mercoledì 30 novembre 2011

Awake – April Orchestra Présente RCA Sound Vol. 12 (1977)

La library italiana è così di nicchia che sotto certi pseudonimi non si ha neanche la certezza di chi si possa nascondere. E' il caso di Awake, il cui dubbio si dibatte fra Rino/Oronzo De Filippi, sonorizzatore già piuttosto attivo in diversi fronti in quegli anni, e Silvano Chimenti, che invece è un chitarrista prevalentemente occupato come session man nella musica leggera italiana.
Ora, gli indizi (e anche l'ascolto del disco) portano a pensare che si trattasse del primo, visto che qui di chitarra non ve n'è quasi per nulla, ma alla fine è più una curiosità.
Ciò che conta è che questo volume è un gioiello di library spettrale e circospetta, ricca di sfaccettature. La sequenza iniziale di pianoforte di Squallore è già un brivido: note lente ed inquietanti in uno schema a-melodico, doppiate da un humming glaciale presumibilmente femminile. Altre tracce varianti impostate sul piano sono la seriosa Sospensività, Cultura moderna che si circonda di un paio di violini impazziti, Aria tesa con le sue percussioni tribali e il flautino in libera uscita.
Regna ovunque un astratezza fatta di bad trips e dissonanze: le frammentazioni di Sotto la superficie, il thrilling acido di Atomo, i vocalizzi femminili in pena di Evocazione remota, il clarinetto starnazzante di Psicomania ossessiva. Il disco uscì come 12esimo volume di una collana promossa dalla RCA francese, che comprese fra gli altri Niccolai e Morricone. Una sonorizzazione che non sta in piedi da sola, di più! Lo raccomanderei come uno dei primi titoli da scandagliare del proprio settore.

martedì 29 novembre 2011

Auto!Automatic!! - Another round won't Get us Down (2006)

Frizzantissimo e spumeggiante dischetto di math gioviale per questi tre floridiani che sembrano alquanto simpatici e finiscono anche per esserlo in senso strumentale.
Innanzitutto lascerei perdere il frequente paragone che mi è capitato di leggere in qualche review riguardo ai Don Caballero: passi un po' per lo stile del chitarrista Larsen che abusa del tapping e finisce per ricordare un po' lo Ian Williams di American Don, ma sia chiaro che di Damon Chè ce n'è (era?) uno solo. Tuttavia Fedele, il drummer degli A!A!!, si fa apprezzare per le sue doti metronomiche e perfettamente funzionali alle elaborate vignette qui presenti, completate dallo stile pennato (qualcuno si ricorda i Dianogah?) del bassista Murray.
Il rischio che si corre quando tutto è così perfetto e pulitino è che la noia faccia capolino, specialmente se le timbriche degli strumenti non cambiano mai e ancor più se non si hanno grandi doti compositive. In tal senso Another round cerca di ovviare puntando tutto sulle esecuzioni millimetriche e sull'allegria che vorrebbe trasmettere, risultando un buon solco di seconda categoria del genere.

lunedì 28 novembre 2011

Aural Fit - Mubomuso (2010)

E' sempre da tenere sott'occhio, l'underground nipponico, non c'è niente da fare, ogni tanto viene fuori qualche sorpresa che solo là può nascere come questo power-trio della capitale, fautore di una invasione di psycho-noise pantagruelico a dir poco impressionante.
L'evidente scollamento sonoro è il punto di forza, per un sound che necessita di caotica continuità: il chitarrista è evidentemente in un mondo tutto suo, fatto di distorsioni maniacali fuori da ogni binario. La sezione ritmica va per conto proprio ed ha la stessa forza di cento martelli pneumatici, con un batterista in perenne stato di nevrosi avanzata in simbiosi con un bassista ultra-legnoso quanto svisante. In due parole, free-jazz + allucinazioni.
Il bello degli AF è che non fanno nè new-noise nè revival. La combinazione di suono è quanto di più sporco si possa immaginare, ma è anche un viatico a scopi altamente lisergici. Nonostante si finisca per saturare le casse e fare un baccano infernale, non scorgo propositi di violenza in Mubomuso nè tantomeno attacchi gratuiti al sistema. E' una implosione, un emorragia latente che non conosce praticamente soste.
Non c'è monotonia, nella selva infuocata. Basta sintonizzarsi, e poi ci sono alcune grida isolate che somatizzano il dibattersi del dinosauro in gabbia che è Aural Fit.

domenica 27 novembre 2011

Aufgehoben - Khora (2008)

Quinto ed al momento ultimo mostro degli inglesi più radicali che ci siano. Come disse in un intervista Robinson, uno dei due batteristi, per la session di registrazione di Khora avevano intenzione di limitare un po' l'approccio, ma evidentemente hanno perso il controllo e ne è uscito un disco ancor più violento, se possibile, del capolavoro Messidor.
Non ci sono quasi pause, solo la destrutturazione di Annex Organon lascia un po' di fiato a livello ritmico: l'affronto è massimalistico oltre misura, le frequenze paurosamente alte, le casse sature; a livello subliminale è un disco molto più free-jazz (soprattutto A bastard reasoning), ed è la caratteristica che più li rende differenti da Sightings e Wolf Eyes. Provare a seguire il chitarrista Smith è un impresa piuttosto ardua, quanto dolorosa: Jederfursich occupa i 27 minuti finali in una baraonda infernale che spazza via tutto, magari si sarebbe potuto tagliarla un po' e cercare di mescolare le carte come in Ignorance oblivion contempt, che più si riallaccia a Messidor.
Ma l'impressione finale è sempre quella di un annichilimento siderale ed avanguardistico. Fra quanto tempo li si potrà capire?

sabato 26 novembre 2011

A Short Apnea - A Short Apnea (1999)

Esperienza di gran livello per il trio milanese, dalle origini ben note: Iriondo e Cantù di provenienza Afterhours (il primo all'epoca militava ancora) e all'epoca entrambi nei Six Minute War Madness, Magistrali rinomato tecnico/produttore nonchè membro sempre di questi ultimi. Questi rimescolamenti erano sovrapposizioni dettate dall'esigenza di sperimentare, di spingersi sempre più avanti, e A Short Apnea furono eccelsi in questo nonostante la breve durata. A cavallo del decennio, specialmente dopo il secondo album, erano tranquillamente allo stesso livello dei Madrigali Magri.
Questo debutto vedeva un lungo dualismo a viso aperto fra due stili di fondo: l'elettronica più disturbata e malsana vs. le cerebro-fisiche tessiture di reminescenze louisvilliane, June Of '44 più astratti in primis. Ma è solo una semplificazione per tagliare in fretta, la mia: gli stili si sovrappongono, si scontrano e si confondono. Di certo Heat In June però è strettamente della seconda categoria, un quarto d'ora ineffabile di dissonanze e labirintici interscambi fra i due chitarristi, con una batteria sferragliante a dirigere i binari senza sosta. Sconvolgente l'effetto terminale. A short apnea è l'unico frangente con parvenze melodiche, rilassata girandola di accordi psichedelici. Un isola deserta in mezzo alle emissioni sulfuree di La nota nera per il tasto bianco e E-statico, le allucinazioni sonore di Visita notturna al museo mnestico, le vibrazioni inquietanti I've found my eyes e Neon paralleli: comparsa in alcuni di questi il vocalist Ciappini, anch'egli SMWM, con dei recitati spettrali.
La chiusura è riservata alla ghost-acustica Note a margine, splendido esemplare di isolazionismo in economia che avrebbe fatto la gioia di Mark Hollis.
Visionari.

venerdì 25 novembre 2011

Arbouretum - The Gathering (2011)

Ce ne faremo poco, di un gruppo che sembra ancorato all'America di 40 anni fa. Ma se a guidarlo c'è un compositore come Haumann, occorre drizzare le orecchie ed abbandonarsi ad una 40ina di minuti di quelli che ti riconciliano col concetto di ruralità.
E poi se per loro si è mossa la Thrill Jockey, un motivo ci sarà stato. Condividono coi compagni di scuderia ed amici Pontiak (hanno anche realizzato uno split EP) il recupero delle sonorità acid-rock e sfiorano di pochissimo lo stoner, ma piuttosto puntano sulla forma canzone e fanno bene, dal momento che qui ce ne sono e di ottime.
In particolare un paio sono semplicemente fra le migliori che abbia sentito quest'anno: la solenne When Delivery Comes è un lento tramonto sulle praterie sconfinate, con esplosione di violini al momento del chorus, da far venire la pelle d'oca. Ancor meglio riesce a fare Highwayman, un motivo disarmante nella sua semplicità emotiva e ripetitiva, che fa risaltare anche la bella voce limpida di Haumann. Questi vertici però rappresentano il lato più morbido degli Arbouretum, in quanto altrove le chitarre si fanno belle ispide: The white bird è uno stoner al rallentatore con un assolo chitarristico angolare, atipico per gli standard. Destroying to save omaggia alla lontana San Neil Young nelle sue arie elettriche più drammaticamente enfatiche. Il finale si fa sulfureo, con le vampate space-rock di Waxing Crescent e i 10 minuti vulcanici di Song of the Nile.
Per amatori rustici, con pochi patemi di modernismo.

mercoledì 23 novembre 2011

Arab Strap - Music From Rogue Farm (2008)

Colonna sonora per un film animato scozzese di uscita risalente al 2005, ma messa in commercio separatamente soltanto 3 anni dopo sotto forma di download dalla Chemikal. Nonostante si tratti di appena 17 minuti divisi in 11 brevi frammenti, Rogue Farm è una primizia che tutti i AS-heads come me hanno accolto come una piacevolissima scoperta.
Come facilmente prevedibile, il tratto è funzionale allo svolgimento del cartone e spesso le tracce sono interrotte di netto, brutalmente. Siamo nel periodo fra Monday at the hug & pint e The last romance, ma la soundtrack non ha nè la grazia cameristica del primo nè l'asciuttezza rude del secondo. Qua c'erano spunti in abbondanza per fare un disco completo, c'erano le basi per costruire qualcosa che forse sarebbe somigliato vagamente a The red thread. La mano compositiva è nettamente di Middleton, mentre Moffat si occupava dei contrappunti elettronici. Piccolissime gemme come Merge 1, Merge 2, Forest Walk, Blast Off avrebbero potuto arricchire il già immenso canzoniere dei due, ad un passo dallo split.

martedì 22 novembre 2011

Aphex Twin - Selected Ambient Works Vol.2 85-92 (1994)

Degno prosecutore del Vol. 1 che al momento della sua esplosione certificò la già notevole attività, seppur praticamente casalinga di un giovanissimo Richard Mr. Irish James.
Volume decisamente più austero, con pressochè zero ritmi digitali, improntato su una ambient polimorfa che spesso sfocia in new-age scura e scarnificata, di stampo quasi minimalistico. Nella lunghissima lista (è un doppio cd pieno, quindi siamo di fronte a circa 150 minuti di roba) potrei citare la bellissima Rhubarb, Blur/Circles, Blue calx, Lichen, come esempi di purissima dream-ambient dalla leggiadria invidiabile. Come rovescio della medaglia includerei Tree, White blur 2/Rusty metal, Matchsticks in qualità di contraltari da quiete prima della tempesta.
Nel secondo cd si esplora a tratti il lato più sperimentale di James, con White blur/Steel plate, Spots/Leaves Shiny metal rods, che vanno a parare fra industrial nebbiosa e suoni concreti, fino alla rovinosa Tassels che è praticamente power-electronics.
Se non si fosse perso durante gli ultimi 10/12 anni, saremmo qui a parlare di Selected Ambient Works come anticamera di un genio. Invece è solo una selezione di registrazioni casalinghe, ma sempre di semi-genio si trattava.

lunedì 21 novembre 2011

And So I Watch You From Afar - Gangs (2011)

E' un disco anomalo, che disorienta per le sue molteplici sfaccettature: al primo ascolto quasi mi ha irritato, reputandolo vanesio delle qualità tecniche sfoggiate dal quartetto di Belfast. Mi sembravano una replica dei 65daysofstatic, a mio avviso una delle band più sopravvalutate degli ultimi anni, od una brutta copia degli Oxes.
Ma poi le qualità emergono una volta che le si riesce ad imprimere in mente: Gangs contiene dei passaggi di assoluto rilievo per una formazione strumentale che fa salti mortali in controtempo, sciorina chitarroni massiccissimi ma non lesina neanche paesaggi emozionali di grande respiro. Il tutto in un atmosfera di generale allegria, potrei azzardare. Sarà anche per la notevole iniezione di purissimo hard-rock che contamina le partiture.
Vette del disco: la title-track, articolatissima fra power-cicalecci chitarristici, pestate in pieno math-style e rallentamenti soft-post. 7 Billion People all Alive at Once, quasi una versione pop dei Don Caballero. Homes - Ghost Parlor KA -6 to..., che trasferisce rilassate chitarre explosionsiane su un inusitato ritmo in levare. Homes - ...Samara to Belfast, altro ottimo pezzo complicatissimo dalle mille mutazioni, una sorta di sunto globale dell'ASIWYFA sound.
Ci sono tanti riferimenti sparsi, le pesantezze metalliche, persino qualche passaggio wave, ma i nord-irlandesi dopo tutto riescono ad elaborare un disco piuttosto personale. Potrebbero crescere verso qualcosa di ancor più interessante.

domenica 20 novembre 2011

Anahita - Matricaria (2009)

Lungo mantra freak-folk da parte di un duo composto da una solista specialista del genere (la Burke, attiva da anni come Fursaxa) ed una violoncellista, la Espvall. Come ben precisato nelle note del disco, il tutto registrato in casa in un lasso di tempo di 3 anni.
Un trip misticheggiante che sa raggiungere momenti di levitazione esaltanti, come i 14 minuti dell'incanto per violoncello spiritato e vocalizzi angelici a ruota libera di Pirin Planina, di gran lunga il pezzo migliore del lotto seguito dai 9 un po' più sommessi di Velvet shoon.
Ma il duo sa essere anche inquietante e spettrale col loop di banjo e le voci angoscianti di Moi Kissen, nel breve intermezzo morboso di Myrrha, o semplicemente transfuga verso terre incognite in Chalice of cypress.L'operazione in sè è nobile, non c'è dubbio. E' musica per rituali senza neanche un punto di traguardo nè un obiettivo tangibile, che non è dissimile come concettualità dalla jam o dalla impro. E questo forse ne è il suo maggior limite.

mercoledì 16 novembre 2011

Oren Ambarchi - Grapes From The Estate (2004)

La prima volta che ascoltai Ambarchi, qualche anno fa (Insulation), lo trovai non proprio di mio gradimento. Magari non era il momento giusto, fattosta che mi sembrò un sound involuto che mi ricordava gli audio-test fatti in cuffia durante le visite mediche del lavoro, per misurare la capacità uditiva su diverse frequenze.
Questo Grapes, invece, lo apprezzo decisamente. L'australiano ha incontrato una discreta fama avanguardistica per la ricerca del suo suono, diretta ad una purezza astrattiva insistita fino al maniacale. Non potrei giurare che si tratta di un lavoro sulla scia del minimalismo storico, nè che si tratta di un semplice droning-sound. Io la definirei una musico-terapia volta all'ipnotismo più cullante, come nei 20 minuti di Stars aligned, web spuns, fatti di infiniti cerchi concentrici.
Diversamente non saprei spiegare le micro-punte a bassa frequenza nell'intelaiatura di Corkscrew e nella prima parte di Girl with the silver eyes, che da metà in poi si schiude ad una inaspettata serie di splendide pennellate chitarristiche di radice misteriosa.
Già. perchè Ambarchi si siede ed imposta la sua missione sulla 6 corde, ma nasce come nientemento che batterista jazz. E' ora quindi di rispolverare le spazzole e piatti leggerissimi per il capolavoro del disco, la suadente Remedios the beauty: seppur la ritmica si mantenga ad un soffio appena percettibile, la differenza col resto del disco è immane. Una lunga intro minimal di piano elettrico, l'imbastire di una linea pseudo-bassistica, il rintocco circolare di 3-note-3 di chitarra, gli sfrigolii subliminali, e l'effetto estatico è servito.
Ma non così immediato, eh, ci vuole qualche ascolto...e magari fra un po' di tempo riuscirò anche a rivalutare quel traumatico Insulation.

domenica 13 novembre 2011

Alessandro Alessandroni - Light and Heavy Industry (1982)

Lo abbiamo sentito centinaia e centinaia di volte, ma non sapevamo chi fosse. AA oggi ha 86 anni ed è passato alla storia come protagonista di storiche colonne sonore di Morricone come Per un pugno di dollari ed altre, in cui suonava la chitarra e dava fiato al celeberrimo fischiettìo di temi rimasti impressi nella memoria di milioni di persone. Come ho letto da qualche parte, trattasi dell'arma segreta dello spaghetti western degli anni d'oro.
Anche lui si è cimentato con la library durante gli anni '70, ma il valente Valerio Mattioli indica questa come la sua miglior sonorizzazione, quindi a decennio già bell'oltrepassato. Nonostante ciò che il titolo possa far sospettare, qua di industrial non ve n'è traccia alcuna: si tratta di una trafila di bizzarrie per stratificazioni geometriche di chitarre e mandolini, rhytmh boxes e percussioni spartane, con qualche puntatina di piano e synth. Trovatosi presumibilmente a dover musicare un documentario sull'industrializzazione, Alessandroni creò 16 brevi vignette in cui è la dissonanza a regnare incontrastata; se potessi definire un concetto campato in aria come la chitarra classica distorta, qui ci si andrebbe molto vicino. Imitando il passo della catena di montaggio, il ritmo è meccanico ed ossessivo, le 6-corde matematicamente spigolose, spesso raddoppiate da mandolini nevrotici. Titoli come Production line, Microbiology, Electronic assembly-line, Construction e Manufacture sono il top della stravaganza in questa scaletta fatta di avanguardia spiritata e atonale.

sabato 12 novembre 2011

Akron Family - Akron Family (2005)

Gli Animal Collective non mi piacciono, gli Akron Family sì. Trovo la loro proposta gioiosamente semplice e ben elaborata, in grado di reggere la relativa antichità del substrato sostanzialmente folkish, con melodie azzeccate che sembrano a tratti uscire dalla tomba di Syd Barrett. Il tutto arricchito da trovate di arrangiamento che fanno la differenza.
Basti sentire il primo pezzo, Before and again, per capire che era un debutto già maturo. Un motivo fragile con tenui glitches di sfondo, con inusitata coda math-folk. Il disco è abbastanza lungo ma non teme cali di attenzione, sorretto da almeno 4-5 grandi songs: il sogno primaverile di Suchness, l'onirismo ambientale di Part of corey, i synth orchestrali di Sorrow boy, l'incantevole e placida melodia di Shoes, il melanconico autunnale di Lumen, che sfiora territori radioheadiani nel chorus.
Semplici ma ricercati.

venerdì 11 novembre 2011

Air Conditioning - Dead Rails (2007)

Sèguito dell'impressionante Weakness, questo è a tutt'oggi l'ultimo disco degli AC. Che fine avranno fatto questi tre abominevoli pennsylvaniani? Finiti nel proprio gorgo rumoristico?
Se così fosse, un vero peccato. Perchè Dead Rails non è riuscito nell'impresa di eguagliare il precedente, ed una nuova uscita permetterebbe di tastare il polso di un simbolo del free-noise degli ultimi anni. Il trademark è sempre quello di un attacco atonale all'arma bianca, senza mediazioni, di certo privo dell'attrattiva sperimentale dei Sightings o dei Wolf Eyes, ma con una chimica esplosiva tutta sua.
Where to litter / Trash burning è il loro top fumante, nove minuti di assalti, fermate, ripartenze da incubo, le grida umanoidi del bassista Jurgensen echeggianti dal fondo della melma acida. Il proseguimento però perde di tensione: nonostante l'ottimo inizio, Conclusions/Concussions finisce per essere la loro versione dell'hardcore, non molto originale però. I run low è la pausa ambientale, una novità assoluta per loro, 3 minuti di lieve riverbero del chitarrista Franco.
La chiusura, Accept your paralyses / Cephalex, è una mezza delusione: 17 minuti dello stesso tema potente e grandguignolesco, realizzato in modalità jam, un po' stancante alla lunga. Come se fosse la normalizzazione dei loro cunicoli ossessivi.
Spero non si siano infilati in binari morti.

mercoledì 9 novembre 2011

Agitated Radio Pilot - World Winding Down (2007)

Folksinger irlandese, tal Colohan, attivo da oltre 10 anni su microetichette anche di oltreoceano, che propone tenui ed agresti ballads rigorosamente acustiche. Questo è stato l'ultimo disco rilasciato a tutt'oggi, ne lessi un gran bene su un Blow Up di allora.
Nulla di complicato nè maledetto ne tantomeno apocalittico, la musica dell'irlandese è semplicemente composta da quadretti di media durata per chitarra classica, un po' di piano, la sua voce solenne con qualche etereo intervento femminile, qualche riverbero, alcuni interventi strumentali un filino psichedelici (forse i pezzi più interessanti, peraltro). Vive di momenti abbastanza ispirati ed altri molto ordinari, ma il disco è doppio e la lunghezza non è giustificata, visto che la media generale ne risente. Colohan si ritaglia un suo posto dignitoso nel panorama dei folksinger attuali, ma non ha la stoffa dei giganti; tagliandolo a metà con i pezzi migliori World winding down sarebbe stato un ottimo disco, nonostante la proposta sia veramente antica.

martedì 8 novembre 2011

Æthenor - Deep In The Ocean Sunk The Lamp of Light (2006)

O'Malley-O'Sullivan. Che il nome del primo basti a garantire un minimo d'attenzione?
Di fatto Æthenor è uno di quei (non pochissimi, eh) progetti in cui viene da pensare che il primo non sia uno sperperatore del proprio talento, anzi. Il secondo invece è il tastierista dei Guapo, rivalutatore totale del vecchio Fender Rhodes che qui viene impiantato su un substrato che definire ambient è un po' riduttivo, tale è il fascino morboso che questi 4 movimenti sprigionano.
Completa l'organico un altro tastierista, De Roguin.
I è la loro versione della dark-ambient, con un ciclico risuonare di gemiti, rimpasti di suoni deformi, cunicoli cechi.
II è un sordo droning di astrattismo semi-industriale che fiorisce in una luminosa tavolozza di organo.
III stabilisce il vero parallelo coi Guapo in virata illbient: la litania di Fender inquietante e tintinnante, che gira su sè stessa estenuata fino all'ipnosi.
IV prende una piega psichedelico-esoterica non male, poi si espande in un pallone aerostatico krauto, e finisce con un beffardo carillon che sembra voler comunicare era tutto uno scherzo.
Tutto il disco è pervaso da field recordings di ogni tipo, di bleeps, frequenze basse, sfrigolii disturbanti. Si diceva che O'Malley suona la chitarra? E dove sta 'sta chitarra?
Deep in the ocean lascia con un senso di disorientamento, di thrilling in sospeso, di colpi non inferti. E' proprio qui sta il suo grande fascino, unitamente alle trovate sonore ricche di soluzioni sempre spiazzanti.

lunedì 7 novembre 2011

Aereogramme - A story in white (2001)

Ricordo, una decina d'anni fa, quando bazzicavo nel sito della Chemikal Underground alla ricerca di memorabilia sugli AS, l'entusiasmo quasi incontenibile che i suoi tipi esternavano nei confronti degli Aereogramme. Si diceva che fossero destinati ad esplodere, che erano l'espressione più ricercata e moderna possibile dell'alt-rock, e via dicendo.
Non è andata esattamente così, visto che nel 2007 si sciolsero nell'indifferenza generale, dopo esser tornati alla casa madre ed aver pubblicato il loro apice Sleep and release sull'illustre Matador nel 2003. Fra quest'ultimo e il debutto A story in white stava il meglio del quartetto di Glasgow, con sonorità variegate che ancora oggi fanno bella figura.
Ballads delicate (Descending), riffoni metallurgici (The question is complete), impennate progressive (Post-tour), elucubrazioni sotterranee (la suggestiva Egypt), addirittura archi bucolici (Sunday), emo-core convulso (Shouting for Joey). Nonostante la teorica disomogeneità, il gruppo riusciva molto bene ad amalgamare tutti questi umori (da cancellare soltanto lo sbiadito pop di Zionist timing, deprecabilmente vicina ai Placebo).
Fossero approdati ad una major, chissà....

domenica 6 novembre 2011

Acid Mothers Temple & the Melting Paraiso U.F.O. - La Novia (2000)

Collettivo in pista da oltre 20 anni che incarna perfettamente gli stereotipi dell'estremismo giapponese, del massimalismo, del parossismo, veicolati alla psichedelia più totalizzante e fricchettona.
Una summa di Amon Duul e Hawkwind, a parole grosse. Un tributo alle jam lisergiche dei primi '70, con un occhiolino anche agli stordimenti dei Pink Floyd circa Live at Pompei, con l'aggravante di un leader, il chitarrista Kawabata, che non è particolarmente tecnico ma eccelle nella direzione generale di un ensemble che non sembra avere alcun obiettivo se non quello di produrre sballi su sballi.
La Novia è un mega-viaggio di 40 minuti che forgia sostanzialmente un unico riff epico, di potenza mistica notevole; detto così potrebbe diventare una palla mortale, ma sono le variazioni e le pause a renderlo avvincente, in particolare all'altezza del 30esimo minuto con la sua scomposizione cosmica, nonchè il finale acustico, degnissima quiete dopo la tempesta.
Bois tu de la biere è un affascinante ballad dronica, sommessa ma vitalizzata da vocalizzi femminili di possedimento estatico. E' un breve break prima del tour de force Bon voyage au Lsd, 17 minuti soltanto di dissonanze cosmiche in crescendo (si sfiora quasi l'industriale nei momenti più convulsi), forse un po' raffazzonata ed approssimativa ma di sicura presa per chi ancora trova attrazione per questi suoni così antiquati (me compreso).

giovedì 27 ottobre 2011

Aburadako - 1996 (Fish)

Dopo il disco della tartaruga Hasegawa decise di fare un break lunghissimo per riflettere sul rischio che gli Aburadako si standardizzassero, ed infatti passarono ben 7 anni prima del disco del pesce (o del pescatore, a seconda dei punti di vista, l'immagine di copertina è un primo piano di entrambi).
Ed i cambiamenti erano più che tangibili: al posto del suono impeccabile e professionale del precedente, 1996 vedeva il mirabolante quartetto di Hasegawa alle prese con impronte ben più abrasive, in particolare quella possente e fuzzata del basso di Komachi. Per quanto riguarda le spericolate e maniacali architetture sonore, si era sempre di fronte ad uno scenario dell'assurdo e dell'impossibile, chè neanche l'abusata definizione math-rock può rendere lontanamente l'idea. Uno perchè l'urlo rantolante di Hasegawa restava sempre il delirio più assoluto, due perchè le sciabolate del chitarrista Izumi fuggivano qualsiasi stereotipo.
Anzi, a far quasi auto-ironia, c'era qualche frangente in cui si sfiorava un jazz-punk radioattivo (Oo mai goddo, probabilmente il picco del lotto, oppure le dissonanti Sakusou e Soui), oppure una mutazione genetica di blues-rock (Keitchitsu, davvero peculiare in quanto Hasegawa prova persino a modulare un canto, con esiti esilaranti). Quasi inutile aggiungere che la sezione ritmica fa scintille e faville.
Anche gli episodi meno incompromissori (Guriin pakin, Tappingu peesuto) si fanno apprezzare come lievi boccate d'ossigeno nella selva più intricata di queste fenomenali acrobazie.
Ripeto fino alla noia, un gruppo eccezionalmente unico.

mercoledì 26 ottobre 2011

A Storm of Light - And We Wept the Black Ocean Within (2008)

Uno scarto musicale mica da ridere per uno dei fondatori dei Red Sparowes, il chitarrista Josh Graham, che dopo aver presenziato su due delle più importanti pagine dell'epic-instru anni '00 si lanciava in una nuova, pesante avventura.
Il trio degli A Storm Of Light segna un ritorno alle origini dal punto di vista dei chitarroni per Graham, parte integrante dello staff Neurosis anche se non musicalmente coinvolto. I passaggi più violenti devono molto all'iconica istituzione post-metal, anche a livello vocale, ma la lentezza asfittica con cui si srotolano queste lunghe composizioni trae spunto ovviamente dal doom.
Non mancano anche richiami agli Isis (la suggestiva Leaden tide). Nel complesso il disco risente un po' del chilometraggio eccessivo, si sarebbe potuto sfrondare un po' le durate e l'effetto apocalittico non sarebbe stato inficiato per nulla. Non mancano comunque ottimi spunti, come la bellissima Thunderhead, l'articolata Mass, lo struggente emo-doom di Iron heart.Lo svantaggio che ne deriva anche dalle sparse critiche che ho letto, è che probabilmente è uno stile, quello degli ASOL, che non soddisfa nè i fan dei Red Sparowes nè quelli dei Neurosis.

martedì 25 ottobre 2011

A Day Called Zero - A Day Called Zero (199?)

Penso sia la prima volta che mi capiti un disco di cui non si sa l'anno di uscita. E pensare che non appartiene neanche alla preistoria, ma alla prima metà degli anni '90, in cui uscì quest'unico mini-album sulla Gravity, label specializzata in post-hardcore dell'area di San Diego.
Si sa invece chi militava nel trio in questione: Nathaniel sarebbe diventato una colonna fondante dei Black Heart Procession, qui al basso. Il batterista era Crane che sarebbe confluito nei Rocket From The Crypt, mentre resta sconosciuto il cantante/chitarrista, un certo Josh Quon.
Erano sostanzialmente due le influenze degli ADC0: gli Slint per le atmosfere abbandonanti e le ragnatele chitarristiche, e i Three Mile Pilot per la ritmica sostenuta e le tonalità autunnali del suono. Ovvio che tali confronti avrebbero fatto tremare i polsi a chiunque, e qui come risultati non ci si può avvicinare più di tanto, a tali padri putativi.
Però per gli amanti del genere ci sono 4 pezzi che si fanno apprezzare non poco, specialmente Observation of the perpetual e Pleateau, crepuscolari ed avvincenti nelle progressioni discostanti.

lunedì 24 ottobre 2011

A Broken Consort - Crow Autumn part two (2009)

Insieme a Landings, il punto più alto della ancor breve ma luminosissima carriera di Skelton, e curiosamente la parte due uscita un anno prima della parte uno.
Sotto il moniker A Broken Consort l'inglese dà aria ai suoi archi florescenti. Il caleidoscopio rinascimentale di questo episodio di una mezz'ora scarsa si compone di un tema fondante in piena soluzione minimalistica, divisa in tre parti: Mountain ash e The river vivono di stratificazioni in cui violini e violoncelli riempiono a poco a poco la stanza, incontrastati, salvo note sparse di piano che sembrano quasi volerli riportare a terra, tanta è la levitazione che ne consegue.
Il tratteggio finale, Beneath, apre porte e finestre e stempera lentamente la sinfonia fino al fade out di un singolo violoncello, lasciando via via un silenzio che è difficile rompere con altra musica a ruota.
E' la poetica del dolore che si muta in estasi.

domenica 23 ottobre 2011

90 Day Men - (It (is) It) Critical Band (2000)

Riascoltandolo ad un decennio di distanza, Critical Band alle mie orecchie conserva lo stesso livello di coinvolgimento ed eccitazione. Lo stesso effetto che concordava con orgoglio qualche mese fa in occasione del live dei Disappears il buon Brian Case, che dei 90 Day Men era chitarrista e vocalist principale, di fronte alla mia esternazione.
Art-math è l'unica definizione che potrei tentare di elaborare per definire il loro sound in due parole, in un disco imprevedibile, pieno di ostacoli, corse e ripartenze, dal tocco unico. Si era alla sublimazione della loro prima brillantissima fase, con la svolta prog-psych appena dietro l'angolo, quindi ancora spigoli vivi (From primadonna to another, Hans Lucas, Jupiter and io), Key e Lowe protagonisti assoluti della scena a fare pirotecnie (ovunque, ma citerei in particolare Dialed in, Missouri kids cuss) , raffinatezze stilistiche strategicamente piazzate (Super illuminary, Sort of is a country in love, Exploration vs. solution, baby), a confermare quanto di ottimo era già stato espresso con i precedenti 1975-77-78 e lo split con i Gogogo Airheart.
Ciò che un po' mi dispiace è vedere che la stampa non li ha valutati mai troppo bene, ma capisco che si poteva anche intravedere un pelo di quella autoindulgenza che è tipica di chi sa suonare alla grande e lo sa fin troppo bene. Poi è chiaro che sono stati dimenticati un po' da tutti all'indomani dello scioglimento, e ciò che non ho mai capito io è stato quell'accomunarli ad altri nomi che secondo me non c'entravano e che tendeva a sminuirli.
Al di là di tutto questo, Critical band per me resta un magnetico capolavoro di unicità espressiva.

giovedì 20 ottobre 2011

3/4Hadbeeneliminated - Oblivion (2010)

Un disco pauroso, che mi risulta arduo riuscire appena a descrivere per le emozioni che mi infonde. Se ci sono influenze o paragoni evidenti, sono io che non ci arrivo a sentirle.
Giungo decisamente tardi a scoprire questo virtuoso manipolo di sperimentatori che ha attirato su di sè le attenzioni persino di un etichetta statunitense in occasione del loro terzo disco nel 2007, ma non importa. Oblivion è una folgorazione di ricerca, lungo concepimento spezzato in 4 tronchi, un escursione onirica che scava nell'inconscio.
E' un lavoro in cui le lente aperture armoniche fanno da rompighiaccio per gli astrattismi sonori di Tricoli e Rocchetti, le due anime radicali. Pilia, le cui doti soprattutto timbriche ho avuto modo di verificare live con i Massimo Volume all'inizio di quest'anno, àncora a questo mondo le ambientazioni spettrali che ne conseguono, con le sue cerebrali ma lucide elucubrazioni chitarristiche, fosco e tenue.
Poi c'è il ruolo della voce (non ho trovato info finalizzate a capire di chi sia), un tremito fragile, che si aggira incerto e spaurito fra queste nebbie elettro-acustiche. La prima parte, lunga 17 minuti, è un remare indefesso in purgatori extra-sensoriali. Gioiello.
La seconda riesce a rarefarsi ancor di più. Echi cosmici in picchiata lasciano posto a manciate sparse di note di piano e all'archetto esponenziale sul contrabbasso (sempre Pilia, immagino). Mi risuona in testa la lezione filosofica di Mark Hollis; quella di non suonare mai più di una nota alla volta, e se non si è decisi, non suonare neanche quella.
Con la terza parte riprende anche il canto, un filo più deciso ma per questo sempre più traballante. La sequenza di Pilia è fatalista e sottilmente allucinata. C'entrerà il concetto alla lontana, ma mi viene in mente Starsailor. Inesolabilmente, i due grandi guastatori operano un'infernale invasione di campo. E' il caos, ma dura poco.
La 4° ed ultima parte ritrova un piccolo conforto fra le foschie droniche. E' il ritorno al punto di partenza, perchè in questi giorni ho ascoltato Oblivion a ripetizione nel tentativo di decifrarlo e di scriverci sopra due impressioni, possibilmente non insensate. Non so se ci sono riuscito, ma la voglia di ripartire per questo viaggio è sempre più pressante, ogni volta non è come quella precedente.
Onore.

martedì 18 ottobre 2011

23 Skidoo - Seven Songs (1982)

Uno dei reperti di post-wave sperimentale di maggior pregio. Seven Songs fu il debutto che nel 2008 ha ottenuto la ristampa ampliata da frattaglie sparse su singoli e compilations dell'epoca, ed era un disco schizofrenico, imprevedibile ed avventuroso.
Kundalini ne è un numero molto calzante: percussioni esotiche su ritmi elettronici, spirali sintetiche, voci marziali, rumorismi assortiti. Poi con Vegas el bandito sembrava che si svelasse la vera identità dei 23 Skidoo, grazie ad un febbrile funk bianco di gran classe, più tardi raddoppiato da Iy e completato dall'irresistibile Last words, che fu anche singolo. Qui si intravede una band sciolta e incalzante, in linea con altre realtà del tempo come A Certain Ratio e Gang Of Four, ed invece......
La vera anima dei 23S era quella dell'avanguardia, di un suono astruso, di una simbologia esoterica. L'allucinato notturno per fiati deliranti di Mary's operation, il lentissimo mostro meccanico di New Testament, l'incubo dark di Porno Base, la giungla satirica di Quiet Pillage.Oltretutto le bonus tracks non hanno proprio nulla da invidiare alla scaletta originale: la nevrosi ritimca di The Gospel Comes To New Guinea arriva a lambire terreni di psichedelia. Tearing Up The Plans forse è il loro capolavoro; inizia con una fase percussiva insistita, poi si ferma tutto in favore di un piano dissonante e di un laconico sax in sottofondo, che poi riparte pachidermico insieme alla serie di tablas e bonghi. Grezza e Geniale.
Chiudono il collage di recitati di Just like everybody e la danza africana di Gregouka, con inquietanti cori gregoriani sullo sfondo.
Difficili e scomposti, ma da recuperare.

lunedì 17 ottobre 2011

17 Pygmies - Jeddah by the sea (1984)

Una versione californiana del classico suono 4AD, con particolare attenzione verso i suoni etnici e leggere suggestioni medio-orientali. Non propriamente dei Dead Can Dance minori, chè i pigmei si concentravano su sonorità visibilmente pop come nei due primi pezzi, Words never said e Waiting to arrive, mutuati dall'organ-rock dei sixties (con una debolissima voce maschile, ma la seconda poi curiosamente anticipa certe arie degli American Analog Set). E' comunque un disco dispersivo che ha il difetto di essere invecchiato un po' maluccio nonostante le ottime idee dei solenni strumentali Moment in Ceylon e Jerusalem.
Nella seconda parte del disco compare anche la soave voce femminile, dall'effetto evocatico seppur stucchevole a tratti. Sono ancora gli strumentali d'atmosfera a tenere banco, come la pianistica Hollow Lands e l'elegia finale di Nocturne. Ecco, se avessero lasciato perdere le voci i 17 Pygmies avrebbero realizzato una piccola perla sotterranea del post-wave americano.

sabato 15 ottobre 2011

(R) - Under the Cables, Into the Wind (2005)

Palumbo dei Larsen alla sua prima libera uscita, con un tracciato che solo in minima parte richiama il gruppo madre, e che si concentra su coordinate minimalistico/ipnotiche.
Love song è un tema che apre e chiude, sommatoria di sibilii e sferragliate di piatti sotto uno slide di basso. Landscape #1 irradia un po' di positività, ma il continuum di organetto e simil-cornamuse alla lunga (9 minuti) annoia parecchio, così come gran parte dei 12 minuti di Ghosts are made of DNA, oscillazione dark-ambient da encefalogramma piatto, forse più una ricerca del suono che altro.
Le cose si fanno interessanti con la psichedelia minimale di Shining camels and rising anacondas, ma poi Palumbo si imbarca in un folk slabbrato e acido con I'm with you e che dire, sembra non essere propriamente il suo genere e la voce è da dimenticare.
In sostanza, ben poche idee e ancor meno conseguenti cose.

venerdì 14 ottobre 2011

(Fallen) Black Deer - Requiem (2008)











Progetto one-shot nell'ambito di una collana della Southern, la Latitudes, del valentissimo bassista Burns dei Red Sparowes insieme ad un ex-chitarrista degli stessi, Graham, da lì in poi dimissionario ed impegnato nei super-apocalittici A Storm Of Light.
Una serie che sembra la miniatura della Into the fishtank che l'olandese Konkurrent promuoveva a fine anni '90. Agli artisti viene concesso un-giorno-uno di studio per registrare qualsiasi cosa, ed obiettivamente non si potrà pretendere di scovarvi dei capolavori all'interno, vista la ristrettezza della situazione.
Comunque, i due mettono in scena un Requiem di grande impatto, ispirato ad un ipotetica rielaborazione della soundtrack di Shining (intenzione verificata da uno dei titoli con cui viene divisa la scaletta, I seek to kill my son). Una suite di 25 minuti che galleggia senza ritmo in un desolante panorama di catastrofe imminente. Le similitudini con i magici Red Sparowes non tardano a farsi sentire, specialmente in alcune linee chitarristiche o nel distintivo, pulsantissimo stile bassistico di Burns. E' comunque un punto di partenza per lo svilupparsi del tema, disturbato da elevate interferenze rumoristiche che deturpano lo sconfinato ambiente, che come detto è privo di ritmo e quindi si stacca dai trademark abituali per costruire un lavoro suggestivo.
Forse non necessariamente funzionale ad un film o ad un documentario, ma con così poco tempo a disposizione direi che non sarebbe stato lecito chiedere di più.

giovedì 13 ottobre 2011

!!! - Myth Takes (2007)

Miscela scoppiettante e danzereccia di funk, pop, elettronica spiccia e indie vigoroso per la band californiana dal nome meno googlabile in assoluto (ma basta scrivere chk chk chk o il titolo di un disco). A partire dall'irresistibile apertura della title-track, che fin da subito evidenzia un signor bassista in formazione, appare chiaro che i !!! fanno mangiare la polvere a tutto lo stuolo dei post-post-post-new-wavers del decennio zero. Persino i brani dall'intercedere più ruffiano ed accattivante possiedono una presa funky secca quanto basta e soluzioni strumentali interessanti. Un pezzo come A new name prende la lezione dei Gang Of Four e la aggiorna con intelligenza. Il tiro ritmico è così sostenuto che spesso si va a finire in una sorta di dance-rock che non appartiene nè alla disco-commerciale nè alla rave music.
Il finale è la parte più interessante, con la lunga Bend Over Beethoven, che raggiunge un fragoroso climax psichedelico e il collage deviante di Break in case of everything. Chiude una stranita ballad per piano e chitarra galattica, Infinifold.Trascinanti.

mercoledì 12 ottobre 2011

Simone Giacomini - Works 2011

E' il momento di un graditissimo update sul lavoro che l'amico Simone svolge ormai in pianta stabile in Olanda, una fresca antologia di sonorizzazioni che lui stesso definisce musica di compromesso, in quanto soggetta a particolari esigenze di copione, strutturali, etc etc.
L'ultimo anno gli ha regalato anche l'opportunità di musicare un documentario sulla famigerata Scampia, che al Documenta Film Festival di Latina si è aggiudicato il primo premio sia come prodotto che....come miglior colonna sonora!
Al di là dei presunti compromessi, rispetto alla raccolta dell'anno scorso mi sembra di udire un maggior uso dell'elettronica che si incrocia con armonie pianistiche ed archi di grande respiro. Direi camera syntetica, col surplus delle struggenti composizioni. Vortex parte con un deciso beat dispari su arie grevi, ritmo bissato nel resto soltanto dalla secca The push. Sono le tracce guidate dal piano a dominare, come la melanconica A hundred arms, la panoramica di Kalmosphere (da fare una gran invidia a Jeff Martin...), la meravigliosa Black Mirror, secondo me il top del lotto, seguita di una spanna da Android Love, nebulosa notturna infiorettata da rifrazioni chitarristiche e beat echeggianti.
Nettamente distanti dal resto il cupo drone di The rest of the world e il collage astratto di Mechanical Loneliness, squarciato da feedbacks appuntiti oltremisura.
Detto questo, chissà che qualche regista non si accorga dell'arte sopraffina di Simone, il quale sostengo meriti una maggior esposizione.

Simone Giacomini - Works 2011

martedì 11 ottobre 2011

Zu - Igneo (2002)

Imprendibili e motivo d'orgoglio nazionale al di fuori dei confini, e non solo europei. La bravura sostanziale degli Zu è sempre stata quella di ottenere il massimo possibile dalla ristretta strumentazione. Di saper svariare oltre la naturale compressione di un suono, di possedere la tecnica mostruosa che non annoia mai, di fare dischi che non sono mai uguali ascolto dopo ascolto.
Registrato da Steve Albini, Igneo è un po' il loro manifesto espressivo, fra scatti brucianti, deliqui algidi, esplosioni free sempre sotto controllo ed angoli acuti matematicamente pungenti.
Uno stile reso classico dalla sfilza di album realizzati fino all'ultimo, metallico Carboniferous. Ora che il poderoso Battaglia ha abbandonato il gruppo (giusto in tempo che io riuscissi a vederli per la mia prima volta qualche mese fa), staremo a vedere se ci saranno traumi o rinnovamenti significativi.

lunedì 10 ottobre 2011

Zoogz Rift - Nonentity (1988)

Brutto però, che si viene a conoscere un artista solo perchè è morto. Uno che fra l'altro negli anni '80 incideva su SST, e per sbarcare il lunario si era buttato nel mondo del wrestling fino a diventare vice-presidente di una federazione.
Zoogz Ciccio Rift era un mattacchione dallo stile tutto suo. Fra i 4-5 dischi che ho sentito prediligo questo per via di un paio di collages dell'assurdo da lasciare di stucco. Rispetto ai primi, in cui l'approccio ridanciano da cartone animato prevaricava le ambizioni avanguardistiche, Nonentity è anche un valido compromesso fra accessibilità e velleità demenziali.
A chi sarebbe mai venuto di riempire un terzo della scaletta con ben 3 cover tratte da Look at the fool di Tim Buckley? Un gesto folle e incomprensibile, visto anche che si trattava del disco unanimemente riconosciuto come il mediocre per eccellenza del grandissimo. Ciccio ne manteneva la radice soul-funk ma la arrugginiva con la sua voce sardonica e lo stile ruvido del gruppo di accompagnamento, che comprendeva un fisarmonicista e un poli-fiatista, spesso irresistibile alla tuba.
A fronte di pezzi da vaudeville sfrontata e caramellosa come Chromium slit negatives e When my ship rolls in, c'è un paio di minuti vorticosi ed irresistibili dello strumentale Locked out e i quasi 9 di dadaismo-blues dell'iniziale Delinquent payments. Ma sopratutto ci sono i 2 colossi di cui sopra, e anche se la firma è del leader occorre dare tutto il tributo possibile ai geniali compagni, determinanti nel risultato finale.
With my bare hands ripristinava il concetto di jam improvvisativa in un epoca in cui era decisamente fuori moda, con assoli di fuoco di Ciccio all'elettrica. Un esercizio magistrale di nonsense messo a fuoco alla perfezione.
Che viene rilanciato e iperamplificato in trionfo dai 22 minuti di The Enigmatic Embrocation Of Mrs. Compost Heap, montaggio assurdo e dissonante di marcette circensi, allucinazioni di synth, borbottii scomposti di tuba, velocizzazioni art-core, e chi più ne ha ne metta. Uno spettacolo che è sufficente a valorizzare il disco e il personaggio, anche se in chiave postuma.

domenica 9 ottobre 2011

Zanagoria - Insight Modulation (1972)

Ancora library, e della frangia più estrema e radicale.
Sotto lo pseudonimo Zanagoria si celava Giorgio Carnini, un rinomato organista di stampo strettamente classico, e Insight Modulation è un oggetto difficilmente identificabile per l'anno in cui fu realizzato (e chissà a cosa diavolo fece da sottofondo, vista l'inquietudine e la nevrosi che poteva trasmettere alle orecchie dell'ascoltatore più comune).
L'opening, Cancrizzante in ritmo, è un oscurissima scansione per suoni sordi e generatori audio random-robotici. Qualche punteggiatura di (credo) piano elettrico sembra poter dare una parvenza vaga di musicalità, ma dura molto poco. Cancrizzante in solo e Kilomb conducono verso un tunnel angosciante di spirali metalliche, drones gelidi e feedbacks siderali.
La doppietta Su 60 impulsi I e II galleggia su lenti e dissonanti interscambi di qualcosa che sembra un incrocio fra il vibrafono e il rhodes. Jazz modulations si sbizzarrisce su una pantomima meccanica di suoni androidi, ma è una breve pausa perchè si ritorna subito nell'abisso. Monotone è campana funerea in scenario lugubre, l'altra doppietta di Condensazioni si agita fra trilli casuali e drones di inaudita psichedelia astratta.
Il finale è ancor più estremista: in Frase in metallo Carnini traffica coi nastri a ruota libera, creando un ambiente allucinato fra foresta equatoriale e laboratorio atomico. Diorama e recitativo ricicla urla disumane ed emissioni animali in una palude cibernetica, roba da far tremare di paura Dario Argento.
Un disco che lascia tramortiti e che anticipa furiosamente l'industrial più brado della fine del decennio. Credo che se Stapleton l'avesse conosciuto all'epoca del primo disco di NWW l'avrebbe certamente inserito nella list dei ringraziamenti.

giovedì 6 ottobre 2011

M. Zalla - Problemi d'oggi (1973)

Ci sono musiche che appartengono al subconscio, sottofondi subliminali che molto difficilmente possono giungere alle orecchie indipendenti, slegate dal contesto. E non sto parlando di colonne sonore. E' la library music italiana.
Così mi viene in mente che tanti anni fa, quando mi capitò di vedere programmi di repertorio Rai degli anni '70, vecchi servizi, documentari e reportage in notturna, avevo notato delle musiche incredibilmente strane e misteriose. E mi ero chiesto da dove venissero fuori.
Nel numero estivo di Blow Up c'è stato uno splendido servizio curato da Mattioli che ha tracciato un percorso storico di quest'area, che è essenzialmente legata ad un manipolo di ricercatori e compositori italiani che negli anni '70 erano impiegati dal servizio pubblico televisivo per musicare questi servizi. Un lavoro fondamentalmente diverso dalla colonna sonora tradizionalmente intesa; ai suddetti venivano commissionati gli incarichi di musicare questi programmi ed erano liberi di sperimentare al 100%, senza censure nè filtri. Spinto dalla curiosità, sono andato a cercarmi i dischi più consigliati ed ho scoperto qualcosa di eccitante ed inedito, nonostante si parli di 40 anni fa.
Robe belle ed oscure, da stare in piedi da sole e in certi casi anche terribilmente avanti. Anche un paio di star delle soundtracks si applicarono al servizio, come Morricone ed Umiliani. Proprio quest'ultimo, sotto pseudonimo forse per motivi contrattuali, realizzò una manciata di dischi di library nella prima metà della decade. Problemi d'oggi presumo fosse legato ad un documentario a sfondo sociale, intuibile anche a scorrere i titoli delle tracce, immagino dedicati ai diversi paragrafi. Ed è un lavoro molto percussivo ed elettronico.
Ad ascoltare il primo, Produzione, c'è già da restare sorpresi: 3 minuti e mezzo di proto-techno-trance con percussioni tribali, cassa pompante e girandole di synth, in anticipo di 15 anni sui primi inglesi che esportarono la fiorente scena rave! Ma scorrendo in avanti le gemme si susseguono: la psichedelia lunare di Attività e il suo proseguimento Attività #2, per tamburi rombanti e stantuffi elettronici. L'harpsicord inquietante su base martellante di Problemi sociali, il loop delirante di flautino e i trilli sintetici di Abbandono dei campi, i rintocchi minacciosi di Mafia oggi, Cuore e raffiche e Pendolo ed angoscia, il power-electronic ante-litteram di L'ultima raffica.Andava molto bene anche quando Umiliani si tratteneva in aree musicali, come nell'incalzante funk minimale di Non mollare, nel teatrino sarcastico di Azione sindacale o nel jazz congelato di Conflitti.
Non c'è che dire, una branca che merita un buon approfondimento.

mercoledì 5 ottobre 2011

Yume Bitsu - Yume Bitsu (1999)

Vero autentico festival delle chitarre luccicanti, per questo mix fra psichedelia onirica e shoe-gaze parossistico. Erano un quartetto senza basso di Portland, e andavano a caccia di voli pindarici.
Disco lungo e dilatatissimo, l'omonimo indugiava in temi di sicuro fascino quando c'era uno straccio di forma canzone e qualche strofa cantata (I wait for you con la sua bella melodia circolare e Truth con un crescendo irrefrenabile di frequenze). Surface I e II erano l'archetipo del loro ambient-rock galattico, con il synth in primo piano, il tema arioso di Team Yume un incrocio fra Mogwai e Slowdive.
Si puntava tutto sulle atmosfere e si lavorava ossessivamente sulle timbriche, con valide varietà assortite. Solo nella finale The Frigid, Frigid, Frigid Body affiorava un certo manierismo, di certo dovuto alla lunghezza spropositata (18 minuti, la metà sarebbe stata più che sufficente).
Una durata inferiore e la conseguente maggior concentrazione avrebbe fatto molto bene al disco, che comunque resta un sottofondo molto piacevole.

martedì 4 ottobre 2011

Richard Youngs - The naive shaman (2005)

Artista inglese che da oltre vent'anni propone un miscuglio abbastanza personale di folk, psichedelia e minimalismo. Nel momento in cui veniva osannato da Blow Up ho cercato di ascoltare qualcosa ma la sua terribile prolificità mi ha spaventato e allora mi sono avvicinato a quello di cui si parlava meglio, ovvero questo The naive shaman.Ora è chiaro che dovrei riprovare con altro, ma sinceramente quando il primo approccio non va tanto bene tendo a diffidare, specialmente se è indicato come uno dei migliori. Il problema di questo disco è che, nonostante le sonorità alquanto interessanti, è di una noia scoraggiante. Trattasi di 5 lunghe tracce ipnotiche per droni, chitarre manipolate e litanie vocali in soluzione di continuità. Già la voce di Youngs non è esattamente di quelle memorabili, e le melodie non sono sufficentemente affascinanti per farsi ricordare nonostante il martello minimale.
Evidentemente devo aver sbagliato titolo, e mi occorrerebbe una dritta differente.

lunedì 3 ottobre 2011

Neil Young - Dead Man Soundtrack (1996)

Subito dopo il monumentale Arc, questa colonna sonora è stato uno dei momenti più alienati della carriera di Young, durante la sua seconda giovinezza nei '90. La generazione grunge gli rendeva tributo e lui, ringalluzzito, sfornava fra i suoi lavori più indimenticabili dopo una decade piuttosto fiacca, quella degli '80.
Un progetto veramente atipico, quello di musicare Dead Man. Armato della sua gloriosissima e sporca Les Paul, chiuso in una stanza a visionare le parti editate del film, ispirato e libero proprio perchè non vincolato alla forma canzone classica. Ci sono 5 movimenti per chitarra e uno breve per organo, inframezzati da lunghe parti recitate, prelevate a forza dal film. Basta semplicemente togliere queste ultime dalla scaletta e ne esce un capolavoro per lente saturazioni, arie sommesse e feedback relativamente controllati. Non serviva modificare l'approccio e Young se ne rese conto facilmente; il movimento più significativo è Guitar Solo #5, un quarto d'ora maestoso dell'arte younghiana, così semplice e lineare eppure unica ed inconfondibile.

venerdì 30 settembre 2011

You May Die In The Desert - Harmonic Motion Vol. 1 + International Waters EP (2008/10)


Ho il piacere di dire la mia sul gruppo che più di tutti, con una ripetizione maniacale, ho ascoltato nell'ultimo anno. E dire che si tratta di un repertorio piuttosto limitato, ovvero 3 EP o mini-lp per una durata totale di circa 90 minuti.
YMDITD è un giovane trio di Seattle la cui forza è stata anche quella di distillare queste uscite nell'arco di ben 4 anni, mettendo in campo tutta la cura che la sintesi ha richiesto; ovviamente mi aspetto una nuova produzione da parte loro, anche se sul loro piccolo sito non sembrano esserci news al riguardo. D'altra parte è sempre dura perseverare quando si agisce così sottoterra e si suona di fronte a pochi intimi.
Siamo dalle parti dell'epic-instru più emotivo, ma reinterpretato con un piglio del tutto personale: sulle melodie poliedriche del chitarrista Woods (molto evocativo, equamente diviso fra pulito ed effettato, con poca distorsione) e del bassista Stalter (molto abile, anche sul tapping), si staglia la figura del vero fuoriclasse del trio, lo smilzo ed emaciato batterista Clark, uno di quei ragazzetti che a vederlo non gli dai un centesimo ma in realtà è un fior di drummer: elastico, volitivo ed imprendibile su un set essenziale. Uno di quelli che ha la tecnica poco convenzionale.
In sostanza, si tratta di un gruppo che ha mandato bene a memoria la lezione degli Explosions In The Sky ma ne elabora una versione personalissima: muscolare, con qualche iniezione di math, fatta di semplici ma memorabili linee, mai melanconica ma fondamentalmente solare, quasi giocosa. Un attitudine che si intuisce anche dalle foto in cui i 3 sono immortalati, sempre divertiti ed ironici, a differenza della stragrande maggioranza dei gruppi epic-instru che sono distanti ed assorti.
Il debutto è del 2006 e si chiama Bears in the yukon: col senno di poi è un uscita un po' acerba ed autoindulgente, ma mette già in guardia sulle capacità del trio. Vorrei porre l'accento sugli ultimi due EP, il primo dei quali è uno split con i Gifts From Enola: 5 pezzi fenomenali, una rivelazione: The sound of titans, 11 minuti di micidiali progressioni atmosferiche. In case I should die spinge sul pedale energetico fra leggerezze ed eruzioni. Mitchell vs. Rowesdower è un mirabolante palestrare math prima dello stacco da brividi e del finale acrobatico. Commovente e all'altezza dei più immensi Explosions la meditazione di Seagulls = Sea Eagles, con uno sviluppo finale ludico che è già trademark assoluto. Ultimo picco per Let's have sarcasm for breakfast, con inizio balzellante, altro break ad alto tasso emotivo (tanto per dirne una da fan, ce l'ho come suoneria nel cellulare...) e crescendo epocale a chiudere in gloria
International Waters è uscito l'anno scorso e vede un progressivo indurimento del suono, nonchè una produzione più in your face. In particolare Clark, forte della propria sicurezza, si ritaglia una presenza più fisica, di primo piano nel missaggio. Purtroppo non si ripete il miracolo di Harmonic Motion, ma soltanto a causa di West of 1848 e Monolith, che vedono una distorsione troppo marcata nelle fasi topiche. Non sto certo sostenendo che siano due delusioni, ma a farsi la bocca dolce, insomma, ci siamo capiti. Ci pensano gli altri due a tenere altissima la bandiera: gli 8 minuti della title-track, una specie di replica energizzata di The sound of titans, e la marcia panoramica di True North, minimale cartolina tirata fino allo spasimo. Una versione accorciata è stata postata a mo' di video-promo sul sito del gruppo.
Mi aspetto un ritorno perlomeno a questi livelli dai ragazzi, una maggior esposizione mediatica nel limite del possibile e chi può dirlo? Magari che un giorno vengano a suonare dalle nostre parti.
Sono gruppi bravi come questo a mantenere alto un filone che viene dato per morto ormai da chiunque, anche chi non ne ha le competenze.

Yona Kit - Yona Kit (1994)

Progetto one-shot sotto l'egida della Skin Graft, al tempo un etichetta simbolo della scena noise non solo statunitense. Insieme a KK Null degli ZeniGeva al canto, c'erano il bassista Gray dei DazzLingKillMen, il batterista Jones dei Cheer Accident ed un giovane ma già prezzemolaro Jim O'Rourke. Insieme davano forma ad un math-rock scuro, compresso e monocromatico.
La produzione di Albini peraltro non riusciva a riparare le limitate potenzialità di un disco forse realizzato troppo in fretta: sebbene tutti a parte Null al momento fossero impegnati in un altra band estemporanea (i ben più avanguardistici Brise-Glace) e quindi non erano perfetti sconosciuti, Yona-Kit soffre a tratti di un eccessiva ripetizione dei concetti e neppure un O'Rourke ancora in grande fervore sperimentale riusciva a trovare un guizzo di genio, impegnato più che altro ad emulare proprio l'Albini dei Rapeman e il suo suono secco, chirurgico.
Ciò non toglie che chi ama il genere non possa tratte piacere dall'ascolto di trascinanti (e quasi divertenti per il declamare di Null) schegge a ritmi dispari come Franken bitch, Dancing sumo wrestlers, Hi ka Ri, Skeleton King. A condizione che si cancelli dall'albo Slice of Life, un riempitivo inspiegabile quanto inutile di 23 minuti posto alla fine per integrare la breve durata del resto, pistola fumante della fretta che ha castrato il talento potenziale del quartetto.

giovedì 29 settembre 2011

Yoga - Megafauna (2009)

Difficilmente definibili questi due ceffi mascherati di Los Angeles. Sembra partire come un progetto di psych-hard-wave (Seventh mind, un sontuoso maelstrom di chitarre appuntite e groove minaccioso), ma già al secondo pezzo comincia a darci dentro con la sperimentazione più pura, con i meandri melmosi di Flying witch, l'orda ventosa di industrial in Wagion, le processioni orrorifiche di The hidden people e Black Obelisk, il carillon andato a male di Dreamcast, le allucinazioni strabuzzanti di Haunted brain e Chupacabra's rotting flesh.
E' un suono malato, sporco e lo-fi che lascia circospetti ma non disdegna qualche apertura, come quando ci si concede qualche remota convenzione sonora. E' il caso di Encante, serrata per organo acidulo, fraseggio epico di chitarre e fischi space. Fourth eye apre con un motivo analogico in stile corrieri cosmici e si sviluppa con riff enfatico e ritmica tornitruante. Ancora più catastrofico lo space-metal alla moviola di Treeman, curiosa la divagazione in stile mediorientale di Warrior.Insomma, un disco popolato da animali amorfi ed enormi. Per stomaci forti.

mercoledì 28 settembre 2011

Yndi Halda - Enjoy Eternal Bliss (2005)

Ma si fa ancora musica a Canterbury? Mi chiedo questo perchè non ho memoria di aver sentito gruppi / artisti significativi provenire dalla città dopo la gloriosa scuola degli anni '70? Non è dato di sapere news su questi ragazzi che nel 2005 hanno pubblicato il debutto e poi nient'altro.
In dotazione 4 strumentali atmo-melanconici di durata fra i 12 e i 20 minuti cadauno, un violino in line-up, e 1 + 1 fa 2. Tutto porta a sospettare che l'influenza maggiore degli YH siano i Godspeed, e tutto diventa una certezza all'ascolto del disco.
Ma trattasi di uno dei quei casi (rari) in cui è tale la bravura intrinseca della band che si riesce a far dimenticare le similitudini. Ad alcuni attenti e graditi ascolti, si può cogliere una differenza importante: al cospetto della heavy magnificenza dei canadesi, gli YH contrappongono un'attitudine più trasognata, più cameristica anche nelle fasi serrate. Ogni suite è complessa e strutturata in tante fasi diverse, con un lavoro di arrangiamento curato e funzionale ai sentimenti che tende ad esalare. A partire dall'inizio commovente di Dash and blast fino al capolavoro avvincente e programmatico di Illuminate my heart, darling!, il disco è un abbraccio avviluppante che riscalda e rinfranca.

martedì 27 settembre 2011

Yeah Yeah Yeahs - Fever to tell (2003)

Terreno melmoso, quello del garage, in cui gli YYY del primo album però seppero farsi valere in virtù delle loro doti. Altro che i White Stripes...
Erano ancora belli ispidi e roventi, specialmente nelle chitarre. Sfornavano pezzi di una semplicità disarmante, ma sapevano trarre il massimo dal minimo. Ovviamente l'istrionica Karen faceva la sua parte con il suo range vocale di eroina punk-glam, e gli altri due tiravano allo spasimo ma con grande intelligenza. Il batterista Chase, dotato di retroterra jazz, è una presenza cruciale. Uno di quelli che non danno spettacolo, che non sfoggia tecnicismi ma andandolo ad analizzare si scopre quant'è bravo e che con un altro drummer probabilmente i YYY non sarebbero stati gli stessi.
Fever to tell rilanciava con appena un po' più di professionalità rispetto ai due EP che li avevano fatti saltar fuori, ed è una energica collezione di anthem urticanti, freschi e piacevoli.

lunedì 26 settembre 2011

Xiu Xiu - La Foret (2005)

Ogni disco dei XX è sempre uno scrigno pieno di segreti pronti a sorprendere, volitivo, con un incognita dietro ogni angolo. I primi 4 album sono stati uno diverso dall'altro, intenti a sbizzarrire l'estro incontenibile di Stewart.
La foret è stato un riassunto ben assortito delle puntate precedenti, con forse meno enfasi sulle percussioni, con le miniature acustiche imbevute di scariche elettrostatiche (Clover, Mousey toy, Baby captain), le operette synth dedite ad esplosioni improvvise (Muppet Face, Bog People), le convulsioni post-new-wave (Pox, Yellow raspberry). Tuttavia è la parte centrale del disco a far sgranare le orecchie, grazie ad alcune delle creazioni più ambiziose e devianti da loro mai realizzate; il titanico industriale di Saturn è pura poderosa corrosione. Rose of Sharon è un anti-inno cameristico straziante, con il classico vocalismo tortuoso di Stewart a giganteggiare. Ale rilancia e raddoppia, per voce e fiati astratti, un numero che Mark Hollis avrebbe senz'altro apprezzato, così come la spettralità amorfa di Dangerous, you shouldn't be here.Capolavoro di carriera.

domenica 25 settembre 2011

Xela - The divine (2009)

Sembra un titolo ironico. Di divino qui c'è ben poco...Le insistenti campane a festa che introducono questa cassetta lo-fi (sì, esattamente un tape nella sua prima edizione) sono un finto presagio; man mano che sfumano ne subentrano altre ma emettono rintocchi secchi, funerei, mentre in sottofondo voci convulse e stentoree si accalcano, sempre più affannate. Dopo 8 minuti il pastone si amalgama fino a diventare un unico, agghiacciante rumore. Entra un loop dalla vaga sembianza ambientale e risale la china, evapora e dà quasi senso di sicurezza nonostante l'atmosfera tutt'altro che accomodante. Questa era A Corpse Hangs In The House Of The Lord.
Anti-clericale? Blasfemo? Ma no, dai....giriamo il lato e c'è un bel drone siderale affiancato da loops di canti femminili angelici, che si perpetrano in tutto il loro fascino anche oltre il deragliamento del supporto. Meno strutturato del precedente, Of The Light And Of The Stars è uno di quei dark-ambient minimali che vivono di contrasti troppo lampanti per non essere compresi. E' un po' come prendere El camino real di Basinski, svuotarlo della propria purissima innocenza e trasfigurarlo ad uso film horror.
Autore di siffatte malevolenze è Xela cioè John Pel Di Carota Twells, inglese di Manchester di recente trasferitosi negli USA. Nonostante l'aspetto nerd, è davvero poco raccomandabile....

giovedì 22 settembre 2011

Wolf Eyes - Human Animal (2006)

Ma come sarà venuta alla Sub Pop l'idea di pubblicare questi tipacci qui...Lodevole iniziativa, comunque, dare un po' di visibilità ai rappresentanti più emersi di un movimento trasversale americano che ha saputo rinnovare gli ormai vecchi concetti di noise ed industrial con esiti notevoli (anche se negli ultimi anni i Sightings sembrano averli un po' sorpassati).
Quindi, ben oltre le saturazioni belluine e brade. Human Animal colpiva al cervello anche per le fasi più inquietanti, basti sentire in apertura i meditati clangori metallici di A million years, in cui un free-sax starnazza delirante fino a lambire grida androidi, e il suo proseguio Lake of roaches dalle onde ad alto tasso radioattivo. In tal senso, i veri vertici del disco sono costituiti dagli otto minuti di Rationed rot, per percussioni sparse, drones all'orizzonte magmatico ed ancora sax imbizzarrito, nonchè i 6 di Leper War, se possibile ancora più rarefatta in uno stile piuttosto inusuale per loro, ma di magnetismo indiscusso.
L'altra metà del disco...casino! All'insegna del trademark WE ci sono lo stomp infernale di The driller, l'elettro-macelleria della title-track e Rusted Menge, l'hardcore-power-electronics di Make noise not music. Catastrofici.