Una delle scoperte più eccitanti degli ultimi anni in ambito noise americano è questo duo ultra-cazzuto che riesce a svariare su più fronti con uno stile personalissimo, con una schizofrenia latente di fondo. Wohav è un disco fondamentalmente diviso in due tronconi: prima il lato noise, poi il lato folk. I connotati fortemente politicizzati sono evidentissimi (a partire dal loro stesso nome), rispecchiando così l'epoca Bush dal punto di vista contestatore. Ma è davvero il primo lato del disco a sconvolgere, con la partenza esplosiva di Clay People: batteria indiavolata, fraseggi angolari di chitarra raddoppiati da chorus da psicodramma (quasi in stile primi Chrome)., vocalizzi impazziti. Gli UIAM stupiscono per la compattezza estrema ma anche per le partiture mai ovvie e i controtempi impossibili, per i quali il parallelo con il prog-rock non appare poi così fuori luogo. The hobokon è incredibile in tal senso, con Langenus e Hollman impegnati a sintetizzare in 3-minuti-3 almeno 4 stili diversi. Tecumseh inizia come un pezzo mistico degli Oneida, con l'esplosione stoner dietro l'angolo. La rabbia feroce di Poison plant al contrario viene stemperata in un dolente incedere vagamente western. La forte influenza del folk dei nativi americani sembra affiorare molto spesso e volentieri all'interno delle loro sfuriate psycho-noise. Riff scientist sembrala mutazione genetica di un grind-core interpretato dai Grateful Dead sotto anfetamina. La splendida Hey rilascia l'energia devastante di una mandria di bufali inferociti, come i Black Sabbath travestiti da banda militare in mezzo ad un bombardamento. A chiudere una side esaltante All the world leaders must die, sintesi di anarchia totale come da titolo, è una lavanda gastrica bella e buona, dove la violenza brada trova motivo di esistere soltanto quando c'è un fondamento intellettuale-progressivo. Mai sentita una cosa così; la sregolatezza la possono avere tutti, ma eseguita con uno stile così originale è davvero inusuale. Questo è il sound che avrebbero potuto elaborare i Godheadsilo se non si fossero invischiati col grunge. Per contrasto, la b-side con le sue lamentose e tristi ballads folk perde inevitabilmente d'intensità. Non che siano brutte, per carità; ma soltanto con gli ultimi due pezzi i due riprendono a cavalcare l'imbizzarrito animale che sanno guidare alla grande; God is red, con le sue svisate di synth, ricorda i Trans Am più aggressivi, e la finale King of the punks recupera una affascinante lisergìa rimasta confinata altrove.
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