La cosa più bella e, a modo suo, commovente che Arthur Lee potesse fare è compiere questo passo per nulla patetico o nostalgico, che in qualche modo assomiglia al percorso dei salmoni, purtroppo per lui; un par d'anni dopo questo ritorno alle origini, morì di malattia.
Ed è così venuto a mancare un uomo dall'esistenza tormentata, perennemente agitata, con poche impennate ma con un eredità gigantesca lasciata a tutti i posteri; uno dei più bei dischi della storia dei '60 e non solo, Forever Changes.
Dopo gli esordi garage-psichedelici, un successo soltanto sfiorato (destino ingrato, la leggenda racconta che proprio Lee insegnò qualche trucco chitarristico ad un giovane di nome Hendrix), la svolta orchestrale. L'amico Allelimo, leggendo la mia personalissima superclassifica degli ultimi 40 anni, è restato stranito dal fatto che nel 1967 non avessi messo Velvet Underground, bensì Forever Changes. Ma il cuore è sempre il cuore, il cervello in questi casi viene dopo....
Dopo 36 anni Lee decise che, in mezzo a tutti questi revival, non poteva esimersi anch'egli dal riprendere il timone del proprio capolavoro e diffonderlo, in grande forma, in questa tourneè qui ripresa. Non c'era certo bisogno di stravolgere nulla, occorreva soltanto diffondere ai novizi ciò che è stato criminalmente nascosto ai più. Dei Love originali nessuna traccia, però c'è un'orchestra completa a svolgere il proprio dovere, una band che suona moderna anche se l'impianto è originale, e soprattutto ripeto un Lee in splendida forma.
La scaletta è l'originale del disco: un applauso del pubblico, il silenzio e il leggendario arpeggio di Alone again or fa accapponare la pelle all'istante e scoppiare le vene dei presenti. Non ci sono parole per descrivere l'emozione che soltanto le grandi song immortali come questa sanno regalare. Poi si viene travolti dall'energia di A house is not a motel, dall'indelebile dolcezza di Andmoreagain, dall'agilità frizzante di Daily Planet, dall'epico sinfonismo di Old Man. E ancora pelle d'oca con l'apice assoluto, The red telephone, un pezzo che mi commuove letteralmente al millesimo ascolto, con oltretutto un'accenno di jam all'urlo Freedom. Poi la B-side e la magia prosegue incontrastata, Maybe the people, Live and let live, Good humour man, You set the scene, ma ho già esaurito le parole.
Le sorprese stanno nel bis, con 4 bonus trax che non emozionano meno: il punk ante-litteram di Seven and seven is, l'imponenza di Your mind and we belong together, il blues spettrale di Signed D.C., il rollare beffardo della mitica My little red book, sono perle generose che si mettono in coda senza assolutamente sfigurare di fronte al capolavoro dei capolavori.
Rest in peace, mr. Arthur "Forever Changes" Lee.
Ed è così venuto a mancare un uomo dall'esistenza tormentata, perennemente agitata, con poche impennate ma con un eredità gigantesca lasciata a tutti i posteri; uno dei più bei dischi della storia dei '60 e non solo, Forever Changes.
Dopo gli esordi garage-psichedelici, un successo soltanto sfiorato (destino ingrato, la leggenda racconta che proprio Lee insegnò qualche trucco chitarristico ad un giovane di nome Hendrix), la svolta orchestrale. L'amico Allelimo, leggendo la mia personalissima superclassifica degli ultimi 40 anni, è restato stranito dal fatto che nel 1967 non avessi messo Velvet Underground, bensì Forever Changes. Ma il cuore è sempre il cuore, il cervello in questi casi viene dopo....
Dopo 36 anni Lee decise che, in mezzo a tutti questi revival, non poteva esimersi anch'egli dal riprendere il timone del proprio capolavoro e diffonderlo, in grande forma, in questa tourneè qui ripresa. Non c'era certo bisogno di stravolgere nulla, occorreva soltanto diffondere ai novizi ciò che è stato criminalmente nascosto ai più. Dei Love originali nessuna traccia, però c'è un'orchestra completa a svolgere il proprio dovere, una band che suona moderna anche se l'impianto è originale, e soprattutto ripeto un Lee in splendida forma.
La scaletta è l'originale del disco: un applauso del pubblico, il silenzio e il leggendario arpeggio di Alone again or fa accapponare la pelle all'istante e scoppiare le vene dei presenti. Non ci sono parole per descrivere l'emozione che soltanto le grandi song immortali come questa sanno regalare. Poi si viene travolti dall'energia di A house is not a motel, dall'indelebile dolcezza di Andmoreagain, dall'agilità frizzante di Daily Planet, dall'epico sinfonismo di Old Man. E ancora pelle d'oca con l'apice assoluto, The red telephone, un pezzo che mi commuove letteralmente al millesimo ascolto, con oltretutto un'accenno di jam all'urlo Freedom. Poi la B-side e la magia prosegue incontrastata, Maybe the people, Live and let live, Good humour man, You set the scene, ma ho già esaurito le parole.
Le sorprese stanno nel bis, con 4 bonus trax che non emozionano meno: il punk ante-litteram di Seven and seven is, l'imponenza di Your mind and we belong together, il blues spettrale di Signed D.C., il rollare beffardo della mitica My little red book, sono perle generose che si mettono in coda senza assolutamente sfigurare di fronte al capolavoro dei capolavori.
Rest in peace, mr. Arthur "Forever Changes" Lee.
(originalmente pubblicato il 15/06/09)
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