venerdì 30 dicembre 2016

Miracle Condition ‎– Miracle Condition (2009)

La parentesi di Mark Shippy, spalleggiato dal primo batterista degli US Maple Pat Samson e da uno (intuisco bassista) sconosciuto dottore in bioinformatica, tal Matt Carson. Per loro un album, un EP e una distanza siderale da quanto realizzato nel glorioso passato e nell'immediato futuro (cioè Invisible Things).
Il sound di MC è infatti contrassegnato da una specie di shoegaze-ambient-post-rock davvero inaspettato per gli standard di Shippy; eppure col senno di poi, anche se non la ricorderemo come la sua cosa più memorabile, appare chiaro che si trattava di una fase sincera e genuina.
E poi si sa, un fuoriclasse lo è anche in trasferta. Il disco è una parata di tanti stili; l'epic-instru più alto (reminescenze Explosions in the sky scorrono un po' per tutta la scaletta), l'indie-rock più confidenziale degli anni '90 fino a lambire le stasi dello slow-core (Anthem) o i balzelli art-pop di derivazione Three Mile Pilot / Pinback (The Wandering Y, Assignment), i cumuli shoegaze-core (Arrival), stratosfere che Halstead invidierebbe a morte per un ipotetico nuovo Slowdive (Into the bay), per terminare con l'unico pezzo in cui fa capolino la pazzia rimasta latente altrove, Alphaspectra Rising che in 8 minuti fa un mini-riassunto ed aggiunge una grinta ed un dinamismo quasi alieno in un disco che sarà riservato agli amanti dei sopracitati e forse meno a quelli di US Maple, ma è fatto maledettamente bene.

mercoledì 28 dicembre 2016

Stormy Six ‎– Al Volo (1982)

I nostri rappresentanti del RIO all'ultimo album, esemplare dimostrazione dell'eclettismo di una formazione che attraversò i '70 compiendo l'impresa di non esser mai stata incasellata completamente.
Due anni dopo l'iconico contributo alla lega europea Macchina Maccheronica, gli Stormy Six avevano già cambiato pelle allineandosi alle tendenze anglosassoni più ricercate: Al Volo è un disco di canzoni in tutto e per tutto, dal minutaggio contenuto e dopotutto anche abbastanza accessibili, ma fu tutto fuorchè un colpo di spugna. Le ritmiche complesse e gli schemi irregolari dei King Crimson correnti, quelli di Discipline, unite ad una sensibilità armonica che a tratti sembra rasentare i lavori solisti sempre contemporanei di Peter Hammill, rendono Al Volo un disco forse unico nella storia italiana (Math-pop??). Al punto che lo scioglimento immediatamente successivo lascia dei rimpianti per cosa avrebbe potuto fare una band che spiritualmente era l'antitesi perfetta degli anni '80, ma che con uno schiocco di dita li aveva intrapresi con sapienza e carisma. Obbligatorio porre un orecchio attento alle liriche. Che peccato.

lunedì 26 dicembre 2016

Grails ‎– Doomsdayer's Holiday (2008)

In piena fase di maturazione, tre anni prima del loro capolavoro e già ben oltre i primi incerti passi, i Grails sfoderavano un disco fortemente eclettico, fra crudezze post-stoner (la title-track), cataclismi esotici (Reincarnation blues), clamorosi recuperi dal sapore progressive (The natural man), paesaggi desertici da mozzare il fiato (X-contamination), un anticipo deciso delle atmosfere più cinematiche e rilassate (Acid Rain), e soprattutto il titanico medio-oriental-core Predestination Blues. Una scaletta forse un po' frammentaria, ma che strega per le svolte improvvise e dopotutto necessaria per la crescita di questa band dalla quale speriamo di risentire qualcosa di nuovo prima o poi. Ciclopici.

sabato 24 dicembre 2016

Leyland Kirby ‎– Lost Moments, Errors And Accidents #001 (2009)

Uno degli svariati regali di LK ai sottoscrittori della mail list della sua HAFTW. Lo stile di competenza è quella romantico-intimista del mastodontico Sadly, the future is no longer what it was, uscito lo stesso anno. Quindi bozzetti per piano, espansi e meditabondi, che annullano qualsiasi concezione del tempo e che fanno vibrare le corde più recondite dell'anima. Un soffio discreto di elettronica costituisce il fondale funzionale a supportare, quando opportuno.
Dal triplo sopracitato viene estratta una versione alternativa di When did our dreams, impolverata da una soffice coltre di nebbia. Come recita il titolo, si tratta comunque di una raccolta, si intuisce che le tracce derivano da registrazioni non univoche, eppure sono due ore di malinconia e disincanto che stregano senza sosta. Con uno dei trionfi più memorabili dello spleen di LK, non a caso nella traccia più lunga, la sterminata Deeper Still Into A Place Where Nothing Is As It Seems che si dipana per 25 minuti con gentilezza infinita e candore cosmico. Culto ormai senza parole .

giovedì 22 dicembre 2016

Chameleons ‎– Script Of The Bridge (1983)

Quasi in tutti i generi ci sono sempre stati dei ritardatari che sono arrivati lunghi ma hanno saputo far strabuzzare gli occhi. In ambito new-wave inglese di sicuro la palma va ai Chameleons, quartetto che arrivò all'esordio con 3-4 anni di ritardo ma lo fece con un capolavoro dalla copertina fuorviante, progressive in tutto e per tutto.
I riferimenti principali erano Echo & The Bunnymen e i Sound; due chitarre espanse e cristalline, ritmiche squadrate e nervose, pezzi epici e di grande respiro, che non avevano nulla da invidiare ai suddetti. La media di Script of the bridge è impressionante: a parte il poppettone Up the down escalator, probabilmente destinato al lancio commerciale, tutte le 11 tracce sono formidabili, con speciale menzione per Here Today, Second Skin, Pleasure and pain, As high as you can go, A person isn't safe..., Paper Tigers, impregnate di quella malinconia e senso di decadenza che solo il miglior post-punk inglese ha saputo esprimere. 
Pietra miliare.

martedì 20 dicembre 2016

Catapilla ‎– Changes (1972)

Sestetto londinese che come una scheggia realizzò due album su Vertigo e poi si sciolse. Una congiunzione astrale come solo in quegli anni poteva accadere: suono jazzato in mano a musicisti bravi ma non tecnico/virtuosi, composizioni dilatate in forma di jam ma ben organizzate, per poco meno di 40 minuti di pura magia la cui unica lacuna è quella di avere i pezzi sfumati allo stesso minutaggio (A1 è tagliato esattamente come B1 e stessa cosa per i n. 2, ma di sicuro fu una scelta manageriale ed in quegli anni i responsabili facevano più danni della grandine).
Certe alchimie dei Settanta ebbero il tocco dell'immortalità. Rispetto al primo album, più esuberante nelle orchestrazioni, la formazione era cambiata per metà ma la leadership era sempre in mano al sassofonista Calvert ed al chitarrista Wilson; il primo marchiava a fuoco con le sue frasi languide, il secondo saliva in cattedra in punta di piedi ma con uno stile memorabile. Strumentisti discreti, strateghi tattici, mai sopra le righe, mai un passo più lungo della gamba, il gusto sopraffino al comando; la cantante Meek una sirena fascinosa e carica di mistero (sembrerà un parallelo improbabile, ma io ci sento le inflessioni più free di PJ Harvey).
Nè jazz, nè Canterbury, nè psichedelia, nè prog, Changes è un istantanea che la storia non dovrebbe mai ignorare: si provi ad ascoltare It could only happen to me e si troveranno certe soluzioni che l'anno successivo i Pink Floyd fecero proprie in The dark side of the moon.

domenica 18 dicembre 2016

Agamotto ‎– Agamotto (2012)

Ma con quei cappucci, vorrebbero loro essere i Sunn O))) italici?
Il parallelo ci può stare ma solo in superficie: sotto il drone statico di Solomon grundy, l'opener, si agitano frattaglie solo in apparenza metalliche, vibrazioni dark-ambient, catene catacombali, per un inizio davvero orrorifico. La paura diventa realtà con i 14 minuti di Eric Dolphy, un'abisso ambient-metal fatto di saturazioni che si dimenano come serpenti, sirene navali, sonagli e voci ansimanti. E poi i 19' di Antonio Margheriti, una gigantesca allucinazione sottopelle che, non so perchè, mi ha ricordato le messe nere di David Tibet in Nature Unveiled. Ecco il punto: non saranno forse stati i primi a mixare metallo ed esoterismo, ma il risultato è imponente, di quelli che si ricordano. Eccellente Agamotto.

venerdì 16 dicembre 2016

Slowdive ‎– Pygmalion (1995)

La grandezza degli Slowdive non va misurata soltanto nel fattore guardati-le-scarpe e non soltanto nel miliare Just for a day, ma anche nel coraggio di fare uno dei capolavori più misconosciuti dei nineties come Pygmalion, dopo quel Souvlaki che vedeva il gruppo ancora in ottima forma ma un po' confuso sulla direzione da intraprendere, forse distratta anche dall'ingombrante presenza di Eno. Con questo terzo rinnegarono di fatto quanto realizzato in precedenza e si diedero ad un ambient-rock trasognato sotto la loro lente, che assimilava la lezione degli ultimi Talk Talk, dei Bark Psychosis di Hex e che clamorosamente anticipava persino certe atmosfere criptiche che i Radiohead portarono alla ribalta qualche anno dopo. C'è poco da spiegare sul contenuto. lunghe e circolari composizioni minimalistiche nella struttura, poche stratificazioni, grande enfasi sulle trovate melodiche sempre brillanti di Halstead. Qui sotto di video ce ne metterei 9, di video. Ovvero quanti i titoli in scaletta.

mercoledì 14 dicembre 2016

Zak Riles ‎– Zak Riles (2008)

Il chitarrista dei Grails nell'unica uscita a suo nome, su Important Records. Prettamente acustico col fingepicking in primo piano, pregno delle fragranze indianeggianti e misticheggianti che hanno permeato il repertorio padre grosso modo fino all'anno di uscita. Al primo ascolto, ho pensato: bello, una raccolta di spunti su di cui il gruppo avrebbe potuto ricavare un ottimo disco, peccato che resti un po' incompiuto. Al secondo ascolto, ho smesso di immaginarmi la batteria di Amos e mi sono lasciato abbandonare all'espansione arrendevole dell'animo inquieto di Riles, ricavandone sensazioni ed aromi inebrianti soprattutto nella seconda metà del disco, in cui il fingerpicking lascia spazio a soluzioni più aperte e ad arrangiamenti più corposi. E' il destino dei dischi che hanno il contenuto migliore nel finale: ti lasciano con un gran bel sapore nelle orecchie.

lunedì 12 dicembre 2016

Ultravox! ‎– Ha!-Ha!-Ha! (1977)

Quelli con il punto esclamativo, retaggio di un tributo Neu!. Mica quelli senza, col synth-pop, senza John Foxx. Quelli che si trovavano nell'anno del punk a formare un incrocio temporale fra new-wave in piena nascita, sfuriate di rock stradaiolo, vampe di glam, soffi di romanticismo. Memorabili Artificial Life e Distant Smile. Foxx un dandy-punk istrionico, la band trascinante e polivalente. Un disco che ho conosciuto molto molto tardi, poco tempo fa e che mi avrebbe fatto impazzire quando, giovincello, scoprivo la new-wave per conto mio, senza una guida.

sabato 10 dicembre 2016

Boris – Noise (2014)

Avevo lasciato un po' in disparte i miei amati Boris negli ultimi 10 anni. Troppi dischi, qualche caduta di tono e li avevo già belli considerati andati per il loro destino. Soltanto un paio di anni fa con questo Noise sono tornati ad entusiasmarmi, con un disco che paradossalmente è uno dei più normali che abbiano mai realizzato. Emo-power d'assalto (Melody, una bomba in apertura), ballad crepuscolari di orizzonte immenso (Ghost of romance), doom in rosa-shocking (Heavy Rain, cantata da Wata), pop sornione (Tayio no baka), la proverbiale suite epico-psycho-metal (Angel, 19 minuti), il trash-metal come solo loro possono farlo (Vanilla, Quicksilver). Sostanzialmente nulla di nuovo o che pensavamo non potessero fare, con l'energia dirompente che non cede mai e le aperture melodiche sempre di grande effetto. 40 anni e non sentirli.

giovedì 8 dicembre 2016

Manuel Göttsching ‎– E2–E4 (1984)

Disco-santino per Christian Zingales, ed apro una parentesi. Il simpatico redattore di BU, in possesso di un linguaggio colorito, fantasioso (a volte persino un po' troppo enfatico, ma si sente che c'è una grande passione...), non sarà certo uno con cui condivido la maggior parte dei gusti, ma in certi casi mi ha fatto scoprire grandi perle come questo. Gottsching, uno dei chitarristi guru della stagione dorata krauta con gli Ash Ra Tempel, prese la sua strada di sperimentazione elettronica solista ed al contrario della stragrande maggioranza dei compari che scendevano in un declino impietoso, sfornava un capolavoro come E2-E4.
Santino non solo per Zingales; per i pionieri della techno-trance, per tutti gli hypnagogici-hauntologicy degli ultimi 10 anni, e perchè no? Anche per gli amanti del minimalismo, perchè si tratta di un pezzo lungo un'ora basato sullo stesso poliritmo sostenuto e due-accordi-2 di tastiera ripetuti all'infinito. Sopra di essi, variazioni di synth, glitches di varia natura e dulcis in fundo, un lunghissimo assolo di chitarra a cavallo dei 40 minuti; chitarra che Gottsching fa volare bassa come un deltaplano, pulita e snodata; la ciliegina sulla torta di un viaggio che non si può non ascoltare 3-4 volte di seguito, tanta è la dipendenza che sviluppa istantaneamente.

martedì 6 dicembre 2016

Pop Group ‎– Citizen Zombie (2015)

Li avevamo visti dal vivo nel 2009 e già allora era stato annunciato un fantomatico nuovo disco, The Alternate, mai uscito. L'anno scorso invece sono tornati per davvero con Citizen Zombie, che ha confermato le (almeno mie) previsioni: un rientro dignitosissimo, ben lungi dallo scatenare sismi del passato, gradevole e per nulla ostico. Bene o male la tendenza è quella degli Wire attuali: fare sfoggio delle proprie radici con un'autoironia (almeno a me) palpabile; sessantenni che vogliono riappropriarsi di quanto crearono in quelle formidabili annate, che hanno ritrovato il piacere di riunirsi. La formazione poi è ben 4/5 di quella originale, manca solo il secondo chitarrista Waddington che evidentemente non ce l'ha fatta.
Citizen zombie è divertente, frizzante e ben assortito. C'è il funk, i ritmi squadrati e quelli fratturati, ci sono gli spasmi tipici e c'è Mark Stewart a suonare la sua voce. Magari fra qualche anno ce lo saremo anche dimenticato, ma un rientro bello va sempre salutato col cappello.

domenica 4 dicembre 2016

Screams From The List 53 - Silberbart ‎– 4 Times Sound Razing (1971)

Una manciata di gradini sotto gli inarrivabili Guru Guru di UFO c'è un altro power-trio tedesco che non ebbe però l'occasione di bissare quest'unico album. Certo, rispetto ai titanici sballomani con 4 Times sound razing siamo in presenza di un sound più umano, per così dire; trattasi di un hard-rock sostanzialmente asciutto e potente, ma complesso ed arzigogolato: la chiave di lettura era la smarcatura efficace dai più abusati clichè blues-rock; una virulenza esecutiva che aveva del sovrannaturale rendeva i tre persino antesignani dell'heavy-metal (in rete ho persino letto proto-noise-rock), grazie anche alla voce arrochita fino al singulto del chitarrista Teschner. Pressochè inevitabile per i fan più liberi da prevenzioni dei Black Sabbath, ma anche ai cultori del rock psichedelico (le fasi più sballate all'interno dei lunghi pezzi docet, ma anche la cantilena zombie alla We Will Fall di Brain Brain, il brano più sperimentale).
In una parola, tremebondo.

venerdì 2 dicembre 2016

Mirrorring ‎– Foreign Body (2012)

Conosco molto bene Liz Grouper Harris, mentre sono totalmente all'oscuro di Jesy Tiny Vipers Fortino; per lei due album su Sub Pop alla fine del decennio scorso, e poi più nulla a parte questa (chissà se estemporanea) collaborazione fra le due, sotto la sapiente egida Kranky.
Difficile quindi asserire per me quanto Foreign body esprima dell'una e dell'altra; ciò che conta è che si tratti di un disco ispirato, pregno di quelle intense sensazioni galactic-drone-folk che la migliore Harris ci ha saputo regalare nei suoi momenti migliori ma anche più ancorato a terra per la voce intensa della Fortino, forse responsabile anche di momenti acustico-asciutti (Silent from above, incantevole) e più stilisticamente legata alla tradizione, ma con una sensibilità rilevabile all'istante.
Si evince, quindi, un disco più Grouper ma con la curiosità di pensare come sarebbe stato con più Fortino; in ogni caso molto molto bello, con la speranza che non sia stato uno one-shot.

mercoledì 30 novembre 2016

Robert Wyatt ‎– The Animals Film (1982)

Un bel lusso, avere RW come autore della colonna sonora, ma è chiaro che non si trattò di una congiuntura da industria: innanzitutto il film era un documentario animalista contro la vivisezione, in quegli anni Wyatt era all'apice del suo impegno politico al punto di aver lasciato la musica in secondo piano, con tutti quei singoli  di cover popolari francamente inutili (a livello musicale).
Eppure, nonostante la sua funzione di servizio, The animals film testimoniava che il Maestro era ancora in forma per fare qualcosa di diverso: in neanche mezz'ora si cimentò con una pseudo-library che ovviamente non aveva nulla a che fare con Rock Bottom nè con quant'altro realizzato nel decennio di massima gloria. Ben poco spazio era riservato alla voce, con un intervento fonetico-melodico nella sigla di apertura ed un cicaleccio effettato nella traccia n.7. Affiora a più riprese il germe di quella follia memorabile che fu End of an ear, anche se traslato in un ottica deformata fatta di quadri minacciosi se non angosciati, per l'appunto affine alla library più criptica e con punte ai limiti dell'industriale.
Potrebbe anche non essere riservato ai fan di stretta osservanza del RW, tanto è ostico: ma in fondo viene da pensare che qualsiasi genere avesse affrontato, gli esiti non sarebbero mai stati meno che interessanti.

lunedì 28 novembre 2016

Harlassen ‎– A Way Now (2006)

Galassia Skelton, con una delle sue primissime pubblicazioni; il nome Harlassen resterà inusato a discapito di tutti gli altri, salvo poi essere riesumato nel 2015 su Corbel Stone, ma soltanto per un titolo postumo risalente al 2008. C'è da dire che questo era uno Skelton diverso, quasi fragoroso; a fronte del suo classico minimalismo strutturale, la selva di archi veniva ricoperta da striature stridenti di chitarra elettrica (What the river said) od incorniciata in un pattern di piano (An eddy of the blood), in entrambi i casi con contorno di percussioni, orpello che se non sbaglio è rimasto bellamente ignorato dal Nostro in tutti gli altri suoi. Solo la (peraltro splendida) Untitled ci accompagna nelle confortevoli radure britanniche del suo classico stile, per il quale è sempre difficile trovare le parole di ammirazione. Da annoverare, Harlassen.

sabato 26 novembre 2016

Los Random - Pidanoma (2014)

Per gli orfani dei Mars Volta o per chi comunque ama forme di crossover (sì, lo so, non c'entra niente con ciò che veniva incasellato con questo nome nei '90, mi piace chiamarlo così) che includono metal, psichedelia, progressive e post-rock, il power-trio argentino Los Random è un nome sicuro su cui puntare. Il parallelo con la band di Lopez & Zavala si propone in virtù delle acrobazie strumentali e della torrenziale visceralità (dna latino-americano?) delle esecuzioni, però per i Los Random le performance vocali, riservate al chitarrista Garcia, sono poco più di un accessorio, e la lunghezza delle tracce è ampliata a dismisura, fino ai 20 minuti finali della splendida Guri Guri tres pinas. Da queste kilometrico-epiche pieces inevitabile deriva l'accostamento al progressive, ma dopo tutto Pidanoma resta un lavoro cangiante, privo di autoindulgenze e soprattutto istintivo, il che non è scontato per questo tipo di complessità.

giovedì 24 novembre 2016

Flying Luttenbachers ‎– Gods Of Chaos (1997)

Armato della follia e dell'arroganza (dei del caos era un invocazione o un'autoreferenzialità?) necessarie a lasciare il segno, Weasel Walter ha guidato innumerevoli incarnazioni dei Flying Luttenbachers nell'underground a cavallo di scadenza millennio come Vander guidò i Magma, ovvero da dietro una batteria carismatica ed impetuosa, titanico e tirannico, con un turnover folle davanti a lui. Qui è col chitarrista Falzone ed il bassista Pisarri (cognomi oserei dire in odore di malavita export...), nel secondo su Skin Graft che diede loro più visibilità. Un delirio inarrestabile di noise-jazz-art-space apocalittico e corrosivo, con scorie industriali sparse, il sax incosciente dello stesso Walter che passa da barriti lascivi a starnazzamenti impazziti. E qualche graditissimo tributo a Captain Beefheart, così per spezzare i ritmi folli di un capolavoro classicamente out.

martedì 22 novembre 2016

Aphex Twin ‎– Computer Controlled Acoustic Instruments Pt2 EP (2015)

Più che l'attesissimo ritorno di Syro, che per carità, è stato un buon disco ma nulla per cui far urlare come faceva RDJ negli anni '90, è stato questo EP in sordina che mi ha letteralmente stregato.
Un uscita accolta con parecchia freddezza da più o meno da qualunque fonte d'informazione musicale, se non ostentatamente stroncata. Il titolo è pleonastico/didascalico: la ricreazione di strumenti acustici tramite software e null'altro, che nello specifico sono batteria, pianoforte e contrabbasso. Un Aphex Twin in assetto post-jazzistico lo dovevamo non soltanto ascoltare, ma forse anche proprio immaginare. CCAI è un disco scarno, spoglio e senza tanti orpelli, la cui unica peculiarità elettronica alla fine sono soltanto certi beats caracollanti, eppure lo scopo è raggiunto con successo: il suono, clamorosamente in your face e le partiture, facilmente riproducibili da mani umane, lo rendono di indiscutibile originalità. Visto che la pt1 non è di fatto esistita, la attendo molto volentieri.

domenica 20 novembre 2016

David Peel & The Lower East Side ‎– Have A Marijuana (1968)

Come si fa a non sorridere, a non provare simpatia per le cantilene sgangherate del primo album di questo menestrello sballato? Non si può. Queste torch-song al Thc che inneggiavano al consumo di ganja e che sparavano a zero sui poliziotti, registrate in mezzo al pubblico col solo ausilio di chitarra acustica e percussioni, altro non erano che unplugged-punk 10 anni prima. La voce arrochita ed energica di Peel ne era la pistola fumante, perchè sarebbe bastato un supporto elettrico ad una velocità appena appena più sostenuta e punk sarebbe stato (teoria di cui si sarebbe giustamente appropriato 10 anni dopo).
Have a marijuana intanto però non era un inno al nichilismo, ma un'invito al divertimento e a cantare insieme la voglia di libertà, più o meno legale che fosse, ma comunque libertà.

sabato 19 novembre 2016

R.I.P. What.Cd

E' un giorno di lutto.
What.cd è stato chiuso.
Ma non è stata la FBI, nè la CIA nè qualche altro ente pubblico americano.
Sono stati i francesi. Da non crederci.
Hanno speso due anni in indagini e ieri mattina hanno fatto irruzione e distrutto i server di quello che era il sito più bello del mondo, il paese delle meraviglie, l'archivio più sterminato e curato di tutta la storia.
Ero stato invitato ed introdotto da Allelimo nel 2008. Ero diventato un membro di categoria elite (grosso modo un 5% del totale degli utenti), il mio Utorrent è stato aperto 24/24 per 8 anni, avevo una ratio di 3, avevo una lista di bookmarks di 300 titoli ancora da scaricare. Nel mio browser c'era sempre la home page di What.cd aperta nella prima scheda, con 2 refresh al giorno consultavo le new subscriprions per vedere cos'era uscito di nuovo. Queste coniugazioni al passato mi fanno male. 
Francesi, vi odio. Pensate di salvare il mondo della musica, pensate che l'industria discografica così facendo si risolleverà. Siete soltanto dei poveri illusi. Persino la DMCA si era rassegnata, ma questo è un colpo basso, bassissimo.
Addio What.cd. Suona patetico e superfluo, ma mi manchi già tantissimo ora che non ci sei più.

venerdì 18 novembre 2016

Opal Onyx ‎– Delta Sands (2014)

Replicando il concetto di recupero brillantemente sviluppato dagli Have A Nice Life in passato, gli americani Opal Onyx hanno incarnato lo spirito gotico del passato per vestirlo con nuovi colori. Il motore creativo è composto dalla cantante Nowicky (voce possente e carismatica) e dal cellista Robinson, entrambi impegnati a costruire fitte muraglie di synth ma anche a creare ballads evocative, struggimenti eterei, cattedrali imponenti. Sono diversi i nomi pesanti che vengono in mente all'ascolto di Delta Sands (gli Swans di metà anni '90, Dead Can Dance, Black Tape For A Blue Girl), ma la sapienza ed il magnetismo dei due convince fin dal primo ascolto e regala 40 minuti di autentica magia gotica.

mercoledì 16 novembre 2016

Trans Europa Express ‎– Il Gatto Dagli Occhi Di Giada (1977)

Nulla a che fare con i Kraftwerk, i TEE sono stati un progetto effimero dedicato esclusivamente alla realizzazione della colonna sonora di un film horror del regista Bido. I paragoni collaterali Dario Argento / Goblin si sprecano in ogni pagina dedicata alla pellicola, a mio avviso frutto di un ascolto piuttosto superficiale della soundtrack, che in qualche tema può riscontrare affiliazione col gruppo di Simonetti, ma ovviamente c'era anche altro: psichedelia scura e ottundente (riferimento principale i Pink Floyd di One of these days), sperimentazioni percussive, squisite vignette bossa-library, digressioni acustico-mediterranee, con un basso legnoso e pulsante spesso in primo piano. 
Dietro al monicker si nascondeva un manipolo di reduci della stagione prog e cantautori un po' sotterranei, sostanzialmente illustri sconosciuti che avevano fallito l'appuntamento sia col successo commerciale che con la gloria artistica. Un prodotto curioso, non di punta ma di ascolto raccomandato per i cultori del periodo.

lunedì 14 novembre 2016

Fulk∆nelli ‎– Harmonikes Mundi (2015)

Un'altro buon colpo della IOP dei nostri giorni è rappresentato da questo duo di ormai consumati calpestatori di palchi alternativi della scena italica. Antepongo la mia opinione con la constatazione che i gruppi da cui provengono sia il chitarrista Naldi (Ronin) che il batterista Mongardi (Fuzz Orchestra) sono tutt'altro che entusiasmanti alle mie orecchie, anzi. Ma in questa sede, incappucciati, misteriosi, rabbuiati, circondati da sentori esoterici, i due raggiungono risultati eccellenti. Harmonikes Mundi è una suite di mezz'ora abbondante divisa in due che concettualmente richiama parecchio i Cannibal Movie di Mondo Music, ma che subito se ne distacca per il contenuto; chitarra ispida e stratificata che gira attorno ad un tema ossessivamente, batteria prima tribale e poi sincopata e tellurica. Una specie di occult-stoner-alien dalla progressione inarrestabile fino al rovinoso finale che interrompe bruscamente l'ipnosi raggiunta fino a poco prima. Perfetto per i cerimoniali più oscuri o per un bad trip naturale.

sabato 12 novembre 2016

Stars Of The Lid ‎– The Ballasted Orchestra (1997)

Arte ambientale allo stato puro per il terzo album del duo texano; 80 minuti di quiete ed estasi suprema, con tanto di omaggio a David Lynch (la suite in due parti Music for the Twin Peaks Episode #30), ed in generale uno stato vaporoso di pulviscolo statico unito ad una sensibilità tonale che esprime luminescenza. Certo, mancano le impennate emotive e semi-sinfoniche del loro grande capolavoro, ma sono dettagli e simboli di una crescita naturale. Erano diversissimi dagli altri grandi ambientali dell'epoca (Main, Labradford) e furono lungimiranti nell'aprire le porte al fenomeno drone che fiorirà inarrestabile nel decennio successivo.

giovedì 10 novembre 2016

Jar Moff ‎– Financial Glam (2013)

Delirante audio-scultura divisa in due tronconi di oltre 20 minuti, per rispettare le limitazioni fisiche del vinile; ma c'è la nettissima sensazione che senza questa barriera architettonica il flusso potrebbe durare all'infinito. Autore il collagist greco Jar Moff (probabilmente un monicker), un maniaco terrorista che tramite la strategia del copia/incolla ha inventato una formula magnetica piuttosto difficile da incasellare: elettronica brutale, pantano industriale, sax imbizzarriti, synth hypnagogici, scie droniche come panzer, harsh-noise che si autolimita negli slanci. L'effetto finale è molto semplice: non ci si capisce niente. E allora tocca far ripartire tutto dall'inizio, per cercare di dipanare un po' meglio il mistero; niente neanche alla seconda volta.
Non è che una formula funzioni sempre, a prescindere dalle intenzioni. JM avrà fatto tutto a casaccio col ghigno stampato di chi vuole soltanto seminare caos? Può darsi. Comunque sia, davvero bravo.

martedì 8 novembre 2016

Egisto Macchi ‎– Il Deserto (1974)

Prezioso recupero ad opera della Cinedelic, etichetta nostrana specializzata in soundtracks, che l'anno scorso ha ristampato in vinile questo lavoro mirabile del maestro maremmano, ormai sempre più giustamente tributato e riscoperto. Come del resto tutta la sua discografia concentrata nei '70, Il Deserto è ad alto tasso avanguardistico ma è sicuramente meno aggressivo e/o ostico di altri che lo hanno preceduto. E' un compromesso miracolosamente bilanciato fra musica sinfonica (con speciale attenzione alle partiture per i fiati), tribalismi, droni siderali di synth, qualche momento di armonie che risolleva dallo stato ansiogeno che regna sovrano (diciamo che nel filmato di riferimento potrebbe essere corrisposto con l'arrivo in un'oasi...). Certo è che, se chiudiamo gli occhi, possiamo immedesimarci brancolare per il Sahara, visualizzare i miraggi, le tempeste e le montagne di sabbia, per poi piombare nel freddo della notte, socializzare con gli indigeni, e quant'altro. Ovviamente imperdibile per i cultori.

domenica 6 novembre 2016

Khun Narin ‎– Electric Phin Band (2014)

A memoria, prima musica thailandese che mi sia arrivata alle orecchie, a meno che non sia capitato in passato in qualche ristorante. Ed è uno spasso dal primo secondo all'ultimo: una formazione aperta proveniente dalle campagne del nord catturata dal vivo (fedeltà perfetta), con un suono unico come solo gli acts più isolati possono avere. Protagonista di queste jams strumentali è il Phin, un liuto a 3 corde elettrificato che incarna il ruolo della chitarra elettrica; chi lo imbraccia, tal Sitthichai Charoenkhwan, è un virtuoso e va citato nonostante l'impronunciabilità. Gli altri forniscono un supporto in gran parte percussivo altrettanto esaltante, ma vista anche la presenza di basso e batteria il risultato finale si avvicina come spirito al rock psichedelico degli anni '60 (si potrebbe anche azzardare una similitudine coi Mermen) anche se il punto di vista è inevitabilmente diverso. Dipendenza immediata.

venerdì 4 novembre 2016

Screams From The List 52 - Pôle – Kotrill (1975)

Proto-industrial di grande influenza su NWW, ad opera di un trio francese di oscure provenienza e destinazione. Destino peraltro comune a svariati protagonisti della List, quella di essere stati incondizionatamente fuori, di non fare nessun compromesso e finire relegati in una nicchia appannaggio di pochi estimatori.
In Kotrill soltanto 3 tracce: la title-track è un capolavoro sperimentale di 17 minuti: frustate di loops, nebulose di oscillatori e synth, recitato demente, percussivismo metronomico e fuorviante, tempeste industriali pre-TG, sirene spaziali inaudite, tribalismo martellante. Osiris, soltanto 3 minuti di audio-generator e gong, inquietante ed opprimente. Villin-Gen è, sottoscrivo quanto ho già letto da qualche parte, la risposta in cristallizzazione e lo-fi delle stasi oniriche dei Neu!; 21 minuti di quiete ronzante per synth e oscillatori, di sciabordii acquei, di singulti alieni.
Al primo ascolto sembra di captare un po' di naivetè, ma già al secondo si capisce che i tre folli facevano sul serio e Kotrill fa ancora sensazione, nonostante dimostri tutti i suoi 40 anni.

mercoledì 2 novembre 2016

Warmer Milks ‎– Radish On Light (2006)

Stranissimo incrocio fra ubriachezza post-folk, noise ed art-rock per questo gruppo aperto del Kentucky facente capo al chitarrista Turner, che ha pubblicato una selva di dischi nel giro di tre anni per poi sciogliersi. Radish on light, primo della serie, è a dir poco disorientante. All'inizio sembra una versione ubriaca e/o sballata degli Oxbow (In the fields), poi deraglia in un magma ribollente di ampli seguito da un motorik marcio sopra un delirio di chitarre sbilenche e voce strozzata (The shark), poi si focalizza su un fermo-immagine degli U.S. Maple ignorante ed indurito (Pentagram of sores), per terminare con un lento, interminabile concerto di feedback controllato con tambureggiare sottostante (la title-track), equivalente ad una passeggiata in mezzo alla lava. La domanda è di quale sostanza possano aver abusato i Warmer Milks, la risposta è che ne so, intanto il disco è una goduria per le orecchie comprensive e vogliose di musiche inaudite.

domenica 30 ottobre 2016

Mamiffer ‎– Hirror Enniffer (2008)

Il tocco fatato, razionale e fragile di Faith Coloccia è l'anima di Mamiffer, progetto avviato con il compagno di vita Aaron Mr. Isis Turner e qui al debutto.
Uno stile, quello della pianista di Seattle, che è tanto elementare quanto speciale: frasi funzionali, per nulla complesse, di impatto emotivo rilevante, tendenti ad un umore medio-autunnale. Turner appoggia con chitarre ed effetti generalmente aggressivi ma che non invadono mai il campo, restandosene a volume molto più basso. Completa il quadro una saltuaria (ma necessaria per supportare certi disegni) sezione ritmica e qualche sventagliata di violoncelli. Ne esce un quadro spoglio ed avvolgente al tempo stesso, dove le splendide melodie circolari della Coloccia (da citare almeno This Land, Black Running Water, Suckling a dead litter) sono insistenti ed incisive fin quasi a raggiungere un livello di magica ipnosi che ricorda i Three Mile Pilot di Piano Plus/Piano Minus e dintorni. O che la fa immaginare come contraltare femminile di Daniel O'Sullivan.

venerdì 28 ottobre 2016

Michael Stearns ‎– Lyra Sound Constellation (1983)

Ingiustamente incasellato nella categoria dei new-agers, forse più per una congiuntura temporale, l'americano Stearns in realtà è uno sperimentatore di strumenti auto-costruiti, un elettro-acustico di tutto rilievo. Tutt'oggi attivo, col passare degli anni è diventato anche sonorizzatore per cinema e documentari.
Già discograficamente operativo da qualche anno, nei primi '80 costruì una lira gigantesca che diventò protagonista, insieme ai synth, del tenebroso ed imponente Lyra Sound Constellation. Disco che può essere considerato un anello di congiunzione fra le pagine più temibili dei Tangerine Dream e la dark-ambient che andava a nascere proprio in quegli anni con Lustmord.
Il propagarsi delle onde generate dalla lira si vanno ad impastare con i bordoni dei synth e degli audio-generators, per un composto glaciale che lascia pochissimi spazi tonali. Più che una costellazione Stearns sembra voler sonorizzare l'esplorazione di un cunicolo buio e popolato dai fantasmi più inquietanti. L'insieme è pauroso e lascia il segno.

mercoledì 26 ottobre 2016

Flying Saucer Attack ‎– Instrumentals 2015 (2015)

L'inaspettato ritorno di Dave Pearce, senza Rachel Brook, a 15 anni dall'ultimo album, Mirror. Strumentali del 2015, numero 15. Numerologie?
Cos'è successo in questi anni Pearce lo accenna in un'intervista, in cui dichiara di essere andato un po' fuori di testa, di essersi isolato, per un lungo periodo persino di aver lasciato perdere la musica. Ma parte di Instrumentals risale ad un decennio fa, quindi questo ritorno rappresenta una specie di ponte col passato, con quanto rappresentò FSA negli anni '90, quell'esserci ma sempre un po' defilati, fuori dallo shoegaze, fuori dai riflettori ma con vasta gratificazione. E con buona lungimiranza nei confronti delle tendenze sotterranee (soprattutto americane) degli anni a seguire.
Dalla psychedelia rurale però ne è passato di tempo, e questa antologia degli anni bui di Pearce testimonia comunque un cambiamento. Nessuna voce, nessun'accompagnamento, soltanto le chitarre e i pedali; del romanticismo galattico che caratterizzava i momenti più toccanti, ben poca traccia. Il Pearce di questo album è un uomo turbato, che per come lo conoscevamo oggi suona persino apocalittico. Nuvoloni neri in arrivo, tempeste dietro l'angolo, miraggi desertici, allucinazioni scultoree, e poi anche qualche melodia serena e rassicurante, di quelle che ti fanno sollevare, quasi commuovere. 
Questo il senso dei ritorni: welcome back Dave, non ci speravamo più che ricomparisse ed è bello che egli ritorni con qualcosa di diverso, che si sente che è suo ma scandisce il passare del tempo, inesorabile e forse persino un po' pessimista. Ma che strega istantaneamente.

lunedì 24 ottobre 2016

Vic Chesnutt ‎– West Of Rome (1992)

Cantore del malessere di vivere confinato in una sedia a rotelle, Chesnutt è stato uno di quei personaggi intensissimi che mi sono perso in un'epoca in cui avrei potuto amarlo ardentemente. Non dico che sarebbe stato all'altezza degli dei, ma di certo lo avrei consumato come un Jason Molina d'annata. Le sue canzoni meste ed ariose al tempo stesso contenevano un fuoco espressivo dal dna inconfondibilmente americano, fior di canzoni, con una voce unica, strascicata, allungata, da brividi quando si arrochiva. Pupillo di Michael Stipe che lo portò alla ribalta e gli produsse i primi due album, il secondo dei quali è West Of Rome; semplice e disarmante, con ben 22 pezzi fra acusticherie, tradizionalismi ed impennate indie, di cui una metà memorabile e l'altra semplicemente bella.
Qualche anno fa, dopo diversi tentativi, Vic ce la fece a togliersi la vita dopo diversi tentativi, povero in canna ed indebitato. Ci starebbe un film, su quella vita maledetta.

Kukan Gendai - Live In Area Sismica, 23/10/2016

Clamoroso colpo dell'Area Sismica che questa sera si era assicurata la prima performance in Italia dei Kukan Gendai, il fenomenale avant-rock-trio giapponese che avevamo conosciuto grazie alle meticolose ricerche di Savini su Blow Up.
Anzi, più che sera, tardo pomeriggio, dato che l'orario schedulato per il live era alle 18.00, piuttosto bizzarro a dir la verità ma perchè no, gradito soprattutto per chi ha famiglia; possibile soltanto di domenica, probabilmente, ma la reputo una trovata abbastanza geniale. Intorno alle 18.40 i tre (piuttosto giovani all'apparenza, nonostante le cronache datino la fondazione al 2006) salgono sul palchetto e come per magia le premesse che avevamo intuito su disco diventano realtà, visibile e soprattuto udibile.
Spettacolari. Sostituirei la parola math-rock con sci-rock, viste le geometrie impossibili, gli incastri millimetrici, le svolte spericolate che questo crudissimo avant-funk-core mette sul piatto. Tutto ruota attorno al batterista Yamada, che ineffabile e chirurgico guida le ritmiche ultra-spezzettate di quest'oretta scarsa, suonata senza prender fiato un'attimo. Viene da chiedersi quanto tempo passino a provare, vista la coesione paurosa con cui il bassista Koyano ed il chitarrista Noguchi (che si occupa persino di vocalizzi fugaci ed isterici, a seminare ancor più tensione in un suono già nervosissimo) lo francobollano e fanno singhiozzare le costruzioni impossibili dei KG. Una band così poteva uscire soltanto dal Sol Levante. Applausi a loro ed all'Area Sismica.

sabato 22 ottobre 2016

Oiseaux-Tempête ‎– ÜTOPIYA? (2015)

Progetto francese fortemente ispirato dalla geo-politica, il che già di per sè è abbastanza peculiare. ÜTOPIYA?, il loro secondo disco pubblicato dalla veterana belga Sub Rosa, ci rivela quindi una band fuori dal proprio tempo, che scruta l'Europa ed i suoi drammi contemporanei, in questa sede soprattutto focalizzati sulla Grecia. Punti di vista che ricordano i complessi impegnati di altre epoche, insomma; a noi interessa di più l'aspetto musicale, che potrà anche essere molto influenzato dagli aspetti toccati (peraltro in ottica quasi del tutto strumentale, a parte qualche recitato e voci pescate dall'etere) ma sta in piedi per conto suo. Un post-post-rock dalle venature apocalittiche, gotiche, lisergiche, che concettualmente può ricordare i Godspeed You Black Emperor; tuttavia i transalpini sanno amministrare con saggezza la materia (eccetto qualche didascalia funzionale, che si perdona a braccia aperte), e consegnano un lavoro complesso, che evoca visioni su visioni. Che fa riflettere.

giovedì 20 ottobre 2016

Stephan Micus ‎– Implosions (1977)

Autentico missionario delle musiche tradizionali mondiali, il tedesco Micus conduce da 40 anni un documentario sugli strumenti provenienti dalle regioni più remote del globo, di cui si impossessa e con cui crea musiche avventurose sotto l'egida dell'elitarissima Ecm.
Un aspetto molto autorevole di questo personaggio è che si tratta forse dell'unico ad aver fatto parecchi dischi senza prendere neanche un'insufficienza da PS. Implosions vedeva un Micus ancora piuttosto giovane (24 anni) ma già pienamente intraprendente, a far bella mostra nella cover interna degli strumenti utilizzati con relativa ed esauriente didascalia sulle origini. Poco da dire sul contenuto, uno splendido viaggio pregno di misticismo in cui spadroneggia la monumentale As I crossed a bridge of dreams, 21 minuti di pura estasi intimista per chitarra acustica, sitar e voce evocativa; ma di poco inferiore è la facciata B, che semmai accentua il titanico, immancabile e fatal spirito teutonico, non affrancabile neanche da contesti così export. Bellissimo.

martedì 18 ottobre 2016

Eric Chenaux ‎– Skullsplitter (2015)

Cantautore canadese che da anni gioca in casa Constellation, ma rifugge facili classificazioni. Per la verità attivo fin dalla fine degli anni '80, in cui faceva parte di una band di alternative-grunge (Phleg Camp), oggi Chenaux è fautore di un raffinatissimo e sbilenco croonering in cui languide composizioni in odore di soft-jazz vengono trasfigurate in virtù di un chitarrismo manipolato, nonchè scandite da un falsetto educato ed espressivo. In fondo in fondo sarebbe pop perchè le melodie sono molto cristalline e lineari, ma il modo in cui la chitarra viene piegata e ritorta contribuisce a creare uno stile parecchio originale, che per certi versi ricorda concettualmente il Robert Wyatt più sereno e disteso. Con un unica eccezione, la splendida title-track che si affida ad un sottofondo simile ad un assortimento di fiati per creare un'aria struggente ed evocativa.

domenica 16 ottobre 2016

Goblin ‎– Roller (1976)

Più che il celeberrimo Profondo Rosso, Roller fu l'attestazione dei Goblin a band di eccellenza di quella fase post-progressive che riservò visibilità a ben pochi acts italici, nonchè gesto di affrancamento dall'ingombrante soundtrack che li aveva portati alla ribalta. Da notare inoltre che un paio d'anni dopo ci avrebbero riprovato innestando anche il cantato sul Bagarozzo Mark, che nonostante il lodevole proposito non raggiunse risultati significativi.
Invece Roller svariava fra temi cupi e liquidi, parentesi pinkfloydiane, girandole funk, pastoralità inattese, giravolte jazz-rock con una coesione mirabile. Con la ciliegina del lungo Goblin, una sorta di dichiarazione d'intenti auto-omonima, splendido viaggio multiforme dagli orizzonti ampi, con ogni probabilità la cosa migliore che abbiano mai realizzato.

venerdì 14 ottobre 2016

Donato Epiro ‎– Fiume Nero (2014)

Raccolta di tracce provenienti da due uscite nel biennio 2009/10 sulla Stunned di Phil Giacchi di Magic Lantern / Super Minerals. Epiro, che abbiamo già conosciuto nelle fila del temibile duo occult-psych Cannibal Movie, da quasi un decennio pubblica la propria musica nelle maniere più undeground possibili: cassette, vinili limitatissimi, split, compilations, tutto spezzettato in modo che sia difficile dare un giudizio ben focalizzato. Prendendo in considerazione Fiume Nero come se fosse un disco a sè stante, però, si rivela un talento visionario come pochi nel maneggiare materiali così caldi (per non dire tropicali, viste le atmosfere da giungla ricorrenti). Tribalismi, saghe esoteriche, sballi da magia nera, immersioni hauntologiche, allucinazioni galattiche; Epiro è uno stregone moderno con capacità magnetiche notevolissime.

mercoledì 12 ottobre 2016

Bongwater ‎– Double Bummer (1988)

E' così dannatamente lungo che al primo ascolto l'ho snobbato: mi ci sono voluti 3 viaggi lavorativi. Ma già al secondo emerge la dissacrante, surreale vena che Kramer e la Magnuson infondono ed il loro senso dell'assurdo psichedelico. E soprattutto al terzo, le gag passano in secondo piano e resta la musica: un miscuglio ridondante di cristallini jingle-jangle, di stoner fangosi, di cover irrispettose, di collage indefinibili.
E' un opera rock nel suo senso più autentico, diretta erede degli eccessi dadaisti degli anni '60/70 ma con una visione a metà fra il nichilismo e il ludico. Alla fine del terzo ascolto, penso di averne capito un po' di più ma poi, scegliendo a caso fra una delle 38 tracce, mi ritiro dalla sfida. Double bummer è un mattone che può lasciare interdetti, ma riserva sorprese ad ogni angolo.

lunedì 10 ottobre 2016

Tera Melos ‎– Untitled (2005)

Poteva esistere una versione pop degli Hella? Ce l'ha fatta questo gruppo californiano che in occasione del debutto omonimo sfoderava un math-rock irradiato da riffs chitarristici a tratti persino accattivanti.
Con un bagaglio tecnico di prim'ordine come si conviene ad ogni math-rocker, i TM si rivelavano pirotecnici ed acrobatici, ma non fini a sè stessi. Influenzati dal post-rock, dai Don Caballero e dal post-hardcore, sapevano tirar fuori piccoli capolavori di girandole come Melody 2 e Melody 5 che contagiano all'istante e domandano un riascolto quasi immediato. Peccato soltanto per Melody 8, una lungaggine (29 minuti!) di caos effettato che decisamente non li metteva in luce come illuminati improvvisatori.
Comunque parecchio consigliato per i fan dei gruppi citati, anche se affini soltanto per intenti.

sabato 8 ottobre 2016

Totsuzen Danball - Yokushi Oto Chikara (1991)

Diec'anni dopo il simpaticissimo debutto, e le collaborazioni con Frith e Coxhill, i TD che tornavano in pista con alle spalle un lunghissimo silenzio erano una band decisamente migliorata sotto il punto di vista tecnico, per non dire professionale. La produzione pulita ma non troppo di Yokushi Oto Chikara denotava comunque un suono ancora una volta indefinibile nella sua semplicità, straniante ed accessibile al tempo stesso. Restava immutato lo spirito giocherellone del trio, alle prese con 10 pezzi di rock humour-cartoonistico (mia personalissima impressione, vista la totale impossibilità di apprendere info in merito) con qualche vaga reminescenza new-wave; elementi peculiari il vocalist, monotonale e spassoso (qualcuno si ricorda Mai Dire Banzai, che fra l'altro andava in onda proprio in quegli anni?) e questo tintinnio-effetto chorus costante, dall'inizio alla fine, che assume i tratti della lobotomia dissacrante. Simpatia al potere.

giovedì 6 ottobre 2016

Clinic ‎– Visitations (2006)

In tema degli inglesi Clinic, è quasi inevitabile stilare un parallelo con i Clientele; coetanei di fondazione, esordienti nello stesso anno, dotati di un dna profondissimamente britannico e soprattutto vintagisti in termini di ispirazione. Però entrambi capaci di crearsi un appeal tutto personale e di scrivere piccoli-grandi pezzi.
Se però la band di Macclean ha sempre prediletto atmosfere notturne ed autunnali, i Clinic hanno sempre rappresentato l'estate; sound frizzantissimo, passo sostenuto, flower-garage-power. Uno stile di cui non me ne sarebbe fregato un granchè se non fosse che Visitations è una raccolta di pezzi irresistibili, e poco importa se alla fine si assomigliano abbastanza. Un ponte ideale fra gli anni '60 e il 2000, degnamente arrangiato, con una voce atipica che sembra un ghigno, i riff di chitarra spigolosi, le cornici di farfisa che fanno tanto psichedelia: è un trionfo della semplicità.

martedì 4 ottobre 2016

Screams From The List 51 - Semool ‎– Essais (1971)

Trio francese di molto probabili non-musicisti o comunque alle prime armi, che rappresentarono un'influenza capitale sui primi NWW per quanto riguarda l'approccio più nichilista nel senso cerebrale del termine. In rete ho letto un mini-dibattito che discuteva se nel caso di Essais sia lecito parlare del labile confine fra genio e laziness (svogliatezza, ma forse anche inettitudine generale); quel che è certo, non lascia indifferenti. Ma il dubbio di questo confine, dopotutto, non è stato forse una caratteristica costante anche dell'intera carriera di NWW?
Ciò che registrarono (letterale, nella metropolitana parigina Rue Saint Maur, ma che sia una presa in giro?) fra il '69 e il '71 è un assortimento di bizzarrie che definire sperimentazione sembra un po' arduo. Da notare che, incredibile ma vero controsenso, fu ristampato per la prima volta nel 2000 dalla prog-label italiana Mellow e in vinile appena l'anno scorso dalla francese Soufflecontinu, specializzata in recuperi proprio della List.
Innanzitutto la facciata A mi ha fatto venire un colpo, perchè presenta lunghi e spastici soliloqui di chitarra acustica sbilenca conditi da qualche effetto che dopotutto assomigliano abbastanza a quanto realizzammo io e il mio amico Berto in registrazioni casalinghe  una trentina d'anni abbondanti dopo, incluse le citazioni concrete di Pink Floyd e Black Sabbath (!). Ma in tutta sincerità le cose più interessanti arrivano a partire dal saggio n. 5, in cui i Semool iniziano a fare sul serio con i nonsense; assurdità di ogni, pianoforti usati come percussioni, sonagli, triangoli, anticipi industrial, nastri al contrario, sarabande affini ai Red Krayola delle Free form freak out, languide ed improvvise improvvisazioni più musicali, e nel finale un'altra citazione demenziale dei BS, con l'assolo inascoltabile di Paranoid.
Intendiamoci, ci vuole del fegato per ascoltare Essais, ma l'ha detta bene Vlad: i più sbarazzini di noi non potranno sottrarsi all'ascolto.

domenica 2 ottobre 2016

Suishou No Fune - Prayer for Chibi (2008)

La serie è "figli illegittimi di Keiji Haino"; nel caso di questo duo di Tokyo, il maestro viene concettualmente tributato in una versione light, altrettanto spirituale ma più misurata e raccolta.
Uomo e donna, due chitarre, due voci che si alternano, due ore piene per 8 pezzi. L'estremismo giapponese è sempre presente, in qualsiasi contenitore lo si voglia sistemare. Quello degli SNF è il massimalismo dell'anima, con chilometriche divagazioni che nuotano nella psichedelia più antica e consunta, con le chitarre arpeggiate delicatamente o con le corde allungate, diluite ed attorcigliate. Le voci, attonite, sognanti e stonate, a rincorrere le visioni e i miraggi. Niente batteria, niente ritmi.
Prayer for Chibi è in larga parte molto tranquillo e rilassato, ma quando si accendono i distorsori (i 16 minuti di Resurrection Night) appare ancora più marcatamente lo spirito dissennato di KH, soltanto in un formato meno scomposto. Questo per non distogliere comunque dal vero nucleo pulsante degli SNF, che resta l'universo onirico e lucidamente visionario di Pirako e Kageo, due viaggiatori extra-sensoriali.

venerdì 30 settembre 2016

Chrisma – Chinese Restaurant (1977)

Poco da dire su una bomba artistica che scoppiò nell'Italia di piombo. La buonanima di Arcieri, abile e consumato trasformista, a 30 anni ebbe il coraggio di reinventarsi da ex-beat e varò Chrisma spalleggiato dall'altrettanto abile moglie, per un progetto che di italiano aveva nulla, nada, nisba, zero, 0.
Kraftwerk, Stooges, Neu!, Stranglers, queste le basi di partenza per Chinese Restaurant. Le serrate ritmiche di Black Silk Stocking, C.Rock e Mandoya sono new-wave in tempo reale e sono gli episodi più illuminati, ma le tracce che sviano dalle terre di nascita sono percepibili ovunque: i punk and roll di Wanderlust e What for, l'algida sinfonia sintetica di Lycee, la sigla solenne Thank you, marchiano a fuoco un disco che li fece paragonare ai Velvet Underground dalla stampa inglese. Dettaglio non di poco conto: le chitarre, splendide e fondamentali nell'economia del suono, furono a cura di Vevey della Locanda Delle Fate.
Alla faccia del provincialismo italico.

mercoledì 28 settembre 2016

Pyrrhon – The Mother Of Virtues (2014)

Quando, molto candidamente, ascoltavo death-grind dalle trasmissioni di Sorge su Planet Rock, ero molto attirato dalle ali progressive del genere con bands come Cynic, Dark Millenium, Atheist. Ad ascoltare oggi i newyorkesi Pyrrhon con questo mastodontico album, quei ricordi vanno in fumo, in una grassa risata, con la conseguenza che questo quartetto potrebbe dare un senso, se ancora può esistere, al genere.
Il fatto è che secondo me questo non è più death-metal, è una forma superiore. Tralasciando i growls del vocalist, che di fatto restano l'unico vero punto di contatto col passato, The mother of virtues è una colata rovente ed eccitante, che lascia ben poco fiato; fra mattanze doom, sfilacciamenti ritmicamente jazz, ripartenze sprint, orrori lisergici, schemi math-imprendibili, il trio è coeso all'impossibile nel tenere le fila di un suono elastico, propulso da uno splendido chitarrista, poco vanitoso e maniacalmente compulsivo. 
Da ascoltare più volte consecutivamente, senza comunque venirne a capo.

lunedì 26 settembre 2016

Rex ‎– Rex (1995)

Chiudo il discorso con il glorioso trio che tanto amai in vita e tutt'ora continuo a ritenere uno dei più grandi in assoluto del movimento post-folk e slowcore di un ventennio fa. Il primo omonimo, già su Southern, resta il loro disco lo-fi per non dire registrato con approssimazione ma in prospettiva fondamentale nell'aprire un varco che li porterà agli splendidi secondo e terzo.
Le loro cantilene sommesse e solenni erano già classici dopo un minuto, con l'incantevole Nothing is most honorable than you, la spettrale e spiritata Angel tune he hums, la saltellante ed accorata Come Down, con un'estraneo, This is a recording, che si direbbe out-take di Tweez degli Slint. Non lo ascoltavo da tanti anni, ma che cuore....