Rientrano nella schiera ristretta dei gruppi del mio cuore, e ne rimpiango lo scioglimento. Specialmente alla luce delle prove post-split non proprio memorabili dei due bardi dell'emozione povera ma ricca. A dimostrazione che la coppia era perfettamente coesa e capace di produzioni che mi hanno personalmente segnato fasi ben distinte della vita.
Mad for sadness fu un live, inizialmente pensato come congedo dalla Chemikal Underground prima di un ben presto abortito approdo su major e il ritorno alla home page. Ma guai a ritenerlo un riempitivo, perchè questa fenomenale esibizione in un teatro di Londra nel 1998 è quasi in grado di oscurare gli estratti di studio. Le rendition trovano maggior attenzione per variazioni significativamente esaltanti: gli orpelli elettronici che comunque rendevano grande il recente Philophobia lasciano posto ad un live crudo con gli strumenti essenziali, con Moffat e Middleton in forma stellare, ben supportati da Gow e Miller, e con i cameo sensuali della Bethel nei panni della rivale amorosa. L'apertura ambientale di My favourite muse regala subito brividi di lussuria e i luridi racconti di Moffat rendono il concerto qualcosa a mezza via fra una lettura di poesie e la vivisezione di un cuore umano. Toy Fights guadagna profondità e spazio con i riverberi cosmici di Middleton, una Piglet spogliata da ogni tipo di tastiere rivela il valore del songwriting. Il minimalismo esistenziale di Blood sembra non portare da nessuna parte, ma è ipnosi catartica.
Il melodramma a due voci di Afterwards riserva un inaspettata impennata di chitarra distorta, col rosso addirittura lanciato in un breve assolo. Esplosione annunciata sull'amarissima New Birds. Non rinunciavano comunque ala drum-machine nei frangenti ultra-classici della confessione etilica di Here we go, l'ex acustica Phone me tomorrow e nel tormentone post-slintiano di Girls of summer, in cui l'indiavolata escursione techno di mezzo trasforma per un attimo il teatro in una cupa discoteca di anime perse. Alla fine del pezzo, Moffat rivela il suo livello di saturazione di birra con la declamazione "I wanna have sex on the beach".
Dall'edizione originale del cd restarono esclusi due pezzi (probabilmente il bis) che ho recuperato da qualche fan: la versione metallica di I would've liked me a lot last night e la maratona paludosa di Deeper, con un'altra esplosione fuzz di Middleton non annunciata.
A dimostrazione che erano meglio live che in studio (e mi sento di dirlo in quanto possiedo parecchi bootleg), Mad for sadness è il miglior greatest hits possibile del primo lustro di carriera degli scozzesi, seducente almeno quanto la fascinosa amica Alidih, intenta a distribuirsi rossetto sulle labbra nella cover.
Mad for sadness fu un live, inizialmente pensato come congedo dalla Chemikal Underground prima di un ben presto abortito approdo su major e il ritorno alla home page. Ma guai a ritenerlo un riempitivo, perchè questa fenomenale esibizione in un teatro di Londra nel 1998 è quasi in grado di oscurare gli estratti di studio. Le rendition trovano maggior attenzione per variazioni significativamente esaltanti: gli orpelli elettronici che comunque rendevano grande il recente Philophobia lasciano posto ad un live crudo con gli strumenti essenziali, con Moffat e Middleton in forma stellare, ben supportati da Gow e Miller, e con i cameo sensuali della Bethel nei panni della rivale amorosa. L'apertura ambientale di My favourite muse regala subito brividi di lussuria e i luridi racconti di Moffat rendono il concerto qualcosa a mezza via fra una lettura di poesie e la vivisezione di un cuore umano. Toy Fights guadagna profondità e spazio con i riverberi cosmici di Middleton, una Piglet spogliata da ogni tipo di tastiere rivela il valore del songwriting. Il minimalismo esistenziale di Blood sembra non portare da nessuna parte, ma è ipnosi catartica.
Il melodramma a due voci di Afterwards riserva un inaspettata impennata di chitarra distorta, col rosso addirittura lanciato in un breve assolo. Esplosione annunciata sull'amarissima New Birds. Non rinunciavano comunque ala drum-machine nei frangenti ultra-classici della confessione etilica di Here we go, l'ex acustica Phone me tomorrow e nel tormentone post-slintiano di Girls of summer, in cui l'indiavolata escursione techno di mezzo trasforma per un attimo il teatro in una cupa discoteca di anime perse. Alla fine del pezzo, Moffat rivela il suo livello di saturazione di birra con la declamazione "I wanna have sex on the beach".
Dall'edizione originale del cd restarono esclusi due pezzi (probabilmente il bis) che ho recuperato da qualche fan: la versione metallica di I would've liked me a lot last night e la maratona paludosa di Deeper, con un'altra esplosione fuzz di Middleton non annunciata.
A dimostrazione che erano meglio live che in studio (e mi sento di dirlo in quanto possiedo parecchi bootleg), Mad for sadness è il miglior greatest hits possibile del primo lustro di carriera degli scozzesi, seducente almeno quanto la fascinosa amica Alidih, intenta a distribuirsi rossetto sulle labbra nella cover.
(originalmente pubblicato il 21/06/09)
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