Parlando di british blues rock dei seventies, sarebbe un delitto non citare Tony McPhee e i suoi Groundhogs. Un guitar hero cresciuto alla scuola classica di John Mayall e John Lee Hooker, che pure si avvalse del loro accompagnamento a metà '60. Un asso dalla personalità discreta, fautore di un post-blues deragliante e atomico, che poteva contare su una fida sezione ritmica che gli stava incollata in tutti i sensi. Arrivati al 4° disco nel 1971 con Split, concepivano un lavoro elaborato e per nulla scontato. La title-track, divisa in 4 parti, occupava una facciata intera del vinile. Sul retro apriva il tornado Cherry Red, uno dei loro pezzi più rappresentativi che è stato coverizzato anche in anni recenti da un gruppo stoner (ahimè non ricordo quale...).
Dimenticate le finezze espressive dei Cream o le virilità assortite dei Free. Il Groundhogs sound tiene ben salde le sue radici nel blues ma si espande in ramificazioni psicotiche di una complessità unica, senza mai sfiorare l'autoindulgenza. Sismi apocalittici, ritmi irregolari e assoli dissonanti erano all'ordine del giorno per i tre.
Non mi stupisco che non abbiano mai raggiunto il successo, nè che siano rimasti nella memoria collettiva degli appassionati di seventies. Solo per orecchie ben aperte.
Dimenticate le finezze espressive dei Cream o le virilità assortite dei Free. Il Groundhogs sound tiene ben salde le sue radici nel blues ma si espande in ramificazioni psicotiche di una complessità unica, senza mai sfiorare l'autoindulgenza. Sismi apocalittici, ritmi irregolari e assoli dissonanti erano all'ordine del giorno per i tre.
Non mi stupisco che non abbiano mai raggiunto il successo, nè che siano rimasti nella memoria collettiva degli appassionati di seventies. Solo per orecchie ben aperte.
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