mercoledì 30 dicembre 2015

Grim Tower ‎– Anarchic Breezes (2013)

Pregevole collaborazione fra Imaad Wasif e Stephen McBean dei Black Mountain, a me sconosciuto. All'insegna di un folk-rock abbastanza canonico, il progetto si eleva da un facile anonimato grazie al tocco sempre personale di Wasif, autore che seguo e stimo fin dai tempi dei Lowercase, qui in una veste dimessa e melanconica ma con qualche iniezione di robustezza sparsa di fuzz. Detto di lui, McBean invece si segnala per una gran bella voce (curiosamente dal timbro affine a quello di Richard Butler ma non arrochito e con maggior potenza) ed il tandem compositivo funziona alla grande.
Lavoro onesto e sincero; nessuna sorpresa, solo certezze.

lunedì 28 dicembre 2015

Skaters ‎– Pavilionous Miracles Of Circular Facet Dice (2005)

Come diavolo abbiano potuto due menti umane concepire ed elaborare una poltiglia di suono così indecorosa e malata non lo potrei spiegare. Come ha sapientemente scritto Mattioli su Noisers, gli Skaters hanno finito per diventare l'act più estremo della scena americana rumorista che tanta attenzione ricevette una decina d'anni fa dai media. E ciò in forza di qualcosa che non è violento nè aggressivo, ma è di una velenosità e di un marciume indicibile.
E' il gusto dell'orrido, a volte, ad attirarci. Così come spesso si resta imbarazzati dal mainstream, dalla televisione, dalla politica. Non ho ascoltato altri dischi degli Skaters nè so se lo farò, ma questa roba (sostanzialmente un'ora di deliri vocali deformati in un substrato lo-fi spesso come una scarpa di fango) è così perdutamente immonda e insensata che non ho potuto fare a meno di ascoltarlo tutto. Un fermo immagine demente di Eskimo dei Residents manipolato e replicato all'infinito. Resistenza.

sabato 26 dicembre 2015

Arc - The Circle Is Not Round (2005)

Progetto di Aidan Baker insieme a due percussionisti che si potrebbe inquadrare come minore rispetto a Nadja e quello solista in quanto la maggior parte della discografia è stata rilasciata tramite CDr, ma che a livello di tempistica non è da meno. The circle is not round fu il primo a beneficiare di una distribuzione internazionale, uscito su A Silent Place; mi chiedo quale ruolo abbiano i due comprimari in questa sede, visto che di percussioni non mi pare di udire che ce ne siano: si tratta di 4 lunghe suite di ambient-core che seppur suonate (almeno credo) in senso reale finiscono per essere abbastanza vicine al Basinski più saturo, zona Disintegration Loops. La chitarra di Baker è sicuramente la guida regina con dei flussi minimalistici di suono ultra-espanso e manipolato. L'effetto è quello di una infinita ed affascinante ipnosi.

giovedì 24 dicembre 2015

Leyland Kirby & Caretaker ‎– Bonus Tracks 1 (2011) + V/Vm ‎– Sometimes, Good Things Happen (2002)

Una preziosa miscellanea ed un recupero ormai lontano per il mio beniamino. Bonus tracks, rilasciato soltanto in formato digitale per i sottoscrittori della sua History Always Favours The Winners, è piuttosto eterogeneo ma non manca di dispensare perle sopraffine sul versante romantico come il soffio carezzevole della magnifica Medati e l'atmosfera melanconica di Because tonight always comes (si dice sia una cover dei Pet Shop Boys)Le ipnagogie marziali del resto ripristinano lo stile della serie Intrigue and Stuff 1-4. A chiudere si materializza The Caretaker, con 2 outtakes ultra-vintage-granulari del disco dell'anno 2011. Ci sarebbero state dentro alla grande senza snaturare il bilancio.
Sometimes good things happen fu il quarto album a nome V/Vm ed era composto da due cd: stessi titoli e scaletta, stessa copertina ma una di colore blu e l'altra sepia. Il primo è un attacco terroristico in piena regola, un assalto electro-noise assordante ed ottundente. Non è nè industriale nè filo-nippo, ma è solo per stomaci forti.
Molto meglio il seppiato, un assortimento avvincente di astrattismi. Nei pochi tratti ritmati è rintracciabile l'influenza dell'Aphex Twin più scabro e scuro, ma la mano sapiente ed unica del ricciolone nel saper trattare la materia elettronica era già una certezza toccante.

martedì 22 dicembre 2015

Cannibal Movie ‎– Mondo Music (2012)

Duo tarantino appartenente al filone occult-psychedelia, dall'impianto ristrettissimo: organo vintage che più vintage non si può e batteria stra-essenziale. Mondo music, uscito inizialmente solo su cassetta e poi ristampato l'anno successivo in vinile, è un fascinoso trip mistico-allucinatorio che sembrerebbe essere stato registrato nel 1969, diviso in due tranches da 13 minuti l'uno. La prima più aggressiva e ritmata, la seconda decisamente più meditata, quasi zen.  L'organo schiumoso e stra-carico di riverbero snocciola frasi che richiamano spesso le sonorità del medio Oriente; ma più che parlare di lo-fi mi rifarei ad una filosofia ben precisa di negazione del presente che oltre oceano può trovare affinità con tante altre bands. In ogni caso, tanta stima e lavoro che ipnotizza senza compromessi.

domenica 20 dicembre 2015

Kevin Ayers And The Whole World ‎– Shooting At The Moon (1970)

Dopo David Allen ecco un'altra faccia di Canterbury, quella più freak di chi si staccò dai Soft Machine per mandare a quel paese quanto stava prendendo il sopravvento. Ayers non era meno diverso dai Gong per concentrazione di stranezza, anzi, gli sballi vertiginosi alternati alle sue sofisticate ed eleganti pop songs facevano ancora più a botte con ogni ipotesi di classificazione. Era dadaismo all'ennesima potenza, privato di quel senso d'innocenza che ha tanto fatto beato Wyatt; in una parola beffardo.
Ostico persino oggi.

venerdì 18 dicembre 2015

Desertshore & Mark Kozelek - Mark Kozelek & Destershore (2013)

La buona rinascita dell'ultimo Kozelek ha avuto un passo simbolico con questa collaborazione che ha dato grande segno di umiltà da parte dell'uomo, ovvero col gesto di mettersi in discussione all'interno di un gruppo che ha composto le musiche su cui ha cantato.
Ovvio che però lo potesse fare solo con una vecchia conoscenza, con quel Phil Carney che era stato il chitarrista successore di Gordon Mack nei Red House Painters. Desertshore è il suo progetto condiviso col pianista Connolly. Il risultato è un disco tutto sommato brioso e luminoso con una varietà di stili ragguardevole, dalla ballad pianistica al country frizzante, dal neilyounghesimo elettrico alle cavalcate acustiche tipiche di Kozelek solista. Le vere gemme però stanno altrove, nelle nevrosi controllate di Katowice or Cologne e Hey you bastards e soprattutto nelle moviole cristalline di You are not of my blood e Sometimes I can't stop, che riportano dritti dritti alle seconde pagine storiche dei RHP, diciamo altezza 95/96, e che prima o poi dovrò rivalutare.

mercoledì 16 dicembre 2015

Tussle ‎– Telescope Mind (2006)

Quartetto californiano: basso, batteria, percussioni ed elettronica. Mancherebbe una voce e ci troveremmo di fronte ad un aggiornamento dei Liquid Liquid, perchè l'enfasi è posta tutta sul ritmo e l'apporto armonico è fornito soltanto dal basso, funkeggiante e puntuto. Inoltre, in un pezzo partecipano proprio 2 componenti dei newyorkesi; poco più che un cameo simbolico ed iconoclasta.
In realtà i Tussle fanno musica strumentale e la negritudine è quasi inesistente, semmai il focus del tributo è indirizzato ai Can periodo 1975-1978, ovvero quando Czukaj aveva abbandonato il 4 corde per l'elettronica. Non ci sono grossi sconvolgimenti lungo una scaletta piacevole e coinvolgente; è tutto molto curato ed in fondo anche simpatico, ma non memorabile.

lunedì 14 dicembre 2015

Leafcutter John ‎– The Housebound Spirit (2003)

Prima della svolta folk col bellissimo The forest and the sea, peraltro precedente ad una lunghissima pausa, John Burton era un performer prettamente elettronico, audace nel mettere in scena le sue schizofrenie anche tramite un dispositivo che genera suono attraverso la luce.
In questo disco Giovanni Tagliafoglia eccedeva in un po' troppi stili; glitches, astrattismi robotici, quadretti da camera, electro-dub, pseudo-operismi, soltanto un paio di dolenti torch-songs delle sue. A volte l'avanguardia trascende un po' il sentimento e le emozioni, si sa, eppure l'inglese riuscì a canalizzare questo enorme guazzabuglio di stili in qualcosa di avvincente senza far storcere il naso nè a chi la ama nè a chi la odia, a mio parere.

sabato 12 dicembre 2015

Jarboe ‎– Thirteen Masks (1991)

Il primo disco solista della musa di Gira, pronta ad affrancarsi dal marchio Swans e ad essere officiata di gloria personale. Tredici maschere fu un titolo programmatico perchè ogni pezzo (in realtà sono 14, ma perchè A man of hate è proposta in due versioni) vive di luce propria e gli si perdona un po' di dispersione, di eclettismo fuori misura.
La personalità debordante di Jarboe usciva meglio nelle atmosfere più delicate e riflessive; lo spazio riservato ai clangori forti ed ai pezzi ritmati è minoritario. Il suo era un cantautorato carismatico, a tratti levitante, tangente appena appena il gotico. Ben poco a che vedere con gli Swans fino all'epoca, ed ancora meno d'altro.

giovedì 10 dicembre 2015

Teisco ‎– Tuscan Castle And Country Seat (1978)

Castelli e ville toscane in Italia, si chiamava il documentario o la serie in questione. Dietro il (non felicissimo, diciamocelo) monicker delle chitarre giapponesi si celava il polistrumentista Marco Melchiori, altrimenti detto Rimauri, librarysta attivo dalla metà degli anni '70 e omaggiato recentemente di qualche ristampa dalle australiane Dual Planet e Roundtable.
Abbastanza stravaganti, queste ville e questi castelli. Si penserebbe a qualcosa di più bucolico e agreste, per gli incantevoli scorci toscani, invece Melchiori si rivelava un freak intento a destreggiarsi fra caracollanti atmosfere tardo sixties, digressioni chitarristiche di retaggio psichedelico, qualche incursione cosmica con synth fischianti e soprattutto la lunghissima Old Colours, elucubrazione pianistica seriosissima e drammatica nonchè citata come sigla della trasmissione...
La coesione collettiva è pari a zero, al punto si direbbe più una raccolta; però stranisce ed incuriosisce a tal punto che diventa irresistibile.

martedì 8 dicembre 2015

Screams From The List 13 - Hugh Hopper - 1984 (1973)

Il grandissimo e compianto bassista dei Soft Machine al suo debutto solista, appena uscito dal gruppo. Concettualmente è l'equivalente di The end of an ear dell'amico Wyatt, ovvero: alta sperimentazione ed alto tasso di follia per un risultato finale memorabile. Se nel caso del batterista/vocalist si era tradotto in un manuale di dadaismo trasognato come da dna, in 1984 emerge l'ego moderato di Hopper in tutte le sue sfaccettature: si scherza poco (raramente si è visto sorridere nelle foto), lo strumento di riferimento non è più importante degli altri e la follia appare tremendamente lucida, con i pro e i contro del caso.
Certi esperimenti però lasciano il segno ancora oggi: nei 17 minuti di Miniplenty le percussioni liquefatte ed i piatti sventagliati, uniti ai nastri magnetici che manipolano i suoni del basso fino a farlo diventare come un synth, creano un'atmosfera surreale in cui non c'è scampo di orientamento. Nei 14 di Miniluv il tema iniziale marziale si stempera in una gigantesca allucinazione, come se i nastri si squagliassero al sole. Il breve delirio di Minipax II, per starnazzamenti e borbottii di fiati, è forse l'unico spazio per la gag semi-seria (a mio modo di vedere).
A fungere da cuscinetti più o meno normalizzanti, ci sono 4 pezzi brevi che invece ristabiliscono il parallelo coi Soft Machine, ovvero del jazz-rock canterburiano di classe (e di gruppo, visti i nomi dei collaboratori coinvolti) che tanto Hopper ha contribuito a creare, a partire da quella Facelift che stava sul monumentale terzo dei SM.
Memorabile, peccato che i seguiti non siano stati all'altezza ma il tramonto fu globale, non solo suo.

domenica 6 dicembre 2015

Autistic Daughters ‎– Jealousy And Diamond (2004)

Trio austro-neozelandese attivo su Kranky nello scorso decennio, dedito ad un ghost-rock degno di grande attenzione.
Questo fu il primo album e sorprendentemente faceva riprendere nuova vita al suono dei Talk Talk di Laughing Stock e dei Bark Psychosis di Hex, però con un distacco emotivo che li rendeva a loro modo diversi da quel mood tipicamente britannico. 
Quasi ovvio, vista la provenienza non solo geografica: il cantante/chitarrista Roberts, il bassista Dafeldecker ed il batterista Brandlmayer erano di estrazione art-avant e questa loro trasposizione dello slow-core finì per diventare una formula a dir poco originale.
Le sonorità sono pacate ma non gentili, con una chitarra pigra e discreta, la voce praticamente un sussurro, le ritmiche sonnolente; da potenziale sonnifero il disco si trasforma in un cunicolo notturno stracarico di fascino e mistero. Da segnalare la presenza alla produzione ed alla registrazione del connazionale Tricoli.

venerdì 4 dicembre 2015

Watter ‎– This World (2014)

E chi se lo aspettava che Britt Walford (batterista degli Slint) tornasse ad una nuova attività dopo una vita? Ci voleva il sostegno del chitarrista Zak Rails dei Grails e di un misconosciuto tastierista tal Tyler Trotter. E' un piacere vedere certe leggende tornare ad un ruolo più o meno creativo, anche se il suo compito in This world alla fine è di semplice supporto senza tanti scossoni.
Diciamo che gli Watter nascono con delle buone intenzioni, tipo quella di non suonare per nulla louisvilliani e ci riescono senza problemi. L'intento è quello di creare soundscapes e grandi orizzonti post-psichedelici, rigorosamente psichedelici: l'ombra lunga degli stessi Grails (riferimenti vagamente mediorientali, grande enfasi e spazi) si allunga sui momenti migliori, ma nella maggior parte del disco l'influenza maggiore sembra essere quella dei Porcupine Tree degli anni '90, cioè quelli più atmosferici. Il che non sarebbe certo un problema, però al gruppo sembra mancare l'amalgama, le composizioni e gli schemi sono un po' troppo diluiti per intrigare. Detto questo, l'ascolto è gradevole perchè è tutta roba che sostanzialmente piace, ma lo si archivia con la netta sensazione che non lo si riprenderà più.

mercoledì 2 dicembre 2015

Roly Porter ‎– Aftertime (2011)

Proveniente dal giro dubstep col duo Vex'd, l'inglese Porter si è messo in proprio e ha debuttato con questo magnifico assemblaggio di elettroniche moderne.
Un tracciato molto simile a quello che fece Ingram, il cui Consolamentum rivelò un solista insperato che si staccava drasticamente da quanto aveva fatto in precedenza, creando una formula personalissima.
Con Aftertime fuoriesce un flusso appassionato ed eclettico di tanti stili, tutti uniti nella direzione di scenari solenni e ben poco accomodanti: c'è il Ben Frost saturo di elettricità, il Basinski in loop-estasi contemplativa, l'Hecker rovinoso e srotolante, l'Eluvium neo-classico, fino a raggiungere stordimenti quasi industriali. Un amalgama che ha dell'incredibile caratterizza l'intera scaletta, con le atmosfere a rincorrersi, distruggersi e dissolversi. Con gli umori che passano dal glaciale all'accorato in un men che non si dica. Antologico in sè.

lunedì 30 novembre 2015

Tangerine Dream ‎– Stratosfear (1976)

Il famoso spartiacque fra la prima gloriosissima fase e l'inizio del declino, non a caso Baumann fiutò aria di decadenza e subito dopo fece le valigie, lasciando a Froese e Franke l'arduo compito di traghettare il Sogno verso il '77 e tutto ciò che ne derivava.
Innanzitutto, la title-track, con ogni probabilità il brano più bello che i TD abbiano mai composto, dai giri evocativi e con una dinamica mai udita prima da parte loro. Nel finale Froese rispolvera la chitarra elettrica e sfregia l'aria cosmica con fendenti brevi ed incisivi.
Proprio il recupero della 6 corde è forse il tratto più distintivo di Stratosfear, grazie anche alle frasi stentoree di Invisible limits. Completano il quadro l'incubo pastorale di The big sleep... e l'altro capolavoro 3 a.m. at the border, spettacolare contemplazione di chissà quale fenomeno naturale.
Ingiustamente sottovalutato, ma soltanto per gli storici precedenti.

sabato 28 novembre 2015

Nymph - New Millennium Prayer (2013)

Piacevole e schizzata proposta di vintagismo psichedelico da parte di questo collettivo newyorkese che per l'occasione ha incluso un intera band greca; gemellaggio che genera un felice incidente spazio-temporale.
Nei 4 lunghi brani di New Millennium prayer lo spettro sonoro viaggia dai Can ai Quicksilver, con tutto quello che ci può stare nel mezzo, inclusa una simpatica cantante orientale che geme isterica e marziale.
Bravissimo il chitarrista a cesellare vorticosamente sugli alti come il mai dimenticato John Cipollina. I ritmi sono vorticosi nonostante le lunghezze, dal funk al motorik ad un incessante utilizzo dei timpani.
Nulla di veramente eccezionale, ma un ascolto lo merita.

giovedì 26 novembre 2015

Atomsmasher ‎– Atomsmasher (2001)

Durante la sua carriera di sagace sperimentatore delle musiche violente, Plotkin ha avuto una breve fase alla testa di Atomsmasher, trio con un batterista ed un vocalist. Nulla di più differente da quanto inaugurò poco più tardi con i Khanate.
Sembra di trovarsi all'interno di un videogame di quelli sparatutto, dai ritmi impossibili e dalla schizofrenia più incontrollabile. Una sorta di cyber-grind da cartone animato, animato da inarrestabili manipolazioni elettroniche e con un ronzio quasi fisso stile-trapano che rende instabili tutte le frequenze alte.
Davvero difficile da descrivere, Atomsmasher è un esperienza di panico che va vissuta senza soste, per capirne meglio il (non)senso. Come l'ha definita brillantemente PS, questo è un suicidio musicale.

martedì 24 novembre 2015

Flaming Lips ‎– The Terror (2013)

Ovvero il terrore di poter vivere senza amore, come dichiarato da Coyne, che rincarava con siamo persi, sballati, senza speranza, musicalmente parlando. Ed è vero, ma allora che continuino ad esserlo. La seconda giovinezza dei FL, iniziata a mio avviso col bellissimo Embryonic, proseguita con l'ultra ciclopico Strobo Trip, raggiunge un'altra grande tappa con questo desolato, desertico e spaurito The terror.
Non inventeranno nulla, ma la loro impronta è sempre fortissima e stupiscono anche in questa serie. Di sicuro è il loro disco più atmosferico ed oscuro di sempre; perso per strada il batterista, lo hanno rimpiazzato con degli scabri beats meccanici. Le chitarre sono ridotte ad orpello secondario, la protagonista è un elettronica analogica che si adatta alla perfezione a composizioni che di fatto sono puro pop, come nella loro tradizione.
Così la lente audio-sensoriale dei FL riesce a trasmettere perfettamente lo stato d'animo del terrore, ma lo fa con quel suo classico e trasognato modo di fare che li ha resi unici al mondo negli ultimi 30 anni.
Lunga vita.

domenica 22 novembre 2015

Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza ‎– Eroina + Niente (1971)

Quasi nessuna parola in aggiunta a quanto riportato da Vlad per quanto riguarda Niente nè per quanto riguarda la storia generica del Gruppo, col celebrato The feed-back in primo piano.
Entrambi i dischi ivi trattati furono registrati nell'autunno del 1971 e stampati nel 2010/11 dalla gloriosa Cometa Edizioni Musicali. Non è dato di sapere se furono pubblicati all'epoca, quindi l'utilizzo library del materiale è più che un sospetto fondato. Niente è un trattato di fisica astratta; impossibile non notare la somiglianza della batteria di Restuccia con quanto Liebezeit compiva con i Can, ma si tratta di contemporaneità ed è quasi stupefacente. Eroina è un deliquio di sballi rovinosi e tortuosi, degna colonna sonora di menti geniali al servizio della causa descrittiva. Forse qualcuno di loro aveva avuto esperienze con la sostanza e l'aveva filtrata attraverso la messa in disordine musicale?
Avanti, ancora oggi.

venerdì 20 novembre 2015

Invisible Things ‎– Home IS The Sun (2012)

Il germe della genialità storta degli U.S. Maple si tramanda al giorno d'oggi non soltanto grazie a Todd Rittmann ed ai suoi Dead Rider, ma anche per mano dell'altro storico chitarrista Mark Shippy, ovvero colui che aveva fondato gli Shorty con Al Johnson prima di varare l'acero.
Con Invisible Things, che segue il progetto Miracle Condition durato soltanto lo spazio di un album e di un EP, il chitarrista ha creato una formula inebriante di avant-impro-psychedelia senza freni. Assieme a lui un batterista, tal Jim Skyes, tentacolare e sregolato, posseduto dal demonio. A priori avrei detto che neanche questo sarebbe stato giusto per lui, invece Home is the sun non fa prigionieri e strega con 17 tracce fuse insieme in un flusso senza pause, al punto che potremmo definirla una suite gigante di oltre un'ora. 
E' un labirinto senza uscita, il cui destino per l'ascoltatore è amore o odio. SIB l'ha odiato e stroncato, io sono all'opposto.

mercoledì 18 novembre 2015

Constance Demby ‎– Sacred Space Music (1982)

Ci vuole del tempo, ma in effetti è quasi un paradosso che un amante dell'ambient-music come me non si sia mai avvicinato alla new-age e non ne so il motivo. Ci è voluto un bel servizio su un Blow Up di Marzo 14, scritto da un giornalista di cui normalmente non mi fido molto (G.D.Soler), ma che in questo caso mi è sembrato onesto e sincero. Il Sacred Space Music dell'americana Demby, considerata la sacerdotessa per antonomasia della new-age, viene indicato come probabile punto più alto del genere ed in effetti è un capolavoro di misticismo da camera per piano, synth, viola e dulcimer.
Con questi da due pezzi di 20 minuti ciascuno, la Demby realizzò un'ambientazione pregna di struggimento infinito e di intensa commozione che stilisticamente aveva come precedenti soltanto Budd e i Popol Vuh. In The Longing il protagonista è l'aulico dulcimer, che ancestrale e tintinnante all'infinito si insinua dappertutto, ma la vera sensazione è data dalle partiture incantevoli di piano e dal contrappunto essenziale della viola. In Radiance è ancora il dulcimer a dare il via, ma questa volta è il synth a prendere possesso della situazione e regalare stati di trance. Non so quanti dischi ascolterò ancora di new-age, ma mi sembra molto arduo che tale magia sia stata superata.
 

lunedì 16 novembre 2015

Calm Blue Sea ‎– Arrivals & Departures (2012)

Da strenuo difensore dell'epic-instru, spezzo una lancia in favore dei CBS perchè c'è stato un progresso rispetto all'esordio, il che configura, oltre ad uno stato di forma artistica invidiabile, il posticipo della morte per questo genere che bel bello si avvicina al compimento della maggiore età. Vogliamo negar esso la gioia dei vent'anni? No, non sia mai.
Con Arrivals & Departures i texani raggiungono un notevole climax emotivo e si affrancano dal mogwaianesimo, segno che l'episodio intermedio della realizzazione di una colonna sonora per film muto li ha fatti maturare e portati a creare orizzonti di una bellezza commovente. Per il resto non c'è tanto altro da dire, cambia il genere ma il problema è sempre quello: se un disco punk, metal, reggae o di qualsiasi altro recinto è fatto dannatamente bene, dobbiamo sempre cercare il motivo di fondo per cui è stato realizzato? In barba a qualsiasi ricerca ossessiva dell'originalità, i CBS soddisfano la ricerca del bello e basta.

sabato 14 novembre 2015

Orbital ‎– Orbital 2 (Brown Album) (1993)

Direttamente dalla stagione dei rave inglesi, uno degli acts di maggior successo. Sul secondo album ebbero anche la consacrazione del tormentone popolare, Halcyon, di discreto impatto persino in Italia (chi era adolescente all'epoca potrebbe ricordarsela).
Orbital era una coppia di fratelli inglesi che si anteponeva artisticamente al successo dei cugini Orb. Laddove il gruppo di Patterson era tendente allo sballo o comunque alla ricerca di uno stato di trance più o meno sbragata, gli Hartnoll bros erano lucidi e quasi chirurgici. Ossessionati dalla ricerca della precisione, raggiunsero comunque risultati ragguardevoli e sono tutt'ora indicati fra i massimi esponenti della corrente techno-trance.
Brown Album nè è un ottimo campionario. Spiccano Planet of the shapes, Impact e Remind, ovvero le tracce più incompromissorie e tendenti allo scuro, ma anche quelle più solari strappano un sorriso e riportano alla mente dolci ricordi.

giovedì 12 novembre 2015

Religious Knives ‎– Remains (2007)

Collezione di mantra spiritati e vintagistici per questa band newyorkese comprendente due ex-membri dei rumoristi Double Leopards. Decisamente un salto nel buio, questo verso gli ohm giganteschi che infondono pura ipnosi nonostante la generale saturazione lo-fi dei suoni, in tipica filosofia No Fun Records.
I 5 lunghi pezzi in scaletta sono recuperati da alcune uscite minori, e le differenze sono notabili ma ciò non va a discapito del risultato finale. In The train le avvolgenti e voluttuose tessiture di farfisa sembrano pro-nipoti di The end dei Doors, ma sono sparse, svogliate e svuotate da ogni significato hippy. I vocalizzi prolungati, deformati da chissà quale stato di zen, e alcune ritmiche portate alla moviola (Electricity and air) fanno pensare ad un Sun Araw strafatto, oltre ogni concezione.
Un pezzo estatico come Blackbird porta alla memoria le fasi lunari più sbragate dei Flying Saucer Attack, complice anche la voce eterea dell'organista Maya. 
A dispetto dell'apparente approssimatività dell'insieme e della lunghezza delle jams, l'intento di sprigionare attività negli angoli remoti della mente riesce alla perfezione. Stupendo e penetrante.

martedì 10 novembre 2015

Wipers ‎– Is This Real? (1979)

Anche dopo l'ascolto dei primi Wipers, non cambio la mia idea: i veri inventori del grunge furono i Replacements. E' vero che il gruppo di Portland ha avuto la sua grande importanza sull'alternative-rock americano, ma in sostanza erano un espressione punk, non nichilista e spesso tendente al pop.
E' anche vero che l'adorazione di Kurt Cobain (culminata in ben 2 covers) nei loro confronti ha contribuito a sviare un po' le idee, però i Tergicristalli avevano come punto di origine il rock fragoroso e altamente melodico degli Who, lo traslavano in un ottica post '77 e solo marginalmente lo contaminavano con le ritmiche secche della new-wave. Le tempestose composizioni di Greg Sage ebbero un influenza decisiva, più che sui Nirvana, su bands come i Chainsaw Kittens ed affini, ovvero quelle per nulla inclini agli sbalzi depressivi del grunge e più concentrate sull'energia, possibilmente positiva, della musica in sè. 
E' un peccato che Is this real sia stato registrato così lo-fi, un po' della genuinità del gruppo viene danneggiata ma resta un disco di un ebbrezza punk contagiosa.

domenica 8 novembre 2015

Screams From The List 12 - Guru Guru ‎– UFO (1970)

Ma con queste facce, cos'avrebbero potuto creare i tre ceffi se non un oggetto sonoro non identificato?
Perchè di tale si tratta, Ufo. Un monumento al free-rock intero, ovvio figlio della propria epoca ma proiettato in altre dimensioni.
Prendiamo i tre componenti: un chitarrista schizofrenico e visionario allo stesso tempo, in lotta continua con sè stesso. Un bassista minimale fino alla follia e dall'impatto sismico; se c'è un merito nei Guru Guru di aver anticipato di decenni lo stoner, gran parte è suo. Un batterista di estrazione jazz che asseconda il caos primordiale autogeneratosi con uno stile che anomalo è dir poco.
L'aspetto più importante, dopo 45 anni, è ancora l'impossibilità di poter classificare Ufo: non era jazz-rock, non era per nulla Hendrix, neanche l'ombra del blues, non era neanche avant-rock visto che non so quali reali eredi possano essere stati designati da allora fino ad oggi. Le visioni (da urlo, distorte, drogate, impazzite, quel che si vuole) dei Guru Guru finirono per imprigionare fantasmi da cui essi stessi non riuscirono a liberarsi (nettamente inferiori i dischi successivi, ma sarebbe stata veramente dura impattarlo).
Non dimentico di notare che anche questi erano i figli della seconda e perduta guerra mondiale. Altri figli della penitenza enciclopedica teutonica.

venerdì 6 novembre 2015

Das Simple ‎– In Girum Imus Nocte (2013)

Pirotecnica band francese dedita ad un math molto tecnico, di un impatto frontale che non lascia indifferenti. Cinque brani lunghi ed articolati dai titoli in latino, madrelingua ed inglese. Presumo che abbiano delle radici hardcore, dato il ruvidissimo stile vocale ed alcuni breaks di evidente retaggio (c'è persino una fuga grind), però l'influenza dei Magma in passaggi di grande enfasi e di ritmiche spigolose si fa sentire non poco. Nel primo pezzo, le trame chitarristiche risalgono addirittura alla pietra miliare kingcrimsoniana Red.
Quindi, in sintesi un hard-prog sincopato e variopinto. Nulla di nuovo oltr'alpe, ma un ascolto i Das Simple lo meritano abbondantemente.

mercoledì 4 novembre 2015

Sisters Of Mercy ‎– First And Last And Always (1985)

Sembra strano, ma ascolto il primo album dei SOM soltanto oggi per la prima volta. Cose che forse non succedono mai ad un fan del dark-punk, ma c'è un motivo: da adolescente comprai a 2.000 lire la cassetta di Vision Thing, terzo ed ultimo disco del gruppo di Leeds, e lo trovai orribile. Forse oggi la penserei diversamente, ma smaltita questa lunga squalifica ironicamente ho puntato sul primo, che di solito è sempre il migliore.
Se si analizza la qualità generale mettendo da parte i soliti, deleteri fattori produttivi legati alla decade, FALAA ha un paio di caratteristiche che emergono subito: 1) i pezzi si assomigliano tutti, per struttura e ritmiche 2) i pezzi sono quasi tutti molto belli e ciò impedisce la noia. Il cantato accuratamente lugubre di Eldritch era un valore aggiunto al contesto, il lavorio di chitarre notevolissimo; di sicuro non avevano la profondità dei Joy Division nè l'eclettismo dei primi Banshees, ma rappresentavano il cambiamento in atto del gotico musicale di cui erano una vetta sicura, dato che attorno a loro il declino era inarrestabile.

lunedì 2 novembre 2015

Cyclobe ‎– Wounded Galaxies Tap At The Window (2010)

Due inglesi che hanno fatto parte entrambi, in periodi sfalsati, dei Coil, pertanto indissolubilmente legati alla lunga corrente dell'ossianico-esoterico-post-industriale britannico.
Molto concentrate le loro pubblicazioni: solo 5 album e 3 Ep in 15 anni. E' logico che la qualità abbia la meglio su qualsiasi altro aspetto, con i Cyclobe. Ebbene, la corrente continua a regalare piacevoli sorprese e Wounded galaxies ne è uno dei migliori risultati in assoluto degli ultimi 10 anni, fuori discussione. Un lavoro che non si illude di nascondere le origini di Brown e Thrower, bensì che si fregia di una maestria evocativa fuori dalla media, frutto di una ormai notevole esperienza e di un ispirazione centellinata in ogni minimo dettaglio. Il pulviscolo celeste di How Acla disappeared.... apre in maniera sublime, seguono i meravigliosi 17 minuti di danza spettrale di The woods are alive..., le fioriture di hurdy-gurdy di We'll witness the resurrection, i clangori cristallo, le dolenti figure pianistiche e i gemiti infantili di Sleeper, chiude il mega-drone della title-track in maniera maestosa. Magnifico.

sabato 31 ottobre 2015

Clouwbeck ‎– Wolfrahm (2009)

Uno dei 7 pseudonimi sotto i quali Richard Skelton ha rilasciato musica prima dell'incontro con la Richardson che gli ha un po' cambiato la vita. Poche, pochissime parole perchè in fondo non c'è stata molta differenza fra tutti gli output dell'inglese fra il 2006 e il 2009; a dare il via a questo meraviglioso torrente c'era soltanto una fonte di dolore interiore che andava esorcizzata, e mi piace pensare che ci sia riuscito, sia per l'incontro sopracitato che per il compimento di un ciclo che doveva avere un termine.
Per cui, Wolfrahm non si discosta molto dagli altri episodi ma mi sento di dire che è tranquillamente all'altezza di altri suoi capolavori come Landings o Crow Autumn part two, con il suo effluvio inarrestabile di archi ipnotici e di maestose contemplazioni di lande incontaminate.
Magia senza parole.

giovedì 29 ottobre 2015

Alrune Rod ‎– Alrune Rod (1969)

La preziosa ricerca nelle nazioni fuori dal giro effettuata in più puntate da Vlad ha fruttato qualche  sorpresa come questi danesi che nelle poche info recuperabili in rete sono definiti come uno dei massimi gruppi rock della piccola nazione scandinava. Essendo questo il primo che mi capita alle orecchie, non ho la controprova ma dopo aver sentito Alrune Rod sarei pronto a scommetterci.
La a più parti citata influenza dei Pink Floyd inizia con le partiture di organo e finisce col fatto che nonostante la complessa articolazione delle strutture nessuno dei componenti era un virtuoso. L'enfasi dell'interpretazione era l'aspetto più importante, il vocalist impegnatissimo a tenere banco con un cantato quasi hammilliano. Un ottimo ibrido di psychedelia e progressive, anche per via delle fasi alterne di vuoti e pieni che impressionano. Un altra perla del sacro anno 1969.
Da ricordare la traccia n. 2 (titoli in madrelingua), il capolavoro del disco.

martedì 27 ottobre 2015

Yvette - Process (2013)

Il chitarrista dei newyorkesi Yvette, Kardos-Fein, ha dichiarato in un intervista che ad un certo punto si è un po'  stancato di suonare la sei corde con i suoi pedali e si è dedicato più a suonare i pedali stessi. Insieme al batterista Daniel ha creato Process, fino ad oggi unico album del duo, che è un piccolo capolavoro di art-noise moderno di spiccata originalità.
I ritmi tornitruanti ed incessanti sono un indubbio retaggio post-punk; potrebbe esserlo anche il canto, sempre molto nitido e modulato in maniera tradizionale (forse anche un po' asettico, ma ci sta alla grande). E' proprio quella chitarra, o per meglio dire l'arsenale di pedali, a fare fuoco e fiamme, ad assestare continue scosse di adrenalina rumoristica. Ne esce questo ibrido curioso, che non è noise classico, non ha nulla di industriale nè di gotico. Tutti i pezzi durano 3-4 minuti e sono schegge micidiali. Sarà interessante seguirne il proseguio.

domenica 25 ottobre 2015

Ice - Under the skin (1993)

Progetto collaterale ai God del sassofonista inglese Kevin Martin, ma contenente un peso massimo di quei tempi quale Justin Broadrick. E come quasi tutto ciò che il Godflesh-head realizzava, era contrassegnato da una ferocia metallica e da una contaminazione difficile da immaginare prima.
Al punto che mi sembra più corretto parlare di collaborazione fra i due, perchè le pesanti chitarre hanno un ruolo portante. Erano semmai le ritmiche a differenziare Under the skin dai Godflesh, oltre che un senso della dilatazione temporale che fa sospettare che la natura dei pezzi (tutti fra i 6 e i 13 minuti) sia quasi improvvisativa. Alcuni frangenti ricordavano gli Scorn di Vae Solis.
Era comunque un esperimento molto ardito, non meno dei gruppi principali dei due. La riuscita fu leggermente inferiore, tant'è che ci fu soltanto un altro episodio cinque anni più tardi e poi più nulla. Under the skin è comunque un capitolo importante di quella stagione coraggiosa e fruttifera dell'Inghilterra più violenta che si sia mai sentita.

venerdì 23 ottobre 2015

Holy Sons ‎– Decline Of The West (2006)

La parte più nascosta di un artista a volte è proprio la sua inclinazione naturale. Emil Amos, che abbiamo conosciuto nella veste di uno dei migliori batteristi in circolazione (Om e Grails), in realtà è un cantautore prima ancora di entrare in questi gruppi, e fin dall'adolescenza. Non ero a conoscenza del moniker Holy Sons, con il quale incide da 15 anni.
Decline of the west mette in scena un cantautorato fuori dai generis, nonchè un interprete di piacevole originalità; forse assimilabile soltanto a Phil Elvrum se dovessi proprio tirare fuori un nome, ma con una musicalità messa più a fuoco. L'ovvietà folk sembrerebbe sempre dietro l'angolo ma lì ci resta, in favore di un ancestralità diffusa (come d'altra parte avviene da sempre nei Grails). L'attitudine un po' slacker ed inquietamente rilassata potrebbe rimandare addirittura a certe pagine di Neil Young. Ciò che conta alla fine sono sempre le songs, e qui ce ne sono di ottime; riprova è che Amos utilizza una spartana drum machine anzichè mettersi ai tamburi, come a voler dare enfasi ai contenuti.
Da approfondire.

mercoledì 21 ottobre 2015

Jon Hassell ‎– Vernal Equinox (1977)

Hassell è il prototipo del musicista di enorme talento che rifugge la storia in gioventù e ci rientra uomo da una porta laterale, con umiltà e dedizione. L'aneddoto chiave fu il suo rifiuto di entrare nei Can, esempio di come si possa fallire l'appuntamento, ma con la ferrea consapevolezza di voler pervenire a qualcosa di proprio. Oppure il lungo apprendistato al raga indiano con Pran Nath, che formò indelebilmente il suo modo di suonare la tromba.
E' quasi impossibile descrivere il senso di rilassatezza e di ambientazione che viene ricreato su Vernal Equinox. Lo strumento magico di Hassell disegnava scenari panoramici senza aderire a nessuna forma canonica, col solo supporto di percussioni (congas, tablas, shakers), unico scheletro ritmico di un flusso onirico incessante anche se diviso in tracce. Con la title track a primeggiare, per ben 22 minuti di astrazione naturale. Un suono caldo, un insieme indefinibile, proveniente dal mondo (perchè di world music si trattava, senza dubbi), ma impermeabile ad ogni costume corrente. Unico.

lunedì 19 ottobre 2015

Emeralds ‎– Solar Bridge (2008)

Trio di Cleveland, Ohio, che ottenne una piccola visibilità in quell'area dell'underground americano attigua alla No Fun ed al suo festival, all'hypnagogia ed al noise estremo. Possiamo osservare, dopo qualche anno, che si è tutto sciolto come neve al sole: si tratta di corsi e ricorsi storici come ne abbiamo visti tanti, di coincidenze di gusti e tendenze sociali. Dopodichè, passato il ciclone, si fa pulizia e restano soltanto i più forti (che non sono necessariamente i migliori).
Nello specifico, gli Emeralds erano piuttosto sostenuti da SIB e Mattioli che ne decantavano le gesta in un bel servizio sulla moaning wave di quel tempo. Sofferenti come tanti di incontinenza produttiva, hanno rarefatto le uscite fino a sciogliersi l'anno scorso. A riascoltarlo adesso, credo che Solar Bridge resti un ottimo prodotto nella media dell'ambient più dronica e minimalista; uscisse oggi non varrebbe un granchè.
I tre (due synth ed una chitarra, piuttosto trattata) indugiavano su bordoni di chiara origine cosmic-deutsch, con le consuete stratificazioni ma senza saturare. Due tracce per soltanto 27 minuti; molto bella The quaking mess, con più soluzioni ed una progressione affascinante.

sabato 17 ottobre 2015

Antlers - Familiars (2014)

Peter Silberman, cantautore di fatto ma nascosto sotto il nome di un gruppo, è un songwriter moderno che più vintage non si può. Funziona così, ormai, col pop: non avendo nè un presente nè un futuro, quello buono suona con gli strumenti e i timbri degli anni '60/70.
Palace, il pezzo che apre il suo ultimo disco, cresce con un wall of sound di tastiere e trombe che fanno innamorare pressochè subito. Ho pensato è il solito trucco per attirare l'attenzione, di mettere il pezzo bello al numero uno della scaletta. Invece no. Familiars è un capolavoro di artigianato.
Immerso in un mare di riverbero generale, l'impianto contribuisce ad esaltare le riflessive e compassate composizioni di Silberman: su tutti la sua voce acuta (il cui timbro può ricordare vagamente Jeff Buckley) ed una tromba onnipresente e laconica. Non c'è un pezzo che non sia bello. E soprattutto non c'è ombra di folk, questo è il merito più grande di Silberman, il marchio a fuoco personale che lo innalza.
Da affiancare a Beach House, Clientele e Dark Dark Dark nel rinascimento art-pop.

giovedì 15 ottobre 2015

Daniela Casa ‎– Sovrapposizione Di Immagini (2014)

La nazional signora Library giustamente tributata dalla label inglese di settore Finders Keepers con una compilations uscita l'anno scorso, su vinile. Diciassette tracce pescate da 4 album diversi, fra cui quello che ci aveva introdotto alle sue mirabili musiche di servizio.
Se da un lato non posso che gioire per il meritevole recupero, dall'altro mi auguro che si possano ristampare anche gli altri tre. La Casa non aveva molto da invidiare ai colleghi maschi più rinomati, anzi: la sua grazia femminile sapeva emergere nelle tracce più melodiche con brillantezza, come negli estratti da Ricordi d'infanzia. A meno che non ci fosse da avventurarsi nell'elettronica dissonante e nei concretismi di quelli di Arte moderna o inscenare hard-rock saturi di fuzz in Grosse cilindrate (da Lo sport vol. 1).
Attendiamo fiduciosi altre ristampe.

martedì 13 ottobre 2015

Denseland ‎– Like Likes Like (2013)

Trio composto da sezione ritmica tedesca di inclinazione avant-electro (il batterista è anche produttore e label-owner) + l'americano David Moss, percussionista classe 1949 di estrazione contemporanea reinventatosi vocalist fuori dai generi.
Nessuno di loro è un giovanotto, e il sospetto che fosse una marpionata era forte fin dai primi minuti. In realtà dopo qualche ascolto Like likes like cresce inesorabile; le sonorità sono elettroniche e mutanti, dal retaggio più radical-wave con reminescenze di white-funk caustico immerso in ritmi fratturati. Il vociare di Moss, poi, fa veramente la differenza, passando dall'alieno catatonico al colloquiare confidenziale con tutto quello che ci sta nel mezzo, senza mai perdere le staffe e con un carisma immutato. Nella sua progettazione, un disco perfetto anche nei suoni: non suona datato nè troppo sofisticato.

domenica 11 ottobre 2015

T'ien Lai ‎– Da’at (2013)

Suonano incappucciati e con vestiti dai colori sgargianti, sono due polacchi ed inevitabilmente uno dei due è il solito Ziolek; per fortuna che nel 2014 si è fermato altrimenti il rischio svalutazione sarebbe diventato alto. L'altro si chiama Jedrzejczak e suona anch'egli in altri gruppi, ha collaborato con Ziolek in Stara Rzeka. Il punto di contatto con quest'ultimo progetto e Alameda 3 sta sempre nel porre un enfasi esagerata su tutto, persino in questo drone-cosmic-folk che non inventa pressochè nulla.
Tuttavia Ziolek riesce a trovare ancora una volta la chiave d'accesso per lo scrigno del mistero: non ci si stanca neanche qui. In particolare quando i due sfoderano qualche influenza mediorientale o indiana, infilata fra corrierismi orbitanti e super-droni di ruvidezze spettrali. Preso nel suo complesso, Da'at è un viaggio denso di sensazioni che si fa rispettare, nel suo ambito.

venerdì 9 ottobre 2015

Screams From The List 11 - Art Bears ‎– Hopes And Fears (1978)

Dallo scisma degli Henry Cow, gli Art Bears emersero come unità eloquente e ben inquadrata: la Krause, forse stanca di poter cantare poco, poteva esprimersi in libertà e con tutto il suo rigore filo-teutonico. Frith e Cutler, liberi dalle pastoie di Hodkingson, asservivano la vocalist in tutta la sua verbosità ed in qualche modo rinnovarono il RIO, che giunto agli anni del punk effettivamente aveva bisogno di un rimescolamento.
Ma, per carità, non si parli di maggiore accessibilità, anzi. Hopes and fears suonava, a mio avviso, ancor più ostico degli Henry Cow: l'approccio teatrale era disturbato, mai scontato ed asservito alla voglia di rinnovarsi di Frith e Cutler, che con la maturità seppero creare una musica deforme, inquietante, polimorfa. Difficile, molto difficile. Da ascoltare parecchie volte, prima di poterne dare un giudizio profondo.

mercoledì 7 ottobre 2015

Talibam! ‎– Puff Up The Volume (2012)

Non ho mai sopportato l'hip-hop, ma nel momento in cui i Talibam! lo sottopongono alla sedia elettrica e realizzano questo spassosissimo campionario scatta l'eccezione regina.
Provare per credere: chi ha amato le precedenti e non meno folli prove di Shea & Mottel potrà anche esserne rimasto contrariato. Io stesso pensavo che i due MC in azione fossero altri prestati alla situazione, ma da profano in materia mi sbagliavo. Sono loro stessi che sproloquiano in lungo ed in largo, non ho avuto il tempo di leggere i testi (in caso fossero disponibili), ma il mio presentimento è che si tratti di una gigantesca presa in giro al genere, persino musicalmente. Shea rinuncia parzialmente al suo talento irregolare per mettersi al servizio di groove storti, Mottel ha modo di giganteggiare distorcendo anche certi luoghi comuni del genere. Sembra anche un po' concept, con quel Jimmy che viene evocato dall'inizio alla fine.
Irresistibile.

lunedì 5 ottobre 2015

Nijiumu ‎– Era Of Sad Wings (1993)

Il progetto dark-etereo di Haino Keiji, durato soltanto questo disco e la partecipazione ad un cofanetto con avanguardisti da ogni parte del pianeta nel 1997, ovvero quando il settore lo stava ancora scoprendo e si meravigliava.
E' un Keiji molto diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere: si avvicina di più a quello estatico-levitante nel senso che in Era of sad wings non ci sono esplosioni di nessun tipo, ma i presagi sono tutt'altro che rassicuranti. Inizialmente e per larga parte è pura dark-ambient da caverna, con i vocalizzi dimessi e all'apparenza impauriti fino agli ultimi 10-15 minuti in cui i fantasmi lo rapiscono senza riserve, e allora sono dolori. Fuorvianti i credits che indicano guitars/vocals; appare chiaro che Keiji si dedica ad emissioni di suono di classico stampo industriale, con i bordoni angoscianti e tutto il necessario ad incupire al massimo.
Non credo che sarebbe necessario essere fan del mito per poter apprezzare Era of sad wings; è parecchio lungo e tortuoso, ma gli estimatori della dark-ambient-industrial potranno convenire che si tratta, con ogni probabilità, di una pietra miliare dell'area. A maggior ragione perchè Mr. Keiji è un intruso della materia.

sabato 3 ottobre 2015

Giles Corey - Giles Corey (2011)

Dan Barrett degli Have A Nice Life in veste cantautoriale. Suona un po' strano, no? D'accordo, ma se ci penso Deathconsciousness aveva anche delle splendide ed indimenticabili canzoni, e colui che ne è stato principale cantore è andato in solitaria, dando la stura ad un ambizioso eclettismo (forse un po' castrato nel contesto HANL?) che rende disorientante l'ascolto, difficile l'assimilazione e la memorizzazione dei punti salienti.
Sbrigata la critica, ci riprovo ed al 4° ascolto inizia a dare soddisfazioni. Barrett passa di palo in frasca; litanie di prigionieri incatenati, estasiate cantilene acustiche, ambientazioni dark-ipnagogiche, depresse introspezioni, torch songs enfatiche, esplosioni di coralità in un improbabile ibrido gospel dei fantasmi interiori. Gli slanci di positività sorprendono, in un contesto che sembrerebbe inesorabilmente depresso. E forse sono proprio il punto di forza del disco.
Se ci sarà un seguito, è già molto promettente.

giovedì 1 ottobre 2015

Helmet - Betty (1994)

Celebrato l'anno scorso col tour del ventennale, Betty fu il disco più vario della fase gloriosa degli Helmet, di certo non ai livelli dell'insuperabile Strap it on ma superiore al secondo, il monocorde In the meantime. Forse fu proprio quest'ultimo a spingere Hamilton a mescolare le carte, anche sull'onda del successo commerciale del gruppo il quale richiedeva una dose di melodie orecchiabili, qui ben presenti (erano pur sempre gli anni del post-grunge). Era anche la produzione a diversificare: i vecchi panzer cingolati scemavano sempre più il loro impatto e si faceva strada un senso del groove per certi versi irresistibile, grazie al lavoro unico della sezione ritmica (non ci si stanchi mai di ammettere la grandezza di Stanier e Bogdan, prego).
Ricordo che all'epoca stupìrono non poco il bluesaccio acustico di Sam Hell, il jazz-noise di Beautiful love e l'ibrido stranissimo fra Captain Beefheart e Pil di The silver hawaiaan). Grazie anche a questi, anche se non rappresentativi del contesto, la signorina in copertina Betty invecchia bene e fa ancora bella figura; ormai gli Helmet erano alternative a tutti gli effetti e non più noise-rock, ma lo facevano dannatamente bene.
L'edizione limitata dell'epoca comprendeva anche 5 pezzi live di ottima valenza, fra cui il prezioso recupero di Sinatra, dal primo album.

martedì 29 settembre 2015

Bobby Beausoleil - Lucifer rising (1980)

Il dettaglio sul film, sui suoi risultati artistici e sulla sua travagliata cronistoria lo ha già esaurientemente sviscerato Vlad. Io preferisco concentrarmi sulla meravigliosa soundtrack e sulla figura di Beausoleil, un talento dalle grandi possibilità strappato al mondo dal crimine sanguinoso di cui si macchiò nel 1969 e che lo fece condannare all'ergastolo.
I presupposti per una brillante carriera c'erano tutti, e guardacaso agli inizi si era trovato a condividere il palco col giovanissimo Arthur Lee nella precedente incarnazione dei Love. Ciònonostante nel 1969 non era ancora riuscito a realizzare nulla di concreto e l'affiliazione criminale fece il resto.
Qualche anno dopo, grazie al permesso di un illuminatissimo direttore carcerario, Beausoleil ottenne la possibilità di redigere la colonna sonora del film di Anger, e realizzò questo capolavoro con un manipolo di altri carcerati denominato The Freedom Orchestra.
Dimentico del tutto della summer of love, del sole della California e delle droghe psichedeliche, Beausoleil assemblò una soundtrack imponente e melanconica, in cui la sua chitarra dalle forme allungate ed essenziali è parimenti importante alle tastiere elettroniche, responsabili di un generale afflato spacey dalle ombre sinistre. Ne uscì un oggetto difficilmente classificabile, qualcosa fra il gotico ed il cosmico, che ha un potere ipnotico raro per quegli anni.
Magie da dietro le sbarre.

domenica 27 settembre 2015

Goat - World music (2012)

L'unico modo per salvarsi dall'auto-parodia da pub o dall'insopportabilità, per chi oggi fa musica palesemente ispirata ad ere fa, è trovare una via personale al tributo. Gli svedesi Goat partono già avvantaggiati perchè m'ispirano prima di tutto simpatia: l'anonimato, le maschere e l'immaginario africano sono stratagemmi vecchi come il cucco ma il fatto che lo propongano degli scandinavi già crea uno stridore. Quando ascolto World music, la simpatia cresce perchè è un mix fantasioso di luoghi comuni psichedelici fine anni '60 irrobustiti da un basso molto possente e da un arsenale di percussioni tribali. E, al contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare al microfono, cioè un cantante macho, un po' maudit o pseudo-poeta, c'è la voce all'unisono di due ragazzotte non molto dotate che si sgolano per farsi sentire. Il contesto funziona meglio nei pezzi brevi, e perlopiù abbastanza accattivanti; forse lo strumentale finale vorrebbe evocare gli Amon Duul II, ma non montiamoci la testa.

venerdì 25 settembre 2015

Roberto Cacciapaglia ‎– Sonanze (1975)

Pianista e compositore milanese con studi classici che iniziò ambiziosamente negli anni '70 per poi trasformarsi in produttore mainstream negli anni '80 ed in seguito autore di jingle pubblicitari: le sue pubblicazioni in proprio, abbastanza sporadiche negli anni, si sono mantenute comunque in aree serie ed è sorprendente come tutt'oggi vengano ancora pubblicate o distribuite su scala major.
Neanche ventenne, nel 1972, suonò il synth su Pollution di Battiato. Sonanze fu il suo debutto solista ed è un bell'esempio di contaminazione stilistica: era evidente quanto Cacciapaglia fosse influenzato dai corrieri cosmici tedeschi dell'epoca, ma il retroterra classico e l'italianità si diffondevano a macchia d'olio in un contesto, ovvero la suite in 10 movimenti, vario e raffinato. Quindi, in mezzo alle glaciali e ferree esplorazioni interstellari, possiamo udire sezioni fiati orchestrali e timpani grevi, affascinati scale pianistiche ipnotiche (il 3° movimento), quadretti pastorali alla Popol Vuh (il 9° è quasi un'outtake da Hosianna Mantra), estatici contemplazioni per moog e synth (il 5°). Un lavoro abbastanza citazionista ma fatto di ottime composizioni, per un autore che sarebbe giusto esplorare almeno un po'.

mercoledì 23 settembre 2015

Polygon Window - Surfing on Sine Waves (1993)

Inserito nella serie Artificial Intelligence della Warp Recors, restò di fatto l'unico album di questo alter-ego alias di Richard James, che appena ventenne aveva già una grossa visibilità internazionale.
Lo stile era fortemente ritmato, si è scritto debitore della house statunitense. Forse rimase il suo prodotto più da discoteca che da ambient works, e si comprende meglio il motivo del nickname diverso; era un prodotto differente dalle raccolte 85-92 ma il dna di provenienza era lampante. Inoltre Surfing contiene almeno un paio di capolavori di James, come Polygon Window e Audax powder che strategicamente sono posti ad inizio scaletta, per non dire della pianistica If it really is me, splendida pausa di relax.
Stia alla larga chi è diventato allergico a queste sonorità che oggi sembrano preistoria della musica elettronica più dei tedeschi di 40 anni fa. Chi invece le ama ancora si goda questo ripescaggio e il mistero che contiene questi solchi: l'ascolto non può essere interrotto e si arriva freschi al termine.
Mental hour forever.