martedì 8 giugno 2010

David Sylvian - Blemish (2003)

Non proprio ciò che tutti si aspettavano da mr. Batt al tempo. Quindi, esattamente un bel colpo per una carriera che sembrava continuare a vivacchiare un po' di rendita dalle imprese degli eighties, passando per i gradevoli ma non proprio epocali anni '90, passando di palo in frasca negli ultimi 10 anni, con questa tappa di mezzo, Blemish, destinata a restare un caposaldo. Non proprio fra le più immediate delle musiche da lui confezionate: l'eleganza tipica resta soltanto nella suadente e profonda voce di sempre, è il contorno che sorprende: una fittissima nebbia ambient, arie rarefatte e polverizzate, abbattimento di qualsiasi ritmica e/o forma song, esemplare la title-track. Innanzitutto, Fennesz entra alla corte dalla porta principale, ed è un ingresso pesante. Così come la mano tremolante e nevrotica dell'acustica di Bailey; le dissonanze di The good son e She is not sono quanto di meno digeribile per i puristi della melodica. Che a loro modo dovranno accontentarsi delle scansioni di The heart knows better, e avranno qualche piccola rivalsa nel pezzo finale composto insieme a Fennesz, la solenne A fire in the forest. Non è più l'ambient serena e paradisiaca di Gone to earth, ma una forma di contaminazione moderna e coraggiosa per l'uomo, a dimostrare che sì ha sempre avuto bisogno di una mano forte, ma la classe non la si compra. Ce la si ha.

(originalmente pubblicato il 20/07/09)

Black Dice - Broken Ear Record (2005)

E' possibile non capire nulla da un disco? A me capita con questo, che non a caso è per orecchie rotte. Ed è senz'altro positivo: l'elettronica destrutturata, arzigogolata e cacofonica dei dadi neri è un ascolto quasi divertente nella sua globalità. Un mostro deforme che alterna stati d'animo alieni e sub-normali: la danza tribal di Snarly yow si dipana fra fischi carioca manipolati, frecciate di synth come krauters sfatti, e sfuma in una nebbia argentata di riverberi minimalistici. Ancora ritmi caracollanti nella geniale Smiling off; le cose migliori le si apprezzano dopo diversi ascolti. Gli incastri dissonanti sono formati da voci trattate, tastierine dai giri demenziali, brumose arie ambient, per un risultato finale assolutamente fuorviante. Sembra che abbiano campionato la storia della musica sperimentale degli ultimi 40 anni, rimasticato e sputato fuori come colori a caso su una tavolozza. Non c'è più nulla di tradizionale, si ascolti la chitarrina in secondo piano su Heavy manners, un loop fra i tanti. Non è che il risultato del lancio sia molto difforme su Street dude e Twins, al punto che alla fine il carnevale da centro d'igiene mentale di Motorcycle è una vera e propria boccata d'aria dopo l'apnea alla quale si è costretti precedentemente.
A loro modo, davvero simpatici; il risultato non è proprio un 12, ma in questo caso non è importante quanto le facce propositive.

(originalmente pubblicato il 19/07/09)

Bedhead - Transaction de novo (1998)

Non so se il confronto sia plausibile. La canicola opprimente di questa mediana estate si applica perfettamente all'ascolto dei ritmi pigri del disco che terminò la storia Bedhead.
Ritmi adatti ai movimenti sonnolenti che il caldo impone, alla minor soglia di concentrazione e voglia di movimento. D'altra parte il Texas è geograficamente collocato a latitudini ben temperate, e l'immane immobilismo dell'opening Exhume fa pensare ad una siesta ai confini col Messico. Smussate le (stra)applaudite acerbità di WhatFunLifeWas, passando attraverso la felice riconferma di Bedheaded, i Kadane bros continuavano a produrre delizie d'indolenza. More than ever è un altra insolazione a passo di lumaca, bava dissetante. Ci si ripara all'ombra di Half thought: l'arte del fondere 3 chitarre in una struttura perfettamente omogenea, l'opera di composizione che fa maggior fuoco sulla struttura più che sulle stratificazioni, riuscendo nel miracolo di non farle rimpiangere. Manifesto d'intenzioni Lepidoptera, manco volessero citare la brillante metafora dello scomodo critico che ne decantò le gesta per primo nello stivale dalle colonne di Rockerilla.
Si arriva a sera e c'è anche un po' di fresco: il power-pop di Extramundane e le abrasioni dinosaurminori di Psychosomatica (fatti salvi guitar-soli) fanno pensare ad una sorta di scommessa con loro stessi, sapendo di averla persa in partenza. Fortunatamente il tremolio rassicurante di The present pone la scritta The End con un ottica squisitamente positiva.
E il proseguio della storia non deluderà senz'altro.

(originalmente pubblicato il 16/07/09)

Animal Collective - Spirit They're Gone, Spirit They've Vanished (2000)

Il primo di una già lunga serie per gli AC, che difatto compiono un decennio di sperimentazioni post-melodiche schizoidi ed imprevedibili. L'evidente influenza dei Flaming Lips più fiabeschi in questa sede viene dilatata e deformata geneticamente, grazie ad un massiccio intervento dell'elettronica. L'uso di glitches e synth hanno la funzione di spine nel fianco che, unite ad un ispirato songwriting (splendida Chocolate girl) ed un esuberante gusto per gli arrangiamenti evitano i classici colpi di sonno che da una decina d'anni a questa parte mi procura Coyne.
In un certo senso, la versione psichedelica dei TV on the Radio. Pezzo migliore, la suite finale Alvin Row, un caleidoscopio che in 10 minuti sintetizza trionfalmente il disco.

(originalmente pubblicato il 15/07/09)

lunedì 7 giugno 2010

Band Of Susans - Love Agenda (1989)

Uno di quegli incroci curiosi fra sacro e profano: il fondatore della BOS, Poss, era cresciuto studiando avanguardia e poi quasi per scherzo messo su un quintetto con tre ragazze chiamate Susan. Per questo loro secondo disco, in formazione entrò un ragazzo che aveva studiato chitarra jazz ma si interessava al rumore. Era Page Hamilton, che subito dopo abbandonò e si precipitò a formare gli Helmet per sbancare i primi anni '90 americani.
In questa parentesi, i newyorkesi diedero alle stampe questo secondo, gradevole dischetto. Non avrebbero mai lasciato impronte indelebili sulla storia, e oggi sono dimenticati da tutti, ma perlomeno in Love Agenda ci sono alcuni ottimi spunti. Fondamentalmente erano una versione edulcorata ed atmosferica dei Sonic Youth: l'arsenale chitarristico era più che altro votato alle stratificazioni che ad incutere timori di sorta, e il songwriting era indeciso sul da farsi.
Una buona metà della scaletta è improntata su un noise-pop che non lascia grossi ricordi (eccetto la bella Birthmark, che curiosamente anticipa certo brit-pop del decennio a venire). Meglio gli esperimenti di The pursuit of happiness (una selva di feedback brucianti su ritmo angosciante e caballero), le spirali ipnotiche alla Loop di It's locked away, l'energica luminescenza di Tourniquet, il baldanzoso gothic-wave di Thorn in my side, il selvatico e tamarro street-rock di Which dream come true.
Peccato che l'equilibrio nel finale venga rovinato dall'imbarazzante cover dei Rolling Stones Child of the moon, chè me li fa spingere di nuovo nel dimenticatoio....

Skip Spence - Oar (1969)

Basta con le solite dicerie, e il Barrett americano, e lo sfattone, e il mito alimentato da un unico albo, e la morte in solitudine, eccetera. L'unica cosa che alimenta oggi Oar è il rimpianto del fatto che Spence abbia perso la testa e sè stesso; magari non avrebbe neanche bissato il livello di questo capolavoro, ma resta il beneficio dell'ipotesi (così come per i vari Green, Palmer e altri che non mi sovvengono ora). E allora ci si accontenta ben contenti e sazi della generosa riedizione expanded di una decade fa, che aggiunge una manica di inediti non indifferente.
La quale alimenta la fama di cantautore lo-fi ante-litteram, influenzatore di migliaia di gruppi a venire soprattutto negli anni '90. Le 10 tracce aggiunte sono decisamente abbozzate, ma ciò non toglie proprio nessun valore, tanto sono divertenti e pazzoidi, al punto che forse erano già degne di essere pubblicate (anche se forse ai tempi sarebbe stato un po' troppo eccessivo).
Il disco originale, invece, sta ancora lì a giganteggiare. La cosa più peculiare è la voce di Spence, che si divide in almeno tre stili: il falsetto convenzionalmente sixties del morbido acid-rock di Little hands, lo strascicato e flebile gemito dei country spiritati di Diana, e lo spettacolare baritono crooner di Cripple creek. E sono soltanto i primi 3 pezzi, che a seguire è una gemma dietro l'altra. L'esilarante vaudeville di Margaret, ancora country da anime perse in Weighted down. E nella fase centrale i pezzi più belli, con l'invito a volare di War in peace, l'intimismo indolente di All come to meet her, il blues-folk spettrale di Books of moses, ed un altro cabaret divertentissimo come Lawrence of Euphoria, tutti pezzi con un'alternanza fra vivace e scazzato, cosmico e polveroso, da sferrare un ko tecnico a Barrett.
Grey afro è lo sbragamento finale, una concessione alla jam space-tribaleggiante (jam per modo di dire, chè Spence registrò in completa solitudine) da centro di igiene mentale.
Geniale e deviante, Spence ha lasciato a questo mondo ingrato un vitalizio da conservare con cura ed amore.

(originalmente pubblicato il 13/07/09)

Ahleuchatistas - What You Will (2006)

Anche questi rientrano nei miei live mancati, passarono un paio d'anni fa all'Area Sismica ma non lo sapevo neanche, e il mio amico batterista me ne decantò le gesta con stupore ed ammirazione. I caroliniani rientrano in una schiera di originalità, nella quale il virtuosismo strumentale assurge a coesione di power-trio purissimo e sconvolgente. 14 quadretti strumentali rigorosamente composti, non trovo tracce d'improvvisazione nel rigore (attenzione, non formalismo) esecutivo. Occorre provare ad immaginare un incrocio fra i Don Caballero (quelli veri, con Williams), i Blind Idiot God e i Naked City per cercare di dare una lontana idea del sound, quindi; un bombardamento di controtempi, scale irraggiungibili, labirinti spigolosi, energia tecnica sparata a velocità variabili, alternata a qualche piccola fase di astrazione (vedi American Don) che aiuta a rendere divertente l'ascolto di questi simpatici ed irriverenti ragazzi.

(originalmente pubblicato il 12/07/09)

Appleseed Cast - Mare vitalis (2000)

Il vero punto di svolta per Crisci & co. Dal primo acerbo capitolo emo-rock presero un batterista più poliedrico e diedero spazio agli armonici, oltre che al songwriting.
Ed un passo verso i due dischi gemelli dell'anno successivo, anche se l'apice fu poi toccato con Two conversations. L'intro greve alla moviola di The immortal soul of mondo cani è una partenza slow-core che però dopo solo due minuti lascia spazio alla spumeggiante Fishing the sky, modello delle melodie solari ed epiche (non dico emo, che senz'altro mi manderebbero un colpo) con scarti di ritmo, sospensioni psych e ripartenze in flagrante. Mare mortis è uno strumentale per temporali estivi, riparandosi sotto le fresche frasche. Il disco scorre con una serie quasi ininterrotta di melodie azzeccate, nell'intercalare di umori agro-dolci e di tempo variabile.
Musiche per nerds che si sono fatti furbi e hanno fatto fruttare l'intelligenza oltre la media.

(originalmente pubblicato il 09/07/09)

Wire - Crazy about love (1983)

Un EP stranissimo per gli Wire, uscito in un periodo in cui erano belli e scomparsi. In realtà Crazy about love fu registrato per John Peel nel 1979, quindi siamo in epoca 154, alto tasso di sperimentazione, tensioni interne e fertilità creativa. La title-track è un mattone di 15-minuti-15 che si regge su profonde e cavernose linee di basso, attorno al quale si sviluppa un aria malsana e putrida, con percussioni sparse, vocals distratte e schizoidi, fiati deliranti; una jam che punta all'allucinazione più totale e sconclusionata, certo discutibile ma che a mio avviso sviluppa stati ipnotici interessantissimi. Per certi versi, l'equivalente all'ennesima potenza di ciò che fu Laughing per i Pere Ubu, con meno ironia.
Gli altri due pezzi sono presumibilmente outtakes di 154; Second Lenght spinge il piede sull'acceleratore, un rovinoso electro-punk che di fatto anticipa le tendenze della reunion verso la fine del decennio successivo. Catapult 30 chiude il trittico sconvolgendo ancora di più, con un grumo viscoso di caos totale, fra feedback e nastri al contrario, un autentica colonna sonora da girone dell'inferno.

(originalmente pubblicato il 08/07/09)

Wah! - Nah = Poo - The Art of Bluff (1981)

Del fantomatico Crucial Three con Cope e McCulloch che durò un mese, Wylie sarà quello che farà meno strada, o successo che dir si voglia. Complice forse anche quel voler cambiare nome del gruppo ad ogni disco, chè le qualità in fondo c'erano; più simile a Cope per il timbro vocale e la frizzanteria baldanzosa della musicalità, proprio in stile Teardrop Explodes. Questo debutto lungo dal nome bizzarro conteneva 8 pezzi grintosi, con ritmica tipicamente wave, chitarre fosforescenti, synth atmosferici e quant'altro poteva prevedere il programma. L'ascolto è gradevole, ma c'è fondamentalmente da segnalare che Wylie non aveva gli stessi colpi di genio di Cope nè la lussuriosa decadenza di McCulloch, pertanto resta un nome all'ombra dei suddetti giganti.

(originalmente pubblicato il 07/07/09)

Usa Is A Monster - Joshua Tree (2004)

Sono letteralmente sconvolto dalla notizia dello scioglimento di questo stupefacente duo, e ancor di più rammaricato di essermi perso la data che fecero ad Ancona neanche due mesi fa, purtroppo non ero a conoscenza del riprovevole fatto.
Un congedo che sembra un "missione compiuta": ora che il tirannosaurus Bush è tornato a casa, le contestazioni dei due lungocriniti hanno raggiunto l'obiettivo. Ma resta il rimpianto del termine delle cavalcate impossibili, di quei 5-6 dischi che con fantasia contorta allietano da anni i miei periodici ascolti. Joshua Tree è un capitolo indefinibile, anche biograficamente: un paio d'anni fa trovai un blog che miracolosamente donava anche singoli ultra-rari, titoli misteriosi non inclusi nelle discografie ufficiali, come questo che sospetto essere un piccolo pasticcio: una buona metà dei pezzi era inclusa in Tasheyana Compost dell'anno precedente, mentre Medley altro non è che la fulminea Open space dell'ep Masonic Chronic. Ma personalmente me ne infischio, ogni scusa è buona per farsi il mostro e i suoi mostruosi frutti; il caos matematico-ritmico sotto assoluto controllo è uno spasso dall'inizio alla fine. L'inizio soffuso di Crumble è solo un inganno; gli UIAM triturano ogni luogo comune del punk-metal, si beffano persino del prog-rock dal quale indubbiamente hanno attinto per le loro partiture impossibili e le armonie vocali che si incrociano beffarde. Impossibile citare i pezzi singoli, anche se personalmente reputo irresistibili For your love, Medley, Hillibilly (una reale presa per il culo al punk e ai Ramones).
E dopo ancora tantissimi ascolti, la mia reazione all'ascolto del duo è sempre una grassa e sana risata: non c'è niente da fare, mi mettono addosso un'allegria incontenibile. Grandi.
R.I.P to the monster.

(originalmente pubblicato il 05/07/09)

For Against - Aperture (1993)

(Serie: i dischi che avrebbero potuto segnare l'adolescenza come certi altri storici, soltanto che li ho scoperti dopo 15 anni!) parte 2.
Il trio di Runnings sembra avere sette vite come i gatti. Il recente ritorno di Shade side sunny side ha segnato un entusiasmante recupero delle sonorità dei primi due dischi, in cui impersonavano una sorta di Police gotici ed oscuri. La carriera dei For Against è stata segnata da lunghe pause, senza mai scioglimenti veri e propri; Aperture segnò un netto scarto al passato, facendoli etichettare come dream-pop, shoegaze e cose del genere. La realtà è che questo disco è una collezione miracolosa di splendide songs, la cui fruttuosa melodicità cozza contro un esistenzialismo mai represso. Senza neanche un orpello, con pochissimi e brevissimi assoli: quasi tutti i pezzi iniziano con la voce alla prima battuta, come a dire: la nudità delle composizioni è la cosa più importante. Don't do me any favour, Breathless, Nightmare life è il trittico iniziale che fa innamorare subito del disco. Sono canzoni per cui Robert Ciccio Smith avrebbe anche usato violenza per poter scrivere; l'atmosfera dilatata di Spent si invola pindaricamente con successo, l'hit mancata di I wish è un quadretto malinconico che più inglese non si potrebbe. Senza un attimo di stanca, il finale è quanto di meglio potrebbe riservare l'ascolto: You only twice è un altro potenziale brit-hit. Le ultime due songs spingono sul piede dello spleen; Today Today vive di un contrasto dolce-amaro che porta l'immaginazione oltre le nuvole, mentre la meditazione astrale di Memorial chiude trionfalmente con la miglior composizione in assoluto dei For Against,
facendo venire voglia di riprendere Aperture dall'inizio un altra volta.

(originalmente pubblicato il 05/07/09)

domenica 6 giugno 2010

Bachi Da Pietra - Tarlo Terzo (2008)

Con la fine dei Madrigali Magri l'Italia perse una delle sue espressioni più originali di fine millennio, ma fortunatamente non la loro anima. I BDP sono la loro prosecuzione naturale, grazie alla mai sopita e sottile abilità di Succi, che si conferma artista di primissimo livello.
C'è una leggerissima accessibilità in più, negli schizzi di adesso. La voce è sempre un sussurro sibilante e molto poco udibile, ma proprio perchè le parole vanno carpite, nella loro interezza. Sembrerebbe una strategia neanche troppo arguta, ma in realtà è tutto molto funzionale al risultato finale, chè questa trattasi di arte povera, nell'impianto e nell'esecuzione. Però è incredibilmente ricca nel saper creare scorci, sfondi, situazioni suggestive seppur in maggioranza scuri, fumosi, se non inquietanti. Non trovo neanche sensato azzardare qualche influenza, qualche riferimento del passato, anzi non lo trovo proprio giusto.
Dorella tiene in piedi i ritmi spettrali e catatonici in modo millimetrico, assolutamente splendidi i suoni sabbiati delle sue pelli. Succi snocciola pochi giri e/o bicordi per pezzo, in alcuni imbraccia un basso. Rispetto ai MM c'è meno nebbia, meno Monferrato. Qui ci sono più interni, arredi e ispezioni, perquisizioni umorali, minimalismo che gira e arte rilasciata a basso dosaggio.
Tarlo terzo è inscindibile. Una volta iniziato ad ascoltarlo, non mi è possibile tornare indietro nè stopparlo, perchè lo sento come un flusso emotivo inarrestabile. Menziono soltato Dal nulla nel nulla, forse il miglior pezzo che Succi abbia mai composto, con quel giro sospeso che mi si imprime indelebilmente.
Tessuto pregiato nazionale.

Xiu Xiu - A promise (2003)

L'intro è deviante; un giro dolente di chitarra acustica e compare il gemito singhiozzante di Stewart. Ma in tutto l'arco del disco di chitarre non ce ne sarà quasi traccia. Se può esistere un concetto di musica del teatro dell'assurdo psicopatico, è impersonato dagli Xiu Xiu. Ovvero una sorta di Virgin Prunes al bromuro, senza pressochè intenzioni melodiche, senza impianto tradizionale, con un vocalist in perenne stato di trance, in mezzo a qualche ritmo sintetico, ogni tipo di percussioni e tastiere. L'intento è produrre una musica che prima di tutto punta all'ossessione con un approccio indiretto, che rimanda alle cose più estreme della wave sperimentale (il canto di Stewart è chiaramente mutuato da quel periodo) ma guarda anche all'attualità, come i dischi difficili dei Radiohead (20.000 Deaths ricorda vagamente la title-track di Kid A) ed a sua volta influenzerà altre cose a venire come i Liars. Ciò che impressiona maggiormente sono i vuoti pianistici di Walnut house, le agonizzanti dissonanze di Brooklyn Dodgers, il mini-percorso di Sex Redux fra minimalismo synth-voce e gli archi da dopo-bomba.
Ma è la coesione del tutto che, oltre che far sembrare A promise un concept-album, sancisce la personalità enorme e deviata di Stewart.

(originalmente pubblicato il 05/07/09)

Wilco - Yankee Hotel Foxtrot (2002)

Il miglior capitolo di Wilco, un mosaico strettamente rustico ma con un deciso intervento produttivo, che condurrà il leader Tweedy alla futura collaborazione con O'Rourke nei Loose Fur.
Ciò che più convince in YHF è la capacità di sfornare gustosi quadretti sleazy con un melodismo a tratti irresistibile (War on War, Heavy Metal Drummers) con commistioni elettro-ambientali (la splendida Ashes of american flag, la conclusiva Reservation che è ambient a tutti gli effetti), in un contesto che non riserva impennate d'orgoglio ma un tenue galleggiare in questo sub-strato prettamente yankee con le dovute innovazioni. Aggiungiamo poi che la qualità media delle songs è alta, e ne esce un disco che si fa ascoltare ancora con molto piacere.

(originalmente pubblicato il 04/07/09)

Pissed Jeans - Shallow (2005)

In spasmodica attesa del terzo disco in uscita il mese prossimo, un breve excursus sul debutto lungo degli attuali campioni mondiali in carica del noise-rock. Hope for men è gradualmente cresciuto di frequenza nei miei ascolti e di valore nel tempo, e mi aspetto molto dai ragazzi anche sotto il profilo della maturazione. Shallow comprendeva il validissimo bassista originale che avrebbe abbandonato subito dopo, e forse è un prodotto ancora acerbo nel suo complesso: le influenze di Flipper e Black Flag sono evidenti ma venivano travisate con la consapevolezza degli anni '90. Il chitarrista Fry già sugli scudi con le sue sciabolate ultra-taglienti, il pazzo vocalist Korvette a metà fra Rollins e Yow, la sezione ritmica chiassosa e petulante, non siamo di fronte ad imitatori ma a brillantissimi rielaboratori. La galassia Chrome di Wachovia, le folli corse di I'm sick e Little Sorrel, le sbeffeggianti Boring girls e Closet Marine, il basso penetrante di I broke my own heart, tutto sta a dimostrare le radici grunge-punk progredite in una forma aliena e ultra-violenta. Ma non sono nulla di fronte ai due capolavori piazzati a meno di metà del disco, estremi fra di loro: Ashamed of my cum è un giro irresistibile da affiancare alle imprese migliori degli Scratch Acid, mentre i 7 minuti di Ugly Twin mixano la teatralità degli Oxbow con le pesantezze dei Melvins in modo incredibile, con tanto di coda pianistica impeccabile, che fa sfumare il pezzo con un sentore elegante e la strana impressione di essere di fronte a dei piccoli geni metropolitani.

(originalmente pubblicato il 02/07/09)

sabato 5 giugno 2010

Babes in Toyland - Fontanelle (1992)

Del movimento cosiddetto riot girls, tanto in voga ai tempi del grunge del quale sembrava essere la risposta femminile seppur molto più tendente al punk che altro, le BIT sono l'unico gruppo che vale la pena di ricordare, specialmente per questo disco. Piccola nota memoriale: ricordo come veniva pompato da certa stampa, quanto si diceva che facessero paura queste ragazze incazzate come delle iene. Ora retrospettivamente si può dire che fu un fenomeno abbastanza limitato e artisticamente inferiore alla media, ma il riascolto di Fontanelle merita senz'altro un orecchio di riguardo.
Erano un power trio dalla tecnica limitata ma con tante idee interessanti. La frontman e autrice Bjelland era una Cobain bionda dall'apparenza angelica, pare con un passato travagliato e pieno di sofferenze. La sua voce era l'elemento di punta: un ruggito furioso e possente, modulato alla perfezione, e peraltro anche molto bella in timbrica naturale. La co-fondatrice Barbero era una batterista primitiva e minimale, ossessiva sui tom e sui timpani più che sul resto.
Fontanelle è ricco di variazioni sul tema principale della sfuriata hardcore che qui trova gli highlights in Right now, Blood, Handsome & Gretel, e Mother, peraltro già irresistibili in essi stessi. Il disco cresce perchè ci sono: il bucolico strumentale di Quiet room, il baccano complesso di Jungle Train, il noise-blues di Pearl.Come mio solito tengo i pezzi migliori per chiudere il discorso: Gone è ballad elettrificata con spaccamento di bottiglie di vetro dai vocalizzi parossistici. Real eyes suona come se Siouxsie fosse nata a Seattle nel 1970, grezzo pre-wave di assoluto valore. E soprattutto Spun, spettrale blues dalle alternanze piano / forte con una grandissima Bjelland, che qui eguagliava le cose migliori della Lunch.
E non era proprio poco.

venerdì 4 giugno 2010

Aufgehoben - Messidor (2006)

Qualche mese fa, leggo la superclassifica del decennio dei recensori di Blow Up e scruto interessato quella di SIB. Scorgo così questi inglesi dal nome tedesco, ormai attivi da un decennio e con gli ultimi due dischi approdati alla Holy Mountain che così continua a dimostrare tutta la propria lungimiranza ed apertura mentale nei confronti di cose davvero poco convenzionali.
Trattasi di quartetto composto da: 2 batteristi / percussionisti /percussori di qualsiasi oggetto che possa produrre rumore ma anche con fine intelligenza, un addetto ai power / glitches electronics ed un illustre chitarrista di avant jazz tale Gary Smith, che in una carriera ormai ventennale vanta persino collaborazioni con Hopper dei Soft Machine.
Ma definire gli Aufgehoben non è semplice: se esistesse una sintesi umana fra il free-jazz, l'industrial e lo space-noise, ci si potrebbe anche avvicinare. Ma la realtà è che questi 7 blobs catastroficamente informi sono tutto fuorchè umani, e finiscono per incutere un terrore costante coi loro sciami sismici e le ondate di rumore che si alzano e si abbassano. Sembra un percorso di guerra, Messidor. A volte si cammina a passo di leopardo (Co anima) mentre i clangori di deflagrazione sono abbastanza lontani, ma la calma è un concetto che non potrebbe essere più lontano da qui. Le percussioni, che siano mitragliate a tutta batteria parossisticamente o martellate a mo' di effetto industrial/concretista, svolgono il ruolo di spartiacque fra le varie fasi di eruzione e lento spargimento di magma, esplosioni di granate e fruscii di millepiedi meccanici, grugniti robotici e sbrodolature sintetiche, in un contesto talmente out che è impossibile persino assegnare, che ne so, un colore pertinente o un mood.
Quasi sicuramente è impro al 100%, e dire che è spiazzante non è raccontare nulla. Di certo gli Aufgehoben rappresentano una deriva di originalità estremista che non si può fare a meno di ammettere: questi sono veramente avanti....

Van Morrison - Astral Weeks (1968)

Ammetto, questo è l'unico disco che conosco di Morrison. Lo comprai per quel voto ingombrante dell'ingombrante giornalista. E per carità, è molto bello: il vocalizzare nasale dell'irlandese si inerpica in vette soulful davvero notevoli, gli arrangiamenti sono splendidamente orchestrati in direzione folk-jazz acustica, le songs sono armoniose ed avvolgenti.
Nel genere, per me c'è sempre soltanto stato Tim Buckley a fare la differenza, ma se proprio devo eleggere un vice, c'è il rosso delle settimane astrali; fautore di questo viaggio nelle campagne dell'Eire, che ricorda carovane immerse nel verde un secolo fa.

(originalmente pubblicato il 25/06/09)

Album Leaf - In a safe place (2004)

Non è tutto oro ciò che luccica, e Lavalle mi sembra un ottone della categoria.
Non ho mai capito il perchè di tutto questo clamore attorno a In a safe place, che in fondo è un discreto disco di sottofondo folk-ambient, ma nulla che meriti più della sufficienza. Il chitarrista dei Tristeza si rilassa nei geyser islandesi per dare vita ad una inflazionata raccolta di electro-glitches impastati con strumenti tradizionali, per un idea che non regge il confronto con i fuoriclasse della categoria. Colpa del songwriting, fiacco e scontato; non serve la presenza di Jenkins in due brani (chè in fondo è il motivo per cui mi sono avvicinato al disco), nè le alternanze di drumless space con qualche beat elettronico, nè le brevi sortite pastorali con archi e fiati che vorrebbero rendere più umano il feeling, scialbo e senza impennate che scuotino l'ambient(e).

(originalmente pubblicato il 23/06/09)

Black Keys - Magic Potion (2006)

Ha ancora senso fare blues-rock negli anni zero? Con la pretesa poi di essere alternativi?
Ok, a meno che non si faccia parte di quella schiera di vanitosi impenitenti che hanno un pubblico aggiornato al 1976, o maniacalmente legato agli aspetti tecnici e virtuosi dimenticandosi il lato artistico della musica. I BK in realtà provengono da un humus molto garage-punk, sebbene questo lato sia stato sotterrato col passare dei primi dischi. La schiera di personaggi illustri che si dichiarano fan e certi inserimenti su spots non hanno fatto altro che alimentare l'attenzione verso il duo americano, per certi versi affine ai White Stripes. La mancanza della forza normalizzatrice del basso è un simbolico aiuto a preservare Magic Potion da una banalizzazione comunque vetusta come il cucco. Non ci sono grosse varianti nel corso del disco; si fa apprezzare la bella voce di Auerbach, che in certi frangenti ricorda addirittura Rodgers dei Free. Ma al 90% sono riff post-zeppeliniani (e se dico post significa riciclati dai post-riciclatori) che non inventano nulla. Non basta a salvarli un'interpretazione viscerale e pasionaria.

(originalmente pubblicato il 21/06/09)

Arab Strap - Mad for sadness (1999)

Rientrano nella schiera ristretta dei gruppi del mio cuore, e ne rimpiango lo scioglimento. Specialmente alla luce delle prove post-split non proprio memorabili dei due bardi dell'emozione povera ma ricca. A dimostrazione che la coppia era perfettamente coesa e capace di produzioni che mi hanno personalmente segnato fasi ben distinte della vita.
Mad for sadness fu un live, inizialmente pensato come congedo dalla Chemikal Underground prima di un ben presto abortito approdo su major e il ritorno alla home page. Ma guai a ritenerlo un riempitivo, perchè questa fenomenale esibizione in un teatro di Londra nel 1998 è quasi in grado di oscurare gli estratti di studio. Le rendition trovano maggior attenzione per variazioni significativamente esaltanti: gli orpelli elettronici che comunque rendevano grande il recente Philophobia lasciano posto ad un live crudo con gli strumenti essenziali, con Moffat e Middleton in forma stellare, ben supportati da Gow e Miller, e con i cameo sensuali della Bethel nei panni della rivale amorosa. L'apertura ambientale di My favourite muse regala subito brividi di lussuria e i luridi racconti di Moffat rendono il concerto qualcosa a mezza via fra una lettura di poesie e la vivisezione di un cuore umano. Toy Fights guadagna profondità e spazio con i riverberi cosmici di Middleton, una Piglet spogliata da ogni tipo di tastiere rivela il valore del songwriting. Il minimalismo esistenziale di Blood sembra non portare da nessuna parte, ma è ipnosi catartica.
Il melodramma a due voci di Afterwards riserva un inaspettata impennata di chitarra distorta, col rosso addirittura lanciato in un breve assolo. Esplosione annunciata sull'amarissima New Birds. Non rinunciavano comunque ala drum-machine nei frangenti ultra-classici della confessione etilica di Here we go, l'ex acustica Phone me tomorrow e nel tormentone post-slintiano di Girls of summer, in cui l'indiavolata escursione techno di mezzo trasforma per un attimo il teatro in una cupa discoteca di anime perse. Alla fine del pezzo, Moffat rivela il suo livello di saturazione di birra con la declamazione "I wanna have sex on the beach".
Dall'edizione originale del cd restarono esclusi due pezzi (probabilmente il bis) che ho recuperato da qualche fan: la versione metallica di I would've liked me a lot last night e la maratona paludosa di Deeper, con un'altra esplosione fuzz di Middleton non annunciata.
A dimostrazione che erano meglio live che in studio (e mi sento di dirlo in quanto possiedo parecchi bootleg), Mad for sadness è il miglior greatest hits possibile del primo lustro di carriera degli scozzesi, seducente almeno quanto la fascinosa amica Alidih, intenta a distribuirsi rossetto sulle labbra nella cover.

(originalmente pubblicato il 21/06/09)

Screaming Tress - Buzz factory (1989)

Fa un certo effetto sentire Lanegan cantare con tanta decisione sopra all'hard-rock acido e aspro degli Screaming Trees, alla luce del crooner folk che è diventato negli ultimi 10 anni.
E fa pensare che il giovane lungocrinito era già un bravo vocalist in grado di farsi notare per il timbro profondo e catramoso, ma di certo non era l'ambientazione giusta per fare luce sulle inflessioni e le sfumature che sarebbero emerse nella carriera solista.
Pertanto, a 20 anni di distanza mi viene da concludere i fratelli ciccioni Van Conner non hanno dato vita ad un gruppo in grado di marcare a fuoco la storia di Seattle, figuriamoci della storia. Buzz factory era una tappa di mezzo, che li avvicinava comunque alla loro vetta espressiva che sarà un par d'anni dopo Sweet oblivion. Nulla di irresistibile, forse appetibile alle masse di flanellati che stavano aumentando esponenzialmente, nulla a che vedere con Nirvana o Soundgarden. Qui gli ST erano una band senza troppa fantasia, in grado di fare 11 pezzi più o meno tutti uguali, al termine dei quali non resta quasi nessun ricordo tangibile.

(originalmente pubblicato il 21/06/09)

Swell - Room to think (1993)

A volte capita di amare, nella discografia di una band, un EP preso a sè stante piuttosto che un album intero. E' il mio caso per gli Swell, che nella prima fase della loro carriera erano un trio molto ispirato nel realizzare un rock campestre e alquanto slacker, in cui il songwriting e il canto fragile di Freel era importante quanto il fragoroso drumming di Kirkpatrick, in primo piano nel mixing finale. Comunque Room to think è un 5-tracks che esemplifica la vena più grintosa dei californiani, in cui le nervose ballads sono spogliate da ogni velleità commerciale preferendo spigolosità elettro-acustiche.
In prima fila, il pezzo migliore di tutta la loro discografia, At long last: una sferzata spettrale in cui Freel alterna una sbilenca acustica a frustate caustiche di elettrica, con una progressione vincente.

(originalmente pubblicato il 19/06/09)

At The Drive In - In Casino Out (1998)

C'era qualche semino indicatore di ciò che i due riccioloni Bixler e Rodrigues sarebbero diventati qualche anno più tardi con il mostro Mars Volta. Per allora gli At the drive in erano un buon gruppo di hardcore degnamente aggiornato agli anni '90, con l'appeal sufficiente per attirarsi masse di fans che poi arrivarono puntuali con il successivo e conclusivo disco. Sì perchè durarono pochi anni, i texani, e ricordo lo sconcerto di qualche giornalista evidentemente fan che appresa la notizia, ne diede un bollettino funereo al riguardo (credo fosse di Rumore).Comunque, a mio avviso nulla di memorabile. E' un disco molto gradevole con alti e bassi, potente ma non violento, che inizia con due inutili scimmiottature dei Rage Against the Machine (Alpha Centauri e Chanbara), poi cerca di stabilire un contatto un po' incerto fra l'indie rock e i Fugazi (Hulahoop wounds, Pickpocket). Ma che poi si riscatta con qualche perlina: l'ispiratissima Napoleon Solo sembra mutuata dai grandi Van Pelt appena disciolti, la scura A devil amongst the tailors che ricorda i Black Flag di mezzo, la Lopsided che ha movenze quasi pop. Il finale sfoggia due pezzi contrastanti con il resto. Hourglass altro non è che ballad appena appena più lineare dei Death Cab For Cutie, e la Transatlantic Foe che azzecca un gran giro alla Modest Mouse elevati all'ennesima potenza.

giovedì 3 giugno 2010

Red House Painters - s/t aka II aka Bridge (1993)

Non potevo non completare la trilogia stellare. Non mi sarei mai sentito a posto, e potrei quasi dire che dopo questo qua, il blog si può anche chiudere e mi sento realizzato....
Bridge fu il primo cd che comprai dei RHP, e l'amore scoppiò subito, incondizionato, senza vincoli, immortale e inattaccabile da qualsiasi cosa. E pensare che, detto papale papale, era un disco di scarti di Rollercoaster, ma il buon Ivo sapeva perfettamente quale razza di crimine umanitario avrebbe commesso se non avesse pubblicato queste 8 gemme preziosissime.
Per descrivere le canzoni di Kozelek ormai ho finito tutti gli aggettivi, tutte le parole o i luoghi comuni adatti al fine. Eppure ogni pezzo ha una sua identità ben distinta: la velenosa e viziosa ballad di Evil, la compostissima ed elementare Bubble, la radiosa cover di Simon I Am a Rock, la stasi ultraterrena di Helicopter, la grintosa ripresa elettrica che fa solo bene a New Jersey, la disperata cantilena di Uncle Joe, la rabbrividente suite Blindfold (talmente ad effetto che il finale fa ancora drizzare i peli delle gambe), i feedback della passionale rendition di Star Spangled Banner.
Il mondo era un posto un po' migliore, visto dall'ottica di Kozelek. C'era solo luce alla fine del tunnel, che poi sia stato lungo e difficoltoso, solo io so quanto ho amato e continuo ad amare le canzoni di quest'uomo fino al 1995.

(originalmente pubblicato il 11/06/09)

Madder Rose - Panic On (1994)

Freschi e dissetanti come una limonata ghiacciata d'estate.
Nonostante una velatissima dose di spleen esistenziale, così si presentava il quartetto californiano dei MR. Un po' Juliana Hatfield, un po' shoegazers, un po' Mazzy Star, sommavano un power-pop convincente in questa raccolta di 14 pezzi in cui non trovo evidenti punti deboli.
Fin dall'entrata fragorosa di Sleep forever, si capisce che i ragazzi avevano un songwriting che faceva la differenza. Merito del chitarrista Cotè e della vocalist Lorson, in possesso di una squillante voce adolescenziale dal fascino irresistibile.
E' facile perdere il conto delle canzoni che si fanno amare dal primo ascolto, ma un breve sunto si può far partire dalla velvettiana Car Song, dall'atmosferica title-track, fino alle quasi punk Drop a bomb e Ultra-Anxiety, alla malsana Happy new year, fino ai riflussi psycho-rumoristici di Mad Dog.
Rientrano nella schiera di bands che avrebbero meritato tanto successo.

(originalmente pubblicato il 17/06/09)

Lucio Battisti - Anima Latina (1974)

Adesso è uscito persino un libro, e alleluja, finalmente sono passati 35 anni e qualcuno si è deciso a rendere tributo all'apice monumentale del maestro. Non vedo l'ora di leggerlo, e scommetto che Stefanel non sarà il Di Cioccio rompicoglioni di turno.
Nella mia lista fantomatica dei 10 dischi da isola deserta Anima Latina c'è, è d'obbligo tassativo. C'era stata una preparazione meticolosa nei dischi del post-beat, splendidi e tutto ma lievemente incompleti nel complesso, con qualche punto debole in qua e in là. Qui invece c'è il maestro che proietta la sua visione del prog-rock, la stravolge e degenera, elaborando qualcosa di mistico, spirituale ed al tempo stesso ambiguo e lussurioso, con un Mogol mai così criptico e sessualmente attivo.... Inutile cercare di trovare etichette, dato che il disco io personalmente lo definisco un concept, un flusso allucinogeno che ha un suo filo conduttore, un'esplorazione della psiche ma anche molto fisico, un vero e proprio labirinto di sintonizzazioni. Logico che dopo un opera così non sarà più possibile ripetersi, e dopo un par d'anni si cambieranno le carte in tavola, la classe sarà sempre la stessa ma impiantata su altre coordinate.
Come detto, definire prog è assolutamente limitante ma può rendere l'idea; gli ospiti sono fenomenali e ben calibrati, le scelte fatte col pennello. Solo per citarne alcuni, Callero, Maioli, Dall'Aglio, Pascoli e gli altri sono fondamentali nell'approfittare della libertà concessa per attingere alle tavolozze più fantasiose, con quel famoso feeling sudamericano che strania, sembra prenderti in braccio ma viscido ti fa girare l'angolo e ti fa sprofondare in una nebbia ambient, o in una foschia psichedelica, o un epico passaggio prog, o bucolicismi acustici, o brevi schizzi funk.
Abbracciali Abbracciali Abbracciati parte coi suoi toni eterei, ed è un invito a rilassarsi prima di affondare nel gorgo. Due Mondi è forse l'unica concessione al pop, il duetto con la Cubeddu e il ritmo baldanzoso. Poi il primo bivio misterioso: Anonimo è una ipnosi destrutturante, dai toni cupi e dalla coda che irride I giardini di Marzo, dimostrazione di auto-ironia impareggiabile.
Gli uomini celesti è diretta emanazione del viaggio fatto con Mogol poco tempo prima, irradiata da fulgori di hammond e rhodes, introdotta dai sapienti tocchi acustici di Luca.
Si girava il vinile e c'era la title track, che trasudamerica da tutti i pori, un carnevale di suoni che fa sbandare il viaggio, riporta sui binari, poi deraglia di nuovo, fino a fermarsi al capolinea di Rio.
Il salame è Mogol che torna bambino, con le prime pulsioni sessuali, l'appetito e un arrangiamento oscuro che stride con la vignetta creata. La nuova America è funk fiatistico.
Il finale è da brividi: nel La macchina del tempo la voce del maestro è trattata, le parole non si capiscono, una soundtrack da film dell'orrore, fino all'apertura; le pause angoscianti, gli angoli acuti ed ottusi, tutto il pezzo è il riassunto di AL, un solco tracciato dal filo d'Arianna. Una sola smagliatura e ci si può perdere.
La chiusura strania come lo fece Il fuoco di un paio d'anni prima: Separazione naturale è quasi un proposito d'intenti, dopo questo grumo strumentale sconcertante non c'è più nulla salvo il polo, o le pampas argentine, o la cordigliera delle Ande.
Poi il deserto.

(originalmente pubblicato il 16/06/09)

Love - Forever Changes Concert 2003

La cosa più bella e, a modo suo, commovente che Arthur Lee potesse fare è compiere questo passo per nulla patetico o nostalgico, che in qualche modo assomiglia al percorso dei salmoni, purtroppo per lui; un par d'anni dopo questo ritorno alle origini, morì di malattia.
Ed è così venuto a mancare un uomo dall'esistenza tormentata, perennemente agitata, con poche impennate ma con un eredità gigantesca lasciata a tutti i posteri; uno dei più bei dischi della storia dei '60 e non solo, Forever Changes.
Dopo gli esordi garage-psichedelici, un successo soltanto sfiorato (destino ingrato, la leggenda racconta che proprio Lee insegnò qualche trucco chitarristico ad un giovane di nome Hendrix), la svolta orchestrale. L'amico Allelimo, leggendo la mia personalissima superclassifica degli ultimi 40 anni, è restato stranito dal fatto che nel 1967 non avessi messo Velvet Underground, bensì Forever Changes. Ma il cuore è sempre il cuore, il cervello in questi casi viene dopo....
Dopo 36 anni Lee decise che, in mezzo a tutti questi revival, non poteva esimersi anch'egli dal riprendere il timone del proprio capolavoro e diffonderlo, in grande forma, in questa tourneè qui ripresa. Non c'era certo bisogno di stravolgere nulla, occorreva soltanto diffondere ai novizi ciò che è stato criminalmente nascosto ai più. Dei Love originali nessuna traccia, però c'è un'orchestra completa a svolgere il proprio dovere, una band che suona moderna anche se l'impianto è originale, e soprattutto ripeto un Lee in splendida forma.
La scaletta è l'originale del disco: un applauso del pubblico, il silenzio e il leggendario arpeggio di Alone again or fa accapponare la pelle all'istante e scoppiare le vene dei presenti. Non ci sono parole per descrivere l'emozione che soltanto le grandi song immortali come questa sanno regalare. Poi si viene travolti dall'energia di A house is not a motel, dall'indelebile dolcezza di Andmoreagain, dall'agilità frizzante di Daily Planet, dall'epico sinfonismo di Old Man. E ancora pelle d'oca con l'apice assoluto, The red telephone, un pezzo che mi commuove letteralmente al millesimo ascolto, con oltretutto un'accenno di jam all'urlo Freedom. Poi la B-side e la magia prosegue incontrastata, Maybe the people, Live and let live, Good humour man, You set the scene, ma ho già esaurito le parole.
Le sorprese stanno nel bis, con 4 bonus trax che non emozionano meno: il punk ante-litteram di Seven and seven is, l'imponenza di Your mind and we belong together, il blues spettrale di Signed D.C., il rollare beffardo della mitica My little red book, sono perle generose che si mettono in coda senza assolutamente sfigurare di fronte al capolavoro dei capolavori.
Rest in peace, mr. Arthur "Forever Changes" Lee.

(originalmente pubblicato il 15/06/09)

Lorna - Static Patterns And Souvenirs (2005)

Pop da camera con venature shoegaze per il quartetto inglese dei Lorna, in questo quadretto colorito e sonnolento che ispira un po' tutte le stagioni, oltre a generare tanti pensieri di paragone.
Alla voce si alternano un maschio (discreto e sensibile) ed una femmina (soffice ed eterea), quando si incrociano sembrano quasi dei Low con un orchestra lounge dietro. Il parallelo coi Cocteau Twins o Cowboy Junkies è più plausibile quando la Cohen soffia delicatamente su armonie lente, vagamente malinconiche e iper-arrangiate pur mantenendo lo stile prettamente autunnale.
Un dischetto che piacerà anche ai fan di Lofty Pillars e Pinetop Seven per le orchestrazioni, ai fan dello slow-core per le composizioni struggenti ed invernali, ai fan dello shoegaze (rif. Slowdive) che resteranno incantati dalle melodie, seppur un po' anestetiche, dei Lorna.

(originalmente pubblicato il 12/06/09)

Le Luci Della Centrale Elettrica - S/T 2007

Secondo me non è corretto definire Brondi come un tipo incazzato o frustrato o incarnatore delle inquietudini giovanili di questi anni s(g)(t)raziati. Con quelle basette sembra un rockabilly fuori tempo massimo, e le sue doti liriche sono qualcosa di inconfutabilmente nuovo ed esaltante. Il linguaggio del ferrarese è un acutissimo mix di volgarità e filosofia quotidiana che raggiunge effetti mirabolanti, e non a caso è il centro di tutto, chè l'aspetto musicale è puro e discreto contorno fatto con mezzi poverissimi. Canzoni fatte con due accordi di acustica (quasi sempre in minore), salvate in corner dal provvidenziale contrappunto elettrico di Canali, che perlomeno svaria un attimo e butta lì due-tre colori sopra al b/n.
E la voce? Brondi è uno specchio riflesso sulla sua anima di maudit degli anni Zero, che nulla ha a che fare col senso classico della parola. Un Gaetano neanche troppo intonato, che passa dal basso confidenziale allo shouting cartavetrato, procurando sismi di notevole portata emozionale.
Musicalmente il pezzo più riuscito è Candidosi, che raggiunge un climax quasi cosmico nel chorus. Molto belle anche la fatalistica La gigantesca scritta Coop, la furiosa Fare i camerieri, la disperata Arrivava via internet la sera, la caustica Piromani si muore. Ma sono solo piccoli dettagli, perchè il maggior pregio di Brondi è di comunicare stati d'animo che sono reali, vissuti, senza alcuna rete di protezione: e tutto senza nessun secondo fine, soltanto con l'intenzione di raccontarsi con un umanità che fa quasi spavento, e con un linguaggio che non lascia tregua un attimo.
Mi aspetto un libro prima o poi, e mi tornerà la voglia di leggere, magari...
(P.S. questo è il demo del 2007, non Canzoni da spiaggia deturpata: anche se la maggior parte delle songs sono comuni, sono due cose molto diverse....)

(originalmente pubblicato il 11/06/09)

Jethro Tull - Heavy Horses (1978)

Fuori tempo massimo, in pieno punk, i Tull sfornavano uno dei 3 loro migliori albi in assoluto, dedicato ai cavalli da soma e lavoro dell'Inghilterra. Una vera sferzata e colpo di coda al torpore che da qualche anno aveva assalito Anderson, con i modesti 3-4 dischi precedenti. Invece Heavy Horses risveglia certi dinamismi che avevano infiammato l'inizio del decennio, senza ovviamente perdere di vista la classica raffinatezza e complessità degli arrangiamenti. Innanzitutto la suite della title-track, oggettivamente uno dei momenti più alti in assoluto di tutta la carriera dei JT; senza eccedere in magniloquenza, Anderson tira fuori una fantastica composizione, avvincente e melodrammatica. La potenza deflagrante di No lullaby, la litania circolare di Rover, la malinconia di Weathercock, questi gli highlights di un disco bellissimo che ovviamente non disdegna le varie folk ballads da sempre pallino di Anderson. Come da copione eterno, non è superfluo sottolineare l'indispensabile contributo degli assi dietro al leader, con il solito Barre a lanciare scaglie elettriche, Glascock al basso pennato e penetrante, Barrymore alla batteria millimetrica, Evans e Palmer alle tastiere e arrangiamenti orchestrali.
Cavalli pesanti, cavalli di razza purissima.

(originalmente pubblicato il 10/06/09)

mercoledì 2 giugno 2010

Long Fin Killie - Valentino (1996)

Indie-Prog? Soltanto sulla valente Too Pure potevano manifestarsi i LFK, una delle band scozzesi più originali degli ultimi 20 anni. Nei meri 5 anni di esistenza il 4-piece ha pubblicato 3 dischi, con zero titoli sui newspapers e pochissimi riconoscimenti. Davanti ad un capacissimo trio rock convenzionale il leader polistrumentista Sutherland spiccava per doti non comuni: la capacità di suonare svariati strumenti che tipicamente non hanno legame con l'indie, specialmente quello inglese, conferivano al sound una malcelata componente progressive, anche se comunque imbevuta in una robusta corazza, contenuta nei formati song. La voce poi, era altrettanto singolare; una specie di incrocio fra il David Thomas meno deviato e il Schulman dei Gentle Giant, forse l'unico piccolo punto di tangenza col prog reale. Valentino è una filata sfrizzante dai toni semi-crepuscolari, piena di luci ombre, vuoti-pieni, in cui le sferzate chitarristiche di Cameron mantengono innovativo lo spirito fantasioso di questa meteora colorita dei mid nineties.
Da ricordare.

(originalmente pubblicato il 09/06/09)

Jane's Addiction - Ritual de lo habitual (1990)

Chiamare in causa i Led Zeppelin quando si parla dei JA fu un paragone davvero scomodo, del quale si può trovare più di un nesso. Rischiarono di diventare un fenomeno mondiale come i contemporanei Guns And Roses, rispetto ai quali denotavano un maggior eclettismo e apertura delle atmosfere. E discorsi sterili a parte, Ritual de lo habitual è ancora un gran disco, punto e basta. L'ideale ponte fra '80 e '90, con la tipica componente funk che non cazzeggia come i Red Hot Chili Peppers, si decanta un po' nella propria auto-compiacenza ma colpisce dritto al centro; il vertice del disco, Three Days, è un viaggio articolato in cui si passa da oscurità gotiche ad esplosioni hard in un succedersi di eventi alquanto avvincente. Le inarrestabili corse funk-metal di Stop e No one's living aprono nel segno più violento possibile, ma è un rompere il ghiaccio preparatorio. Ain't no right inizia come una outtake di Metal Box o Flowers of romance dei Pil, ma ben presto i JA tornano a graffiare: la mitraglia di riff di Navarro, le puntine acuminate di Farrell, la ritmica folle e turbolenta di Perkins e Avery, i ragazzi dimostravano alquanto le loro abilità. Il confronto con i LZ torna con gli esotismi di Then she did (un po' la loro Kashmir, davvero molto bella) e Of Course. Ma insieme a Three Days la mia preferenza va alla caleidoscopica Obvious, che inizia come uno pseudo-dub e prosegue con catarifrangenze abbaglianti su andature caracollanti, un vero festival di energia e colori.

(originalmente pubblicato il 08/06/09)

Hood - Cold House (2001)

Gli Hood sono (stati?) un gruppo molto intelligente e creativo, in grado di saper raccogliere l'eredità dei divini Bark Psychosis, digerirla e ricompattarla con un approccio meno deciso alla melodia, con massicce iniezioni di elettronica e sfrerzate di rock. They removed... è già un colpo al cuore all'inizio: dolenti accordi di chitarra, archi soffusi, sopra un ritmo digitale, come se i Talk Talk fossero stati remixati in maniera dignitosa. Pian piano i suoni si innalzano, lievitano e una specie di pseudo-rap fa capolino dalla porta posteriore. Veramente un ibrido interessante, che prosegue sulle vellutate Branches Bare, Enemy of time, The winter hit hard, Lines low to frozen ground, rielaborazioni di ciò che Sutton avrebbe davvero voluto fare se dopo Boymerang non si fosse preso una pausa molto lunga. Peccato che vada un po' meno bene quando i fratelli Adams decidano di spingersi agli altri estremi, come nel post-wave insipido di I can't find my brittle youth, nel danzereccio un po' stucchevole di You show no emotion at all o nell'anemico glitching di This is what to do.... Meglio buttarsi quindi nell'ipnosi agreste di The river curls around the town, dal finale impressionistico squisitamente ambientale.
Nel complesso, un disco che ha molte idee, anche se le si disperdono parecchio.

(originalmente pubblicato il 07/06/09)

Black Sabbath - Sabotage (1975)

Il disco più progressivo dei Sabbath, nonostante la presenza di graniti inossidabili come Hole in the sky e Sympton of the universe. Già dal finale di quest'ultima si capisce bene come poteva essere la voglia di divagare di Iommi; lo zolfo si dissolve, l'ex baffo imbraccia l'acustica e si lancia in un rilassatissimo assolo su una piattaforma che ha sapori quasi brasileiri. Ma la complessità abita nello splendido proseguio: Megalomania è in pratica una suite black-prog, in cui i cambi di tempo e spazio sono indovinati alla perfezione (dal vivo Ozzy la cannerà clamorosamente su un famoso bootleg dell'anno). The thrill of it all ne segue le tracce riducendo i minuti e calcando la mano sulla melodia. Il lavoro di produzione richiese un sacco di tempo, si dice a causa della mania di perfezione di Iommi. La pompa di Supertzar, per chitarra e cori operistici, diventerà la sigla dei concerti. Am I going insane invece diventerà una specie di hit, con il chorus a presa diretta e un testo esilarante in cui l'ex macellaio Osbourne anticipa di parecchi anni la sua figura di auto-macchietta che costituirà la sua fortuna.
Ma la vera perla del disco è la chiusura, The Writ, un po' il contraltare sul lato B di Megalomania.
Per nove minuti tutta l'imponenza del Sab-sound, le soluzioni alternative, la loro personale visione di un prog-core che non disdegna ariosi break acustici, glockenspiel sgranati e quant'altro, rendono questo pezzo realmente speciale.

(originalmente pubblicato il 06/06/09)

Hammerhead - Ethereal Killer (1993)

Power-noise-trio fra i più efferati e violenti in attività nei mid-'90 sul rettile anfetaminico, furono confrontati da alcuni giornalisti agli Helmet, cosa che non mi trova particolarmente d'accordo. Se la band di Hamilton si poneva all'attenzione per la cura maniacale dei dettagli, gli Hammerhead suonavano molto più grezzi e sporchi, e non mettevano le chitarre al centro di tutto.
Ethereal killer è una sconvolgente battaglia contro i mostri della metropoli, una vera forza della natura. Il basso cingolato di Apollo stride contro la grattugia elettrica di Sanders, e Morridian sostiene tutto con ritmiche folli (Vegas Incident, Slumberyard). Il risultato d'insieme è un post-hardcore livido di rabbia, anche se dell'hc ci sono soltanto brevi tratti di tangenza. Ma sono stati proprio gruppi come gli Hammerhead a fare la gloria di un isola felice come la label di Hazelmeyer, in tempi in cui il grunge appena defunto rischiava di portare tutto l'indie alla deriva.
Ethereal killer sarà seguito da altri due dischi non certo inferiori e poi sarà finita per loro. Una bomba carta gettata nel Bronx.

(originalmente pubblicato il 05/06/09)

Gris Gris - For the season (2005)

Inizia come uno scomposto free-jazz questo secondo disco dei texani Gris Gris, ma è solo un fuoripista. Nella ormai secolare tradizione dello stato di Dallas, culla storica della psichedelia, questi ragazzi si fanno portavoce di un revivalismo tipicamente '60, con molti pro e qualche contro del genere.
I Pink Floyd di Barrett sembrano essere il primo punto di riferimento; chitarra sporca di garage e farfisa ipnotico guidano le 12 songs in un viaggio extra-sensoriale in cui tutto è perfettamente prevedibile, tutto in regola con gli standard aggiornati al 1968, eppure di un risultato soddisfacente per quanto riguarda la fluidità: For the season è albo variopinto e mixato alla perfezione, e alla fine poco importa se sono luoghi comuni vecchi come il cucco, ciò che resta è un ascolto vivace e rinfrescante.

(originalmente pubblicato il 04/06/09)

Grifters - Eureka EP (1995)

Un EP di transizione per il quartetto di Memphis, che faceva da ponte fra la grande epoca dei primi 3 dischi e la seconda fase del gruppo, decisamente più debole, fino allo scioglimento. Eureka è composto da 7 pezzi di diverse fatture, che esplorava in miniatura l'eclettismo già ampiamente dimostrato con Crappin' you negative. Una maggior propensione alla produzione e alla melodia appare in un anthem quasi pop come Whatever happened to felix cole, contrapposto al dolente incedere della title-track, solcata da un organo solenne e melodia epica. Lo stomp roccioso di His Jesus Song, il sonnambulismo di Slow day for the cleaner, il rilassato folk di Founder's day parade, tutto questo conduce alla finale X-Ray Hip, eredità del passato appena trascorso, fra scazzi blues, impennate noise, indolenza tipica.
Tutto al proprio posto, quindi; non volendo più continuare ad essere grezzi come prima, i Grifters avrebbero per lo più dovuto proseguire in questa direzione, con un pizzico di professionalità in più, senza scombinare il proprio dna.

(originalmente pubblicato il 03/06/09)

martedì 1 giugno 2010

Idaho - We were young and needed the money (2002)

Pochi artisti possono vantare il fatto di pubblicare un album di scarti e farlo sembrare un disco alla piena altezza degli ufficiali. E' pur vero che quando si parla di Jeff Martin non sono propriamente la persona più imparziale del mondo, e questo è il mio pensiero su questa antologia uscita nel 2002 dal titolo alquanto ironico e scherzoso. Ben 17 tracce fra il 92 e il 2000, una vera manna per i fans, che esplora per una la prima metà il periodo 96-97, quello col trio di supporto periodo Three Sheets to the wind. Ecco quindi il lato più energico e vigoroso di Martin, impegnato ad arricchire di arte e raffinatezza un sound solo vagamente ispirato ai Dinosaur Jr.
Sono in scena cantilene squillanti e spensierate (Social Studies), abrasivi mid-tempo con la talentuosa 6-corde di Seta in evidenza (Teeth marks, Come over, Breathe ), ballad atmosferiche dal fascino irresistibile (A second chance, Shoulder back). Sugli scudi: la svogliatezza psichedelica unita ad un melodismo fantastico di This day, con tanto di assolo di basso. La devastante Flat Top, quanto di più violento abbia registrato Martin, con una grande prestazione vocale per due minuti e mezzo iper-brucianti. L'inquietante Straw dogs, notturno slow-core con mirabolante assolo di Seta.
Nella seconda metà siamo nel periodo Alas / Hearts of Palm, contraddistinto da una maggior rilassatezza, qualche leziosità però mai fine a se stessa (Much closer now, Spiral).
Nel finale, sorpresa delle sorprese, col ripescaggio addirittura di 3 tracce datate 1992-93, una vera bomba per chi come me ha amato alla follia Year after year. L'efferatezza disarmante di Traces, l'innocenza perduta di Carefully Turning, la chiusura con una delle migliori songs mai scritte dagli Idaho, la cristallina Drown (ma chissà per quale motivo restò nel cassetto?), con la chitarra concentrica di Barry ed i suoi feedback rossi sangue, rende ancor più preziosa questa candida ammissione di bisogno di denaro.

(originalmente pubblicato il 02/06/09)