c'è sempre bisogno delle loro mini-suite.

sabato 21 agosto 2021

Clock DVA ‎– Advantage (1983)


 La summa di un percorso, iniziato in maniera molto arty e poi proseguita verso lidi sempre più cibernetici e freddi. Advantage segnò un punto di non ritorno, con la dissoluzione della sigla per oltre un lustro a vantaggio di Antigroup e le sue derive elettroniche. La migliore sintesi possibile di quello che Newton e soci potessero concepire ed elaborare: un funk-wave marziale, assistito finalmente da strutture compositive più fluide ed aperture melodiche di grande respiro, col basso di Dennis in grande evidenza. Una formula che, con l'adeguata promozione, avrebbe anche potuto riscuotere un certo successo di pubblico. Ma il gruppo si frantumò e la storia proseguì diversamente. Advantage è un prezioso fotogramma di equilibrio fra ricerca e concessione.


giovedì 19 agosto 2021

Zola Jesus ‎– Okovi (2017)


Dev'essere andata più o meno così; qualcuno le ha messo pressione addosso, tipo con la voce che hai, cerca il successo, puoi ottenerlo, e così la Danilova l'ha cercato veramente, finendo su Mute a fare un disco imbarazzante, ruffiano e stucchevole. Tre anni dopo, il ritorno a casa in tutti i sensi: sulla stessa label che l'aveva lanciata oltre 10 anni fa, un disco serio e maturo, ben bilanciato fra le tentazioni commerciali ed il suo immarcescibile spirito gotico (sintetizzabile con Soak, questa sì che meriterebbe il successo mondiale). Okovi offre diverse combinazioni: si apre con una corale estatica alla Grouper, Doma, ma è un caso isolato. La mutuazione inevitabile di Siouxsie trova sfogo nell'ossessiva Exhumed, affogata in poliritmi tribali. Entrando nel cuore del lotto, la Danilova centra il suo climax espressivo dando spazio agli archi, una tendenza a lei non nuova. Ash to bone e Witness sono le perle incontrastate.

Nella seconda metà, purtroppo, manda tutto al club. Fino alla chiusura quasi cosmica di Half Life, è tutto un ballabile che per carità, è anche gradevole e ben fatto, ma non trova il mio gradimento. Sarebbe stato un gran disco, se fosse stato tutto all'altezza dei primi 5 pezzi. Di questi tempi, mi accontento. La ragazza è giovane ed il potenziale per confezionare un capolavoro c'è ancora.

martedì 17 agosto 2021

Fifty Foot Hose ‎– Cauldron (1968)


Interessantissimo reperto di un mezzo secolo fa, resuscitato dalla bella monografia su un Blow Up di qualche tempo fa. Trattavasi di un quintetto di San Francisco, guidato da marito (chitarra) e moglie (cantante), ma con il fattore anarchico/disturbante di un bassista che amava sperimentare con diavolerie elettroniche autocostruite e nastri magnetici. La formula piuttosto peculiare portava ad una specie di Jefferson Airplane svaniti (o meglio, meno dotati e con meno prosopopea) con Dik Mik e Del Dettmar schierati 3 anni prima che entrassero degli Hawkwind. Un suono che è sicuramente influenzato dalla LSD, come più o meno tutto ciò che usciva in quel periodo dalla West Coast, che rappresenta una felice anomalia non soltanto per il pazzoide agli oscillatori, ma anche per un paio di pezzi davvero notevoli ed abbastanza tortuosi per elevarsi dagli standard di origine blues (If not this time, Red the sign post, la seconda parte della suite Fantasy).

domenica 15 agosto 2021

Cigarettes After Sex ‎– Cry (2019)


La notizia che un paio d'anni fa risuonò sulla bocca di tutti fu: i CAS hanno fatto un disco uguale identico al primo, e giù un coro di disappunti. In effetti il fattore sorpresa, ormai svanito, sulle prime poteva lasciare l'amaro in bocca: nessuna novità, se non una produzione appena appena più sviluppata sui toni alti, ma sono dettagli trascurabili. Stessa ricetta, stessa combinazione di atmosfere carezzevoli e suadenti, semmai un numero minore di pezzi da urlo rispetto a CAS, e se possibile un lieve aumento della dose di ruffianeria, soprattutto nei pezzi di lancio antecedenti l'uscita.

Non bastava il fattore artistico in sè: la recensora di turno su Pitchfork gli affibbiò un 4.0, causa l'aggravante di un presunto maschilismo da parte di Gonzalez, a suo avviso autore di liriche smaccatamente demodè e fin troppo concentrate sulla preda femminile come oggetto di conquista.

Dopo un paio di ascolti che mi hanno lasciato indifferente, mi sono temprato, ho dato risalto ai pezzi da urlo ivi presenti (un trio, ad essere selettivi) ed ho pensato: ma ci possiamo stancare così facilmente di una formula che, per quanto prevedibile e scontata, è così sublime e raffinata? La risposta è no, e per Cry la dipendenza si ripete. Heavenly, You're the only good thing in my life, Hentai, Pure. E lasciamolo scatenarsi, con le sue donne, il buon Gonzalez. Ci ripenseremo al prossimo album.

venerdì 13 agosto 2021

Günter Schickert ‎– Kinder In Der Wildnis (1983)


Sempre più condannato ad essere un outsider carbonaro, GS diede alle stampe il suo terzo solista nel 1983 soltanto su cassetta, per una tape-label inglese, ed occorreranno 30 anni per una ristampa in formato digitale. Kinder In Der Wildnis denotava così un deficit produttivo dovuto alla sostanziale autosufficienza del guitar-cosmic-master, ma poneva in risalto un autore in pieno work in progress, non impermeabile a quanto era successo nel mondo nei dieci anni precedenti, ma fortemente legato al suo imprinting apocalittico e, possiamo dirlo con sincerità, dotato di fortissimo spirito teutonico.

Un GS ispido, inselvatichito e, nonostante l'utilizzo presumibile di una drum machine, a tratti addirittura quasi punk (la cavalcata della title-track), in generale più terreno e quindi proditoriamente a cavallo di due elementi: terra ed aria, per un album vario, che esprime una grande urgenza espressiva, capace di dare frustate abrasive con voce aspra (Rabe in der nacht) e distendersi nei tipici voli pindarici che l'hanno elevato ad autore mistico e celestiale, prima ancora che chitarrista di purissima, distillata filigrana artistica.

mercoledì 11 agosto 2021

Lazyboy – "Unasked" (2013)


Un'altro progetto one-shot di Bruce Anderson e Dale Sophiea, che alla pari del monumentale Grale (un capolavoro che cresce col tempo e con gli ascolti) ha contribuito a ridefinire sempre più in termini avant le vicende dei due grandi reduci MX-80. Unasked è un bignamino di 20 minuti diviso in due parti: i primi 10 un cyber-metal svanito e nebbioso, un cristallino simil-Godflesh ripassato al microscopio. Il beat digitale s'interrompe, le distorsioni smettono di echeggiare e si entra nel tunnel; una densissima foschia ambient ammanta le casse, in un atmosfera a metà fra i giganti tedeschi ed una vecchia passione mai celata, ovvero il Carpenter di Halloween e The Fog.

Un po' citazionista e certamente non ai livelli di Grale, che purtroppo è rimasto isolato come questo. Ma un saggio dei grandi è sempre un saggio, e va recepito.

lunedì 9 agosto 2021

T.S.O.L. ‎– Dance With Me (1981)


Travolgente hardcore californiano, di certo non della primissima ora ma dotato di una sua cifra stilistica. Avevo sentito nominare diverse volte negli anni i TSOL, ma la deriva ed il declino che subì il gruppo nel corso degli anni probabilmente ne hanno ridimensionato la statura complessiva. Mi ha convinto ad ascoltarli uno degli ultimi 20 Essentials di Blow Up, e devo ammettere che Dance with me non andava perso per molti motivi. Innanzitutto perchè il quartetto suonava alla grande, in special modo il chitarrista Emory, un fuciliere arroventato senza soste. Il cantante Grisham, seppur monotono come di rigore, aveva un'espressività funzionale. La sezione ritmica un treno in corsa che non sbagliava un colpo.

Il disco funziona particolarmente per le variazioni sul tema principale, che già di per sè sono irresistibili e rappresentano, come il miglior hardcore, un'estremizzazione dell'originale british-punk. Le cantilene malsane e psicotiche di The Triangle e I'm Tired of life non soltanto aiutano a tirare il fiato con qualcosa di diverso, ma stabiliscono un'apertura verso il gotico horrorifico che trova il suo apice in Silent Scream, che chissà perchè mi ha fatto idealizzare un Jim Morrison stonato, nato nel 1960/62 a Venice Beach e pienamente immerso nell'atmosfera di ribellione del tempo.

sabato 7 agosto 2021

Psychedelic Furs ‎– Made Of Rain (2020)

Non si potrà negare che i Butler Bros non siano stati coerenti con la loro cifra stilistica. Nel 1992 posero fine alla fruttifera PF-parabola mettendo in custodia il marchio, consci di non voler diventare dei reduci vivacchianti. Navigarono il resto del decennio a vista, facendo un bel buco nell'acqua con Love Spit Love, e nel 2000 riesumarono le Pellicce, inizialmente solo per suonare dal vivo, con tanto del co-fondatore John Ashton, il creatore del trademark chitarristico di tutta una vita artistica, che poi ad un certo punto mollò. Si può tirare avanti per 20 anni facendo i reduci nostalgici, finendo per assumere le sembianze di vecchie cariatidi?

Sì, perchè in questi 20 anni i BB hanno cantierato un disco che, ironia della sorte, era pronto per uscire in pieno lockdown, ed è stato post-posto all'estate. Avevano fatto 29, potevano fare anche 29 e 1/4. Ed è un rientro dignitosissimo, perchè queste vecchie glorie meritano di mantenere il loro posto nella galassia new-wave. Persino nei punti più bassi del loro percorso non hanno mai perso la faccia ed hanno preferito il silenzio, che è sempre prezioso e vuol dire saggezza, quando lo si pratica.

Dei 12 pezzi di Made Of Rain, 1/4 può competere col repertorio maggiore, anche se inevitabilmente il suono è moderno, visto l'aggiornamento portato dai membri attuali e dalla produzione. Richard Butler se ne sta lì a sfoderare il suo timbro imperturbabile ed apparentemente immutato, un sessantenne sempre istrionico e con l'aria di divertirsi da morire, con le stesse pose stentoree degli anni '80. Il restante 3/4 del lotto, beh, si può gradire o non gradire, ma questo è un caso concettuale ed iconografico. E' l'effetto che mi hanno sempre fatto i PF. Discutibili sì, ma intoccabili.

giovedì 5 agosto 2021

Fishmans ‎– Long Season (1996)

Splendida scoperta, con un notevole scarto temporale dovuto anche alla relativa oscurità destinata agli acts giapponesi che per una serie di motivi non vengono esportati. I Fishmans furono una band attiva lungo gli anni '90 che iniziarono con crossover ska-dub-reggae ma durante il decennio vissero un'evoluzione che li portò a questo autentico capolavoro Long Season. Si tratta di un raffinatissimo e multiforme pezzo di 35 minuti, in bilico fra dream-pop, dub, psichedelia ovattata, minimalismo, che riesce a mixare i classici segni distintivi del melodismo nipponico (rilevabile soprattutto nella voce del cantante, che in questo contesto riesce ad inserirsi egregiamente) con alcuni capisaldi occidentali di grande statura come l'ambient-rock e lo shoegaze. La suite funziona come un flusso unico dal meccanismo ingegnoso, in cui i vari strumenti solisti si cedono a turno le luci dei riflettori ed i rimandi compositivi si rincorrono a distanza. A me ha ricordato a sprazzi gli Insides di Clear Skin, i Can di Dizzy Dizzy (lo stile del batterista è abbastanza vicino a Jaki Liebezeit) e persino la versione dilatata di Does Caroline Know che i Talk Talk eseguivano dal vivo nei loro ultimi concerti, nel 1986. Un gioiello che dà dipendenza immediata.

 

martedì 3 agosto 2021

Editors ‎– The Back Room (2005)

 

Arrivarono appena appena lunghi, gli inglesi Editors, nella corsa NWOTNW dei primi anni Zero. Lo spettro ingombrante di essere dei replicanti degli Interpol fu una maledizione giornalistica, ma il tempo ha poi reso loro giustizia e li ha resi persino più celebrati degli americani, anche in virtù dei risultati artistici, che forse resistono meglio al passare del tempo.

The Back Room fu il loro debutto, e all'epoca lo snobbai, nonostante fosse declamato a gran voce dagli organi di stampa. A distanza di 15 anni, invece, lo trovo fresco, coinvolgente, suonato e prodotto benissimo, dotato di alcune melodie trasversali a presa diretta che non si schiodano più dalla mente, e che in qualche frangente mi hanno ricordato anche i Chameleons, un nome che non viene mai citato fra le loro chiare influenze, oltre che gli Echo & The Bunnymen.

Ligths, Munich, All Sparks, Open your arms i pezzi migliori, a mio parere.

domenica 1 agosto 2021

Bomis Prendin ‎– Clear Memory (1984)


Ristampato l'anno scorso in vinile e cd da un'etichetta catalana, Clear Memory fu il terzo atto di questi battitori folli di Washington, originalmente in una cassetta tirata in 50 pezzi (!). La concezione e la gestazione dovettero essere non semplici, perchè erano passati ben 4 anni dal precedente Phantom Limb. Ed in effetti qualche evoluzione la si nota, perchè rispetto ad esso ed ancor di più al micidiale debut Test del 1979 il quartetto affinava le proprie doti allucinatorie, smussava gli angoli, riduceva le rasoiate industriali e si prendeva persino il lusso di sciorinare un paio di motivetti accattivanti, seppur in veste di chiara parodia. Il risultato fu un disco ancor più surreale, in cui le tastierine demenziali di Bomis Prendin prendono spesso il timone del comando, lasciando poi i riflettori alla chitarra impazzita di Miles Anderson, che fa deragliare i temi verso l'iper-spazio maniacale. La genialità stava nell'alternare frasi musicali lucide con dissonanze improvvise e dilaganti, in un caleidoscopio sempre imprevedibile. Puro genio.