giovedì 31 marzo 2022

Vocokesh – Paradise Revisited (1998)


Il più grande limite di opere come questa (e probabilmente di tutta la trentina di dischi pubblicati da Franecki alla testa di Vocokesh) è che sono quasi incommentabili, che il giudizio dipende dall'umore del momento in cui li si ascoltano, e soprattutto in base a quanta fretta si ha di consumarli. In questo senso, non c'è moltissima differenza fra Paradise Revisited ed il precedente Smile And Point At The Mountain di 3 anni prima; si tratta di eccellenti manufatti artigianali di freakeria strumentale che distillano i 30 anni precedenti di tutta la storia della psichedelia, declinata in pressochè ogni forma possibile, con i santini di Ummagumma, In search of space, Phallus Dei e Schwingungen in bella vista. Musica derivativa ed improvvisata, ma fatta al meglio delle proprie possibilità. Seppur a rate (la lunghezza è importante), negli ultimi giorni mi sono preso il tempo di rivisitare questo paradiso e l'ho apprezzato a tutto tondo.

martedì 29 marzo 2022

Barn Owl – The Factory Session/Live At Berkeley Art Museum (2013)


Una session di vintage-elettronica in una non meglio precisata Factory di San Francisco (25 minuti) ed un live per chitarre a Berkeley (15 minuti), per un cd (sempre targato Thrill Jockey) venduto durante il tour europeo di supporto a V. Dopo 9 anni di silenzio assoluto, nonostante l'assenza di qualsiasi prova, forse possiamo asserire che i Barn Owl non esistono più e che questo fu il loro commiato, non possiamo sapere quanto consapevole. Ciò che è certo è che sia Caminiti che Porras sono andati solisti con una certa regolarità, segno che forse la spinta creativa del duo aveva raggiunto un punto di non ritorno.

La loro è stata una parabola ascendente, sempre nel segno di un drumless space-drone doom-desert-gaze imponente e solenne, culminata in un capolavoro chiamato Ancestral Star, il primo su TJ, colosso impreziosito di innumerevoli varianti strumentali e soluzioni di sorprendente maturità. Nel frattempo i due avevano iniziato però a fare cose personali, ed il corso cosmico di Evan Caminiti ha finito per prendere il sopravvento, influenzando non poco V. Il live a Berkeley qui presente si staglia come testamento espressivo della fase chitarristica dei due, bruciante affresco di saturazioni psych-droning che richiamano quel felicissimo capitolo.

La jam alla Factory invece li vedeva alle prese con i synth modulari, in una suite toxic-cosmic che evoca dei Tangerine Dream brutti, sporchi e cattivi. Un suono sulfureo e brulicante, con una scansione ritmica che di per sè crea la base incessante per stratificazioni angoscianti, ai limiti dell'industriale, ma sempre nel nome di una nebbia psichedelica che ha caratterizzato tutto il loro catalogo. 

Chissà, forse avrebbero potuto ancora elaborare qualcosa di notevole o Ancestral Star era oggettivamente inarrivabile ed ormai avevano chiuso quella fase. Per quanto sconosciuti siano stati nonostante l'egida TJ, Barn Owl è stata un'esperienza entusiasmante, spietata ed onirica al tempo stesso.


domenica 27 marzo 2022

Screams From The List #106 - Roger Doyle – Thalia (1978)

 

 

Con un percorso simile a quello di un altro ardito sperimentatore apparso sulla List come Basil Kirchin, l'irlandese Roger Doyle iniziò come batterista jazz ma dopo qualche anno si diede all'elettronica sperimentale, con l'ambizioso progetto di brutalizzare principi folkloristici della propria verde patria, come ben rivelato sull'album d'esordio Oizzo No nel 1974 (parzialmente riuscito, diciamo una rottura del ghiaccio). Dopo una pausa di 4 anni, riapparve con Thalia e si mise a fare le cose sul serio. L'apertura, con l'effervescente pianismo di Baby Grand, è puramente fuorviante perchè le atmosfere sono di ben altro tenore. Con la suite in tre parti di Thalia (circa mezz'ora) si viene immersi in un allucinato collage macro-cosmico per oscillatori, fanfare, percussioni, concretismi, proto-industrialismi e glitches ai limiti dell'udibile. Infine i 12 minuti di Solar Eyes, purissimo archetipo di dark-ambient sintetica ed agghiacciante. Una classica prova dell'assurdo da anni '70, ma elaborata con una lucidità ed un raziocinio che arriva a sfiorare i livelli dei maestri dei '60.

venerdì 25 marzo 2022

Zoogz Rift – War Zone (Music For Obnoxious Yuppie Scum) (1990)

Un anno dopo il termine della sua fruttifera militanza su SST (9 album in 5 anni!), Zoogz Rift trovò casa nella label tedesca Musical Tragedies, presso cui realizzò un paio di dischi. Ormai più impegnato nel wrestling che nella musica, stava per imboccare il viale del tramonto. Le imprese titaniche dell'era SST erano ancora relativamente recenti ed in War Zone l'istrione aveva ancora qualche cartuccia da sparare, come i 20 minuti di Kasaba Kabeza, un'altra grande scultura dell'assurdo pienamente coadiuvata dalla backing band Shitheads, in questo caso completa di mini-sezione fiati (sax e trombone, impazzanti ovunque). Girato il piatto del vinile, non tutto gira a dovere, ma quando gira è un delirio: l'irresistibile pop demenziale di You can count on us e la serratissima title-track (l'unica che forse riecheggia concretamente il Capitano) compensano le cadute un po' banalotte degli altri due pezzi. La media generale fa un bel 7/10, con Kasaba Kabeza a svettare fra le perle maggiori di ZR.

mercoledì 23 marzo 2022

Amorphous Androgynous & Peter Hammill – We Persuade Ourselves We Are Immortal (2020)


Se non fosse stato per la presenza di PH, sarebbe stato piuttosto improbabile che io approcciassi un prodotto degli Amorphous Androgynous, ovvero l'alias che usano i due Future Sound Of London per l'archeologia tradizionalmente psichedelica, con una manciata di album in quasi 30 anni. Il primo che fecero, Tales Of Ephidrina (1993), lo trovai pomposo e ridondante. Insieme al mitico, Cobain & Dougans hanno radunato un capannello di cariatidi abbastanza illustri: Paul Weller, Brain Hopper, Ray Fenwick sono probabilmente i più noti fra le decine e decine di musicisti coinvolti per questa suite allungata, che assume così i connotati di una vera e propria sinfonia dal sapore nostalgico, a partire dal titolo che appare abbastanza programmatico. Un po' Pink Floyd epoca '73/75, un po' Porcupine Tree epoca '92/94, We Persuade inizia con il suo tema principale, 12 minuti di pathos epico con PH alle prese una prova perlopiù composta ma carismatica, bastava il suo timbro. L'orchestrazione massiccia acquisisce un valore aggiunto e la mezz'ora seguente è costituita da variazioni strumentali che fortifica il concetto di vintage musical, un calderone dentro cui infilare più o meno tutti i luoghi comuni del rock psichedelico e dintorni. Per quanto tutto sia finemente esagerato, gli amanti di questo classicismo non possono non apprezzare.

lunedì 21 marzo 2022

Miranda Sex Garden ‎– Carnival Of Souls (2000)


Disco controverso con cui le MSG chiusero la loro carriera, dopo uno iato quinquennale da quel Fairytales of slavery che aveva sancito la fine del prestigioso patrocinio Mute. La line-up vedeva ormai un predominio maschile, dato che del nucleo fondativo era rimasta soltanto la Blake e la sua voce eterea, formalmente impeccabile e calata in un suono sempre più pieno e chitarristico. L'imprinting gotico restava parte fondante del canovaccio, ma le fusioni vocali e l'incipit sperimentale dei primi dischi erano un lontano ricordo e paradossalmente con questo episodio si sarebbe potuto aprire un varco nel fertile mercato di quei tempi. Carnival Of Souls contiene ottimi pezzi di maudit-rock come Are you the one, Ever & Ever, Broken Glass, Close to the sky, potenzialmente accattivanti sia per il pubbico indie che per quello gotico. Ma breccia non fu e lo split definitivo seguì di conseguenza. Non era destino, evidentemente.

domenica 20 marzo 2022

3000 Posts


Quota 1000 toccai,

e gli occhi strabuzzai,

ma non mi perturbai,

del mio banzai.

Nessun bordo sfiorai, tangendo navigai.

Su uno spicchio di luna a 2000 andai,

la vita ed i suoi guai ed i suoi mai.

Comodai, mi sconsolai,

mi scrollai, e...si realizzò

Quota 3000. 

Sol questo so.

 



sabato 19 marzo 2022

Northwest – II (2019)


La piacevolissima conferma che il primo, abbagliante, album non fosse un exploit fine a sè stesso per la coppia spagnola. Vien da pensare che la matrice compositiva sia frutto della stessa ispirazione, escluso il fatto che l'atmosfera sia ancor più rarefatta e che gli interludi squisitamente neo-classici prendano il sopravvento, con archi e clarinetto impegnati in vere e proprie esecuzioni di spartiti.
Basta un pugno di ispiratissimi numeri per confermare appieno la magia: Winterland, The Day, All Of A Sudden, Wasted Light. Le dinamiche che muovevano il predecessore segnano il passo in favore di una stasi paradisiaca, concetto essenziale alla base del disco. Li aspettiamo con enorme curiosità alla prova di un terzo che sarà procuratore di sfide.

giovedì 17 marzo 2022

Lowercase ‎– The Going Away Present (1999)

Chiudo il discorso sui Lowercase andando a trattare brevemente il loro terzo ed ultimo album, un lavoro complicato e di umore nero pece. Dopo un primo nevrastenico episodio, già piuttosto peculiare ma leggermente acerbo e grezzo, Wasif e Girgus aggiunsero un bassista e confezionarono il loro miglior prodotto, Kill The lights, molto focalizzato e compatto su una sempre più originale formula di songwriting, grazie alla maturazione repentina del cantante/chitarrista. The going away present, sempre più carico di angoscia esistenziale e cantilene rabbrividenti (ai limiti del dark-gothic), testimoniava alla perfezione lo stato d'animo di una band sull'insanabile punto di rottura. Al pari di nevrotiche quanto energiche ballad elettriche comparivano anche alcuni numeri di apatico slow-core, favorendo l'alternanza delle dinamiche di uno dei dischi più depressi che mi sia capitato di ascoltare, in sostanza a metà strada fra i due precedenti come qualità generale. Poteva esser stato un episodio di transizione, ed invece funse da epitaffio. Wasif prese la sua valente strada di cantautorato esistenziale, e credo che sia stato meglio così. Lo spleen dei Lowercase aveva raggiunto un punto di non ritorno.

martedì 15 marzo 2022

O-Type – Western Classics (2004)


Il disco che chiuse l'esperienza O-Type, con i titoli mutuati da altrettante pellicole ma con musiche che non avevano nulla a che vedere, era una raccolta di colonne sonore immaginarie. Rispetto agli album precedenti, dediti a formule di avant-astrazione inafferrabili, si trattò di una svolta netta, purtroppo destinata a decretare l'epitaffio di questa side-saga di MX-80. Le narrazioni scorrono fluide ed ipnotiche, per mezzo di patterns ritmici mai troppo meccanici, direi umanoidi. Regina incontrastata, banale a dirlo, la sei corde elettrica di Mr. Bruce Anderson. Splendida l'apertura di The Searchers e The Manchurian Candidate, a mettere in scena ambientazioni soffuse e notturne. La sulfurea 3 Faces Of Eve rievoca curiosamente certe arie Grails, di lì a venire. Point Blank rappresenta il vero western classic del lotto, con un fischiettìo stentoreo, quasi morriconiano. Mean Streets si immerge in un'area metropolitana tossica e sincopata. Out of the past rallenta nuovamente il passo e prepara ai 31 minuti di McCabe & Mrs. Miller, iper-jam forse tirata un po' troppo per le lunghe ma con dei passaggi molto ispirati.

La sigla chiuse qui i battenti, all'alba del ritorno degli MX-80 dopo un lungo iato, nel 2005 con We're an american band. O-Type rappresentò, per l'inossidabile coppia Anderson-Sophiea, una saga di importante sperimentazione elettro-avant, preparatoria ad altri eventi degli anni successivi, sempre più all'insegna del compromesso zero.

domenica 13 marzo 2022

Hawkwind ‎– Doremi Fasol Latido (1972)

La chiave decisiva per interpretare il terzo, leggendario album degli Hawkwind stava tutta nel cambio di sezione ritmica: fuori il bassista Anderson, dentro il bassista-per-caso Lemmy Kilminster, chiamato per essere secondo chitarrista e ritrovatosi lì con un Rickenbacker lasciato dall'imprudente predecessore. Fuori l'agile e tecnico batterista Ollis, dentro l'hippy-punk ante litteram Simon King, selvaggio, casinista e martellante. Aggiungiamo il fatto che lo studio in cui si trovarono a registrare era mal equipaggiato, ed il risultato è un essere tentacolare chiamato Doremi Fasol Latido, un disco sporco, pieno di errori, un lontano parente del lussureggiante In Search Of Space.

Ma alla prova dei fatti, per gli Hawkwind doveva essere un periodo di grandissimo divertimento e lo si può quasi percepire dai solchi. Brainstorm, destinato a diventare uno dei loro super-classici, è una tempesta magnetica-metallica ed il manifesto programmatico del disco, modello ideale delle loro jams ultra-dilatate (così come Lord Of Light e Time we left this world today), lasciando un minutaggio minore ai numeri acustici di Brock ed alla prima composizione solitaria di Lemmy, The Watcher, una blues-ballad spettrale e beffarda. Da tutto questo casino (difficile pensare ad anche solo un vago concetto di disciplina all'interno del gruppo) ne nacque un genuino, sincero e spontaneo discone, la cui sporcizia sonora dopotutto fa parte del menu. 


venerdì 11 marzo 2022

Peter Broderick ‎– Float (2008)


Autore e polistrumentista americano piuttosto prolifico (oltre 50 titoli da solo + una trentina in un paio di band, nell'arco di 15/16 anni), che per qualche motivo mi è sempre sfuggito nonostante diverse uscite su etichette di buon prestigio e buoni riscontri più o meno ovunque. Con Float, all'epoca poco più che ventenne, PB si rivelava per mezzo di una neo-classica-cameristica piuttosto elegante ed austera, formalmente quasi impeccabile, guidata quasi sempre dal piano acustico ma in grado anche di sviare su più fronti grazie all'autentico arsenale di strumenti suonati dal giovane, e in alcuni tratti anche da suoni concreti e qualche beat elettronico.

Lo stile è più o meno quello cinematico di Eluvium, Library Tapes ed affini, ma è percepibile che PB ha una maggiore fondatezza tecnica ed esecutiva. Ora, il disco è gradevole ed è difficile muovere delle critiche o andare a scovare delle pecche precise, però....Non vorrei che fosse proprio quella maggiore padronanza tecnica a farmelo scivolare un po' di più addosso, mentre invece proprio i contemporanei Library Tapes ed Eluvium brillavano anche grazie all'umanità ed alle imperfezioni. L'ho buttata lì, senza tanto peso.

mercoledì 9 marzo 2022

Groundhogs – Blues Obituary (1969)


Un anno dopo un debutto ancora acerbo e tutto sommato dipendente dai luoghi comuni del  blues, Tony McPhee se ne uscì con un concetto piuttosto ambizioso: celebrarne il necrologio, con tanto di artwork dedito alla messa in scena di un vero e proprio funerale da lui officiato, con Pustelnik e Cruickshank in veste di operanti funebri. L'intento era anche pratico; il chitarrista stava cercando una formula che progressivamente l'avrebbe allontanato da quegli standard, senza rotture radicali nè colpi ad effetto. Blues Obituary in prospettiva fu il primo tassello di una saga di transizione, e basteranno un paio d'anni per raggiungere risultati più che eccellenti con Split e Who Will Save The World?, vertici espressivi indiscussi della carriera. Delle 7 tracce incluse, tutte eccellenti a parte un paio ancora debitrici alla tradizione, svetta senza alcun dubbio l'iniziale B.D.D., una specie di manifesto programmatico della loro dipartita...

lunedì 7 marzo 2022

Nicola Ratti – Ode (2009)


Nel suo erratico pellegrinaggio terrestre alla ricerca di ospitalità, Ratti è passato anche dall'Australia, in casa Preservation, una label con qualche nome di buon prestigio in catalogo. Ode uscì appena un anno dopo quello splendido From The Desert Came Saltwater che lo fece balzare un po' all'occhio della critica, e proseguiva nella ricerca di un suono fantasmatico, un po' desertico e polveroso che rarefaceva le vecchie eredità ambient-rock in un ottica ancor più sgranata. Rispetto ad esso, Ode serrava un po' le fila del suono grazie al contributo di una sezione ritmica all'uopo assunta (contrabbassista dei Ronin + batterista dei Quasiviri), perfettamente calata nella realtà Rattiana. Un'altro centro per il chitarrista milanese, uomo di mondo e gentile diffusore di una musica austera ma confortevole al tempo stesso.

sabato 5 marzo 2022

Faust ‎– So Far (1972)


Un anno dopo il clamoroso debutto, la Polydor diede un'altra possibilità ai Faust. Erano tempi incredibili, in cui una multinazionale era in grado anche di fare da mecenate ad un unità di folli, sbandati ed irresponsabili (leggere le interviste a Peron di qualche anno fa per credere). So far cambiò parzialmente modulo; un pugno di pezzi lunghi ad effetto ed una manciata di vignette ultra-surreali di breve durata. La crescita tecnico-musicale li portò ad elaborare persino delle arie di grande respiro, a tratti influenzate dai Pink Floyd di Atom Heart Mother (l'intro di No Harm), ed il risultato fu un assieme ancor più straniante, proprio per il sarcasmo tangibile che emerge. Ora che i Faust sapevano persino suonare (a parte Sosna, che era già l'asso del gruppo), non ce ne poteva essere più per nessuno.

giovedì 3 marzo 2022

Sunset Ensemble – New Compositions (2020)


Effetti collaterali del Lockdown. Per la sua micro-tape-label Little Box Of Hiss, terza ed ultima cassettina di Aidan Moffat nel 2020, dopo la deliziosa children soundtrack di Toygasm e la lounge papettiana di Quiet Nights. Sunset Ensemble si occupa di smooth-jazz creato da un software di intelligenza artificiale (sounds for swinging algorhytms, la definisce lui), in un operazione non concettualmente distante da quanto fece Aphex Twin qualche anno fa. Batteria spazzolata, contrabbasso, piano acustico, qualche fiato (Midi, evitabile) ed ecco servito il nostro ologramma di jazzisti da night club d'epoca, non troppo tecnici, compassati e felpati, nel creare atmosfere fumose e suadenti. Checchè se ne possa pensare e quantunque si possa soppesare l'impatto del software, la mano di AM si sente: un po' trasognato, un po' malinconico, un po' ironico, l'ensemble Tramonto tradisce la discendenza luckypierriana a più riprese, sempre palpabile. Ed è un ascolto davvero piacevole.


martedì 1 marzo 2022

Etron Fou Leloublan ‎– Les Poumons Gonflés (1982)

 

Il quarto album dei EFL, ormai stabilizzati a quartetto con la tastierista Thirion in line-up e con l'importante compito di produzione in mano a Fred Frith. Erano già passati 6 anni dal debutto Batelages, che li aveva rivelati come avant-trio peculiare e pirotecnico, nonchè nominati esponenti francesi del movimento RIO (in realtà un impatto fortemente sminuito dal bassista Ferdinand in un'intervista, ma questi sono altri discorsi...). LPG suggerisce innanzitutto l'intelligenza di non contaminare le loro sonorità con quanto stava imponendo il mercato corrente (un errore che ad esempio commisero i Zamla Mammaz Manna nello stesso anno), mantenendo inalterate le loro capacità di coniare un'avant-rock sghembo ma non ostico, surreale ed irriverente. Pezzi arzigogolati ed irresistibili come Nicolas, Nicole e Christine non possono fare a meno di rievocare lo spirito santo del Capitano Van Vliet, di cui il batterista Chenevier sicuramente era un sostenitore. Per il resto si passa di palo in frasca, da arie circensi, valzer dementi, sketch teatrali e persino un pezzo in italiano. Divertentissimo.