lunedì 31 dicembre 2018

Cure ‎– Torn Down: Mixed Up Extras 2018

Mentre si vocifera che siano in studio alle prese con un nuovo disco (e non è che la notizia mi entusiasmi un granchè, in verità), Ciccio Smith continua la serie di rimasterizzazioni prendendo in esame Mixed Up, che nel 1990 iniziò una famigerata serie di brutalizzazioni a base di elettronica. Ho quasi sempre detestato i remix dei Cure, trovandoli prolissi, inadatti e vacui. In un periodo vuoto come questo, è quasi inevitabile che Ciccio ci si butti a pesce ed infatti l'output è stato addirittura triplo: rimasterizzazione dell'originale, secondo disco di lati-b 82-90 (alcuni dei quali già conosciuti su Join the dots) e terzo di nuove rielucubrazioni, per l'appunto Torn Down.
Sulla scia retrospettivale che corrisponde all'inesorabile china degli ultimi 15 anni, sono 18 pezzi in ordine cronologico, ciascuno per ogni album. E sorpresa, sono quasi tutti molto buoni, persino quelli più recenti. Ovvio che il maggior interesse verta sul vecchiume ed è curioso che le scelte siano tutt'altro che scontate; M, A Strange Day, Just One Kiss, Like Cockatoos e Plainsong non furono certo gli hits principali dei rispettivi album. Il bello è che Ciccio trova un equilibrio sonoro davvero invidabile, per una rendition generale più organica possibile, con delle soluzioni arrangiative che da lui non mi sarei aspettato. Che la saggezza lo abbia avvinghiato ai 60 anni?
In massiccia heavy rotation per me in questi giorni la Bright Birds Mix 2018 di The Drowning Man, una meraviglia stratosferica da inserire nel best dei best.

sabato 29 dicembre 2018

Scream From The List 78 - Deutsch Amerikanische Freundschaft ‎– Produkt Der Deutsch-Amerikanischen Freundschaft (1979)

La storia dei tedeschi DAF, legata essenzialmente al cantante Delgado, al batterista/programmatore Gorl ed ai loro minimali ed ossessivi synth-driven-anthems, ebbe un inizio profondamente no-art-wave, con questo album composto da 22 schegge impazzite. Il quintetto, registrato il tutto col vocalist di origini spagnole, fece retromarcia e lo fece accomodare in sala d'attesa, epurando la sua performance dall'output finale; diciamo la verità, non se ne sente la mancanza. Il suono selvaggio, lo-fi ed ispido di Produkt parla di una band fuori dagli schemi imperanti all'epoca, sia del punk che della prima new-wave; una specie di versione meno colta dei This Heat o spastica dei Chrome, debordante di creatività e nichilismo sui generis. Di lì a poco si trasferiranno a Londra in cerca di fortuna, e presto si ridurranno al duo storico che si toglierà più di una soddisfazione a livello internazionale. Ma questo infuocato debut album resterà per sempre il loro zenith artistico.

giovedì 27 dicembre 2018

Narassa ‎– Tensione Dinamica (1974)

Episodio per così dire minore della library nazionale, generalmente poco citato nei servizi speciali dedicati. Dietro lo pseudonimo si celava il sassofonista Sandro Brugnolini, che resta più che altro ricordato per la coppia Over e Underground del 1970, più legato allo spaghetti-lounge-sound in auge in quegli anni, in tema di sonorizzazioni e soundtracks. Tensione dinamica ha comunque ottenuto il riconoscimento della ristampa in vinile in anni recenti, più precisamente nel 2016 da parte della milanese specializzata Intervallo. In esso si alternano disincantate e languide bosse, pseudo-jazz da scena carica di suspence, acquarelli astratti alla Fabio Fabor, striature di oscillatori, rasoiate drammatiche di mellotron; un prodotto nella media, più indirizzato ai completisti che ai novizi. Attenzione; per media intendo una che resta altissima, e con disinvoltura.

martedì 25 dicembre 2018

Leyland Kirby ‎– We, So Tired Of All The Darkness In Our Lives (2017)

Non è bello da dire, ma grossomodo da quando ha lasciato Berlino per Cracovia il grande James Kirby ha perso gran parte di quel lirismo e quell'emotività che hanno caratterizzato le sue pagine migliori. La saga Caretaker volge alla conclusione con i 6 capitoli di Everywhere at the end of the time, dal concept ambizioso ma molto poco sorprendente dal punto di vista sonoro. La riesumazione del progetto V/Vm si è concretizzata con un disco di solo piano molto deludente, per il retrogusto parodistico. Ci consoliamo con questo, l'ultimo LK, un ritorno più che dignitoso alla sua hypno-ambient; We, so tired of all the darkness in our lives (solito grande titolo poetico) se non altro introduce la rilevante novità della presenza massiccia di una batteria elettronica, che pigramente scandisce gran parte dei 16 titoli. Un disco molto espanso e solenne, che per via di questi ritmi strascicati crea un nuovo possibile orizzonte negli sviluppi del LK sound. Non sarà uno dei suoi migliori titoli in discografia, ma lo accettiamo più che volentieri.

domenica 23 dicembre 2018

Zint Group ‎– Curve And Crane (1990)

Quintetto milanese con questo unico vinile in carniere, scovato su un Ripeschiamoli di un Blow Up di un annetto fa. E sfortunato, direi, a trovarsi in Italia, in un periodo non proprio favorevole; infilati a forza in quell'orrendume che fu il famigerato calderone neo-prog.
Nulla di tutto questo, ovviamente: nel 1990 sarebbe stato complicato incasellare lo ZG, guidato dal vocalist / polistrumentista / compositore Fabio Martini. Trattavasi di una notevole formula di art-rock, vagamente imparentata col progressive per gli scarti ritmici ma completamente avulsa dalle atmosfere favolistiche in quanto molto vicina alla new-wave più colta, non necesariamente di derivazione british quanto mitteleuropea. Il recensore di BU ha tirato in ballo PH & VDGG, io starei un po' più basso, ma ciò non toglie che si trattava di una ricerca molto originale, che poteva anche richiamare i King Crimson del 1980-81. Ottime le doti tecniche, peccato per qualche pecca produttiva (batteria semi-fustinata, tastiere midi, ma in quanti si sono salvati da questi demoni?), ma soprattutto peccato per la mancanza di seguito: avrebbero potuto fare ottime cose.

venerdì 21 dicembre 2018

Heidika ‎– There Is No Cure & Other Songs (2005)

Probabilmente l'ultimo monicker della galassia Richard Skelton che ancora non avevo toccato, e stando all'enciclopedia Discogs primo prodotto in assoluto della sua discografia, in quanto codificato SR01 su Sustain-Release, antecedente all'esordio Carousell. Ai suoi esordi il nostro Riccardo snocciolava una folk-tronica piuttosto quieta e dopotutto abbastanza solare, ben diversa dalle tempeste emozionali che lo renderanno un grandissimo. Tessuto principalmente su delicati arpeggi di acustica e sporcato da vari effetti elettronici, There is no cure consta di una ventina di minuti abbastanza lineari, con qualche impennata lirica che lasciava soltanto intravedere la stoffa pregiata dell'artista, soprattutto per gli inserti violinistici. In ottica futura, un più che buon presagio.

mercoledì 19 dicembre 2018

Talk Talk ‎– Laughing Stock (1991)

Solo poche parole per un grande capolavoro fuori dal tempo in cui venne distribuito. Il mio ricordo; ero un bambino quando le radio commerciali battevano fortissimo con Such a shame e It's my life. Due anni dopo le hits di The Colour of spring passavano più di rado, con le aspettative un po' raffreddate persino per i conduttori radiofonici. Altri due anni dopo e gli stessi si chiedevano cosa fosse successo a Mark Hollis, perchè avesse buttato via così il suo successo con quello strano oggetto chiamato Spirit of eden. Al termine della corsa TT, delle radio non era più neanche interesse mettere in onda Laughing Stock. Era quasi più un vincolo contrattuale da sbrigare per la Polydor, ormai disinteressata ad un artista che non ne voleva più sapere di darsi in pasto alle masse.
Laughing Stock; meglio o no di Spirit Of Eden? Questo è un dilemma che probabilmente non risolverò mai, tanta è la meraviglia che sprigiona. Il bozzolo che era stato impiantato 5 anni prima con la divina Chameleon Day aveva attecchito perfettamente. Questo è il suono del surreale più serio, della levitazione pura, del subconscio liberato dalle pastoie del vivere quotidiano. Serve una tonica sola, come quella fragorosissima di Ascension Day o quella metafisica di Taphead. Ma ho già commesso un'ingiustizia; torno indietro subito, esplodo in una risata e faccio ripartire lo Stock. Magia.

lunedì 17 dicembre 2018

Sin Ropas ‎– Fire Prizes (2005)

Progetto di Tim Hurley, bassista dei Califone, che pigramente ha dato alle stampe 5 album in 16 anni. La derivazione è chiaramente quella non solo dei sopracitati, ma anche del gruppo madre del leader Rutili, ovvero i gloriosi Red Red Meat; un post-blues-indie-folk strascicato, molto elettrico, slacker e dai ritmi vicini allo slow-core. In Fire Prizes, terzo della serie, si sentono anche forti echi di Neil Young e Will Oldham, quindi si potrebbe dire che i SR sono un appendice più tradizionalista rispetto alle origini, ma il disco funziona perfettamente fra le sue moviole, le impennate chitarristiche di grande enfasi e le canzoni, che dopotutto sono buone e basta.

sabato 15 dicembre 2018

Rush ‎– Permanent Waves (1980)

Per un gruppo come i Rush il periodo migliore fu a cavallo del 1980: emacipatisi dai modelli che seguivano ad inizio carriera, negli anni dell'esplosione new-wave trovarono una loro cifra stilistica, inclusa la maggior accessibilità, senza tradire spudoratamente l'integrità del loro power-pop-progressive. Di certo il loro successo dovette molto a pezzi come The spirit of the radio, che di Permanent Waves fu singolo di lancio verso le grandi masse. L'album è ottimamente bilanciato fra le cose più easy e quelle più tecnicistiche, in cui fare sfoggio delle innegabili doti. Da citare perlomeno Jacob's Ladder, che conserva con gran gusto il piglio prog e qualche scenario crepuscolare, la ballad Different string e la mini suite Natural Science, che inizia umilmente con uno strumming acustico per poi esplodere in un vortice hard davvero notevole.

giovedì 13 dicembre 2018

Jim O'Rourke ‎– I'm Happy, And I'm Singing, And A 1, 2, 3, 4 (2001)

Pitchfork gli ha dato 9.0, PS invece 5/10. La media è esattamente il voto che darei io a questo album che nel 2001 vide il (provvisorio) ritorno alle sonorità meno scontate e di avanguardia dal cui humus il buon Jimmy aveva mosso i primi passi di musicista. Nello stesso anno, per dire, aveva pubblicato su Drag City Insignificance, un disco di rock ordinario che più ordinario si poteva (per quanto la parola ordinario possa essere un complimento nei confronti di questo moderno guastatore e diciamocelo, grande produttore). In questo live registrato fra New York e Osaka ce lo ritroviamo alle prese col minimalismo, con l'elettronica analogica, con il glitch tanto in voga ai tempi, per un trio di titoli che sembrano costruiti in forma compatta e con una sequenza tutt'altro che casuale, anzichè prelevati da un palco (non si sente nessuno fiatare, e la qualità del suono non a caso è pari a quella di uno studio). Per questo, pur partendo da premesse tutto sommato non molto originali, è innegabile che si tratti di un capitolo elegante e raffinato, oserei dire, di volgare contemporanea elettronica.

martedì 11 dicembre 2018

Comsat Angels ‎– Sleep No More (1981)

Un suggerimento tira l'altro, così il buon Fabio mi ha consigliato l'ascolto di questa band di Sheffield che, devo essere onesto, ritenevo minore sulla base delle letture su di loro inerenti che mi erano capitate nel corso degli anni. D'altra parte, ho sempre pensato che anche per la new-wave storica valesse il postulato per cui, nel mazzo di valore, qualche scartino c'è sempre. Invece.
Questo quartetto venne scritturato dalla Polydor e realizzò 3 album perfettamente aderenti al trend della prima dark-wave, col santino Joy Division bene in evidenza, com'era inevitabile, ma comunque di medio-alto valore, paragonabile anche a Sound e Modern English, e perchè no, i primissimi U2, con i quali divisero anche un tour. Voce nasale e algida, tastiere atmosferiche, sezione ritmica bella marcata e qualche grande pezzo. Su questo loro secondo, sicuramente The Eye Dance, Be Brave, Dark Parade. Il potenziale commerciale era enorme, in ottica di progressione, ma in un certo senso per lorò andò a finire come per i Sound: grande tenacia e voglia di farcela, pochi risultati.

lunedì 10 dicembre 2018

domenica 9 dicembre 2018

Keiji Haino ‎– Abandon All Words At A Stroke, So That Prayer Can Come Spilling Out (2001)

Scelta oculata dalla sterminatissima discografia di KH, se non altro perchè PS gli ha affibbiato un bel 7/10 e poi in quanto rientra nella categoria "dischi senza chitarra, e quindi interessanti per recepire traiettorie diagonali della sua arte".
In tal senso, questo doppio cd rilasciato nel 2001 dalla canadese Alien8, una label che si è sempre dedicata parecchio al Sol Levante, si tratta di un vero centro perchè Whereto Can I Cast Away This Fragrant Echo Called The End, So That I May Summon An Awakening From The Other Side? è un eccezionale suite di 47 minuti per hurdy-gurdy e voce. Ci si dimentichi del suono tradizionale di questo antico strumento; KH lo trasforma in macchina dronica generatrice di paesaggi foschissimi, di nebbie glaciali, di insostenibili thrilling, suonandola di fatto come avrebbe trattato la sua 6 corde. Un viaggio indimenticabile.
Col secondo cd purtroppo non si replica la magia: con I Have Decided To Tear You To Pieces. Whether You Become Light Or Darkness Depends On You. I Wonder, Which Shall You Choose? KH si lancia sulle percussioni (sia acustiche che elettroniche) alla sua maniera, come un samurai impazzito, corredando con le sue urla belluine in una consueta performance estremista. Detto che 44 minuti così sono decisamente troppi, per quanto le variazioni siano innumerevoli, se non altro il capitolo resta una sua pietra angolare per la prima suite, davvero monumentale.

venerdì 7 dicembre 2018

Bare Minimum ‎– Bare Minimum (1996)

Completiamo la risicata discografia del Minimo Sindacale, questo quartetto che dalla Bay Area si mosse a Seattle, senza fortuna: il grunge era già finito, figuriamoci se c'era spazio per una musica senza tanti compromessi come la loro. L'esordio omonimo non fu per nulla inferiore all'ottimo Can't cure the nailbiters che finì per essere il canto del cigno; un alternative noise di vaga derivazione hardcore, non molto dissimile da quanto stavano realizzando nello stesso anno i Crownhate Ruin. Quindi, una band già matura nel mettere in scena 5 pezzi piuttosto lunghi, innestati di venature slintiane, dalle ritmiche scomposte, dalla voce incattivita e dalle chitarre spigolose ed affilate. Da recuperare per chi ama questi suoni così novantiani, ma invecchiati alla grande.

mercoledì 5 dicembre 2018

Sleep ‎– The Sciences (2018)

Ci sono voluti 9 anni dalla reunion ufficiale per ritrovarci fra le mani il nuovo disco degli Sleep, con un artwork curiosamente fantascientifico; eppure basta scrutare un secondo in più fronte e retro per avvistare dei cimotti di ganja che galleggiano nello spazio, fra la sonda e l'astronauta, o per meglio dire, il Marijuanaut di cui si fa il Theme in uno dei migliori episodi dell'album.
Non importa che cosa ci si aspettasse da Cisneros e Pike; quello che si voleva da loro ce l'hanno consegnato, e con l'ausilio fondamentale di Roeder, che si conferma un drummer pienamente all'altezza. Sono 6 pezzi in tutto, non si esagera con le durate (al massimo si arriva ai 14 minuti di Antarticans thawed, che sembra una miniatura involontaria di Dopesmoker ma in sostanza è l'episodio meno entusiasmante), il suono è quello bello che fa vibrare gli attributi, la forma è stellare nonostante barbe ingrigite ed occhiali. Marijuanaut's theme viaggia ad una velocità che per i loro standard è quasi supersonica, con Cisneros che svisa alla grande. Quasi di rigore il battesimo discografico di Sonic Titan, un live-must fin dai tempi di Holy Mountain. L'omaggio Giza Butler spicca per il motivo iniziale, quasi mediorientale, alla Om, per poi innervarsi della potenza sismica propulsiva. Splendido il finale di The Botanist, che concede prima atmosfere rilassate grazie ad un inedita chitarra pulita di Pike ed una seconda parte pseudo-dub-freeform con feedback raggelanti. 
Lunga seconda vita a questi re.

lunedì 3 dicembre 2018

Faucet ‎– Faucet (1995)

Oscurissima band che realizzò soltanto questo omonimo su Southern, e del quale lessi una recensione positiva sul n. 0 di Blow Up. Restarono segnati sui miei appunti degli acquisti da valutare, invano; ma oltre vent'anni dopo pervengo all'ascolto, e si tratta di un noise-rock tipicamente USA invecchiato alla grande. Attacco a doppia chitarra fragososa ma non chiassosa, ritmiche spesso dispari, l'influenza dei Rapeman e Steve Albini che circola ma non opprime, qualche curiosa incursione vagamente hard-rock (a giustificare le lunghe criniere dei componenti, direi). Quel che si dice un disco cazzuto e vigoroso, seppur un po' monocromatico; non avrebbero mai cambiato la storia ma hanno lasciato un più che buon lascito.

sabato 1 dicembre 2018

Angelic Process ‎– Coma Waering (2003)

Per me che ho ascoltato per primo il disco finale del duo georgiano, l'analisi della retroguardia è stata di rigore e scoprire Coma Waering è stata ancor più una sorpresa. Se nell'atto conclusivo il duo concentrava l'enfasi sulle melodie ricoperte di plutonio radioattivo, sul secondo si destreggiava in sfide titaniche con grande attenzione per le ritmiche, per un risultato finale articolatissimo, per non dire spericolato. I saliscendi che si susseguono senza sosta, così come le esplosioni, i goticismi che trasudano da tutti i pori (il pensiero vola rapidamente a Pornography), le avvincenti composizioni, rendono Coma Waering il loro disco migliore; a 15 anni di distanza, per non dimenticarli, per l'importanza e l'originalità che hanno rivestito come attori di un suono immediatamente riconoscibile.

giovedì 29 novembre 2018

Scream From The List 77 - Nico – The Marble Index (1968)

Per il cinquantennale, il pronto recupero della messa più sepolcrale della sacerdotessa delle tenebre. Ancor più di Desertshore, che perlomeno evoca qualche paesaggio per quanto fosco sia, The Marble index è un flusso quasi ininterrotto di harmonium sul quale la Paffgen salmodia le sue poesie con fare articolato e solenne. A John Cale toccò l'onere di aggiungere viole stratificate, qualche percussione, qualche nota di piano ed un pezzetto di chitarra. Il disco nasceva dalla voglia sfrenata della tedesca di mettere da parte la sua bellezza e di farsi prendere sul serio; a mezzo secolo di distanza, la seconda  è assolutamente garantita e questi madrigali melmosi stanno ancora lì a stregare, spietati ed ancestrali.

martedì 27 novembre 2018

My Dying Bride ‎– The Angel And The Dark River (1995)

Uno dei masterpieces del doom-metal anni '90, da parte di una delle punte della triade britannica completata da Paradise Lost ed Anathema. Significativo perchè, al terzo album, il cantante abbandonava del tutto i growls in favore di una modulazione sofferta e fatalista, la produzione era più pulita rispetto al precedente, le parti lente e titaniche sempre più predominanti, violini e tastiere impreziosivano le orchestrazioni in modo essenziale e melodico. Un disco monocromatico, ma così emotivo e straziante da abbattere anche le lungaggini (una decina di minuti in meno avrebbe giovato all'insieme). Black Voyage e The cry of mankind le tracce migliori.

domenica 25 novembre 2018

Antarctica – 81:03 (1999)

Unico (e doppio) album di un quintetto newyorkese dalle grosse potenzialità commerciali, ma poi rapidamente finito in un black-hole. Questo in quanto il loro suono era un indie-rock screziato di elettronica ma sostanzialmente riferito ai Cure, o per meglio dire ad un arco temporale corrispondente a tutti gli anni '80 della banda di Ciccio Smith, inclusa l'appendice chitarrosa di Wish. Pezzi medio lunghi, spleen ridondante, effluvi elettrici, vocalizzi fin troppo affini nell'arrendevolezza (o svogliatezza, dipende dall'interpretazione), ma io aggiungerei anche qualcosa dei Death Cab For Cutie, anche se occorre dire che il loro primo fu coevo ad 81:03, nonchè agli Aloof, compari di periodo ed influenza. Un ascolto gradevole per i Cure-heads, ma anche per gli indie-hipster di area.

venerdì 23 novembre 2018

This Heat ‎– Made Available (John Peel Sessions) (1977)

Ben due anni prima del loro primo vinile di rottura, i This Heat erano già al Maida Vale a registrare per l'ultra lungimirante John Peel, che li chiamò esterrefatto dopo aver ascoltato il loro demo di presentazione. Questo prezioso documento di recupero, inerente ad una seduta di Marzo ed una ad Ottobre, fu reso pubblico soltanto vent'anni dopo e neanche dalla Strange Fruit, come di solito accadeva per le sessioni più prestigiose. Quindi la maledizione di essere troppo avanti per il trio di Camberwell continuava in maniera spietata, ma sempre meglio fuori che in un cassetto.
Poco da dire sull'art-avant-elettro-noise-rock di questa entità micidiale; occorre senz'altro rimarcare la qualità sonora delle registrazioni, courtesy degli eccezionali tecnici che la BBC aveva in scuderia in quegli anni; nello specifico, qui Malcolm Brown e Tony Wilson (no, non quel Tony Wilson lì, ma un omonimo), che davano al tridimensionale TH-sound la perfetta profondità e la cura adatta soprattutto alle ritmiche. Fenomenali Horizontal Hold e Rimp romp ramp, a mia saputa rimasto inedito altrove.

mercoledì 21 novembre 2018

.O.Rang - Fields And Waves (1997)

L'ethno-dub più lussureggiante e variegato che mai dei due ex-Talk Talk, purtroppo destinato ad essere l'ultimo in quanto Paul Webb si disinteressò al progetto, portandolo di fatto allo split nonostante un terzo album fosse in cantiere. Disco molto più prodotto e curato del precedente, Fields And Waves schiera uno stuolo di musicisti aggregati fra cui i più rinomati furono Beth Gibbons dei Portishead e Graham Sutton dei Bark Psychosis, e brilla in modo particolare per le innumerevoli soluzioni che i due talentuosissimi musicisti sapevano apportare a composizioni avvincenti, nonostante restassero flussi di coscienza diluiti. Un peccato che si fermarono qui; a modo loro, anche questo era post-rock illuminato.

lunedì 19 novembre 2018

Lycia ‎– A Day In The Stark Corner (1993)

Il terzo album di Mike Van Portfleet, incastonato fra l'ancora acerbo Ionia ed l'opus magnum The burning circle, e come esso solenne e gigantesco affresco di gotico atmosferico, fra le strali chitarristiche, l'abbondanza di tastiere aeree ed i battiti tonfanti e riverberati della drum machine. Poco da dire, un'arte sopraffina, fatalista e stregata, un suono unico ed immediatamente riconoscibile che nessun'altro in campo gotico nessuno saprà replicare con efficacia (penso soltanto ad Aidan Baker, che con Nadja trasfigurerà un approccio simile immerso in lava metallica) e che costituisce un modello probabilmente insuperato.

sabato 17 novembre 2018

Preoccupations ‎– New Material (2018)

Quartetto canadese su Jagjaguwar che come i Soror Dolorosa, Soft Moon e qualche altro nome attuale, fa uno spudoratissimo revival della new-wave più algida e ritmata, come se non fossero passati quasi 40 anni, fregandosene altamente e propinando al pubblico giovane del materiale (il titolo enuncia, direi ironicamente, l'attualità della proposta) che sembra quasi prodotto con un apposito software riciclatorio. Così verrebbe da stroncarli, se non chè un nostalgico come me che ha scoperto il genere una decina d'anni dopo il tempo reale non può non restare affascinato da anthem sulfurei di synth-dark come Espionage, Solace, Disarray o da lenti cadenzati e solenni come Manipulation e Doubt, che pescano senza ritegno da Cure e Joy Division, a secchiate. Così il giudizio più o meno obiettivo dipende esclusivamente da quanto possa piacere il prodotto.

giovedì 15 novembre 2018

Klaus Schulze ‎– Blackdance (1974)

Terzo disco e terzo capolavoro di KS agli inizi di un interminata carriera (ad oggi fanno 137 titoli, si scusi se è poco). Blackdance fu disco più organico del precedente Cyborg, e si intuisce fin dall'inizio: un inaspettata classica a 12 corde da il là a Ways of changes, per lasciare poi spazio ad una meravigliosa cavalcata cosmica per bonghi ed orchestra di synth. Some velvet phasing è una fantastica meditazione statica. La facciata B è interamente occupata da Voices of syn, inquietanti bordoni di organo, poi fluttuazioni di ritmica meccanica, una combinazione di figure astratte che si rincorrono angosciate ed estasiate al tempo stesso.
La ristampa giapponese del 2007 comprende due bonus track del 1976, che in apparenza c'entrano abbastanza poco, sia per il suono (molto freddo e sintetico) che per i contenuti, che lasciano già intravedere un declino fisiologico di questo grandissimo maestro ambientale.

martedì 13 novembre 2018

Queens Of The Stone Age ‎– Queens Of The Stone Age (1998)

Che vista lunga che aveva il rosso Josh Homme. Dopo lo scioglimento dei Kyuss si portò il batterista Hernandez e varò QOTSA. Nel ventennale vale la pena di ricordare il loro album di debutto, sul quale scommise (a ragione) la label di Gossard dei Pearl Jam, unico ed ultimo indipendente perchè il successo fu immediato. Un disco roccioso e compatto, accattivante e sornione, che già sorpassava l'epic-stoner dei Kyuss, e non soltanto perchè al posto della voce ruggente di John Garcia era subentrato il falsetto esile e beffardo di Homme.
Abbondano i pezzi irresistibili, da quelli che riprendevano la vecchia lezione tellurica della band madre (Regular John, Avon, Mexicola) a quelli che schiudevano aperture power-pop trascinanti (If Only, How to handle a rope), a quelli un po' più sofisticati, e a mio parere i migliori (You would know, You can't quit me baby). Roboante.

domenica 11 novembre 2018

Joy Division ‎– Les Bains Douches 18 December 1979 (2001)

Fa coppia col concerto di Preston uscito un paio d'anni prima, cioè in uno dei massimi momenti di revival JD (nonchè di revival new-wave). Per chi ha visto Control, il periodo è ben noto: è il tour fra Francia e Benelux, Curtis è seguito dalla sua amante belga, sta sempre peggio con gli attacchi ma la band è in una forma a dir poco stellare; Sumner si porta il synth sul palco per fare Insight, Hook e Morris una macchina da guerra implacabile, il suono è bello abrasivo e parecchio distante da quello ripulito degli album in studio (che piaccia o meno l'uno o l'altro).
La scaletta in realtà riguarda Parigi solo per 9 pezzi su 16, mentre il resto verte su un paio di date in Olanda del mese successivo. Il dato interessante è l'inclusione di pezzi meno frequenti come These Days, Dead Souls e Digital, ed a differenza di Preston non mi pare di udire errori evidenti. Per cui, ricorrenza doverosa e, una volta tanto, buona operazione discografica. Per non dimenticare mai.

venerdì 9 novembre 2018

Roger Waters ‎– Is This The Life We Really Want? (2017)

Chi è invecchiato meglio dei Pink Floyd? I bolsi Gilmour e Mason, protagonisti di un tonfo clamoroso di senilità con The Endless river oppure il buon vecchio Ruggero Acque, tornato l'anno scorso dopo un silenzio discografico di un quarto di secolo? E qualcuno ancora si sarebbe aspettato una reunion, dopo il live 8 del 2005?
Il fatto è che Is this the life rischia di essere il suo miglior disco solista, ed è tutto un dire. Prima di ascoltarlo, non mi aspettavo minimamente che a 75 primavere Waters potesse ancora dare una prova così che non solo non è il diavolo, ma è il miglior disco dei Pink Floyd degli ultimi 40 anni. Che tirasse fuori una cosa di carattere non avevo dubbi, e la materia prima non gli mancava di sicuro: navigare nel torbido di un mondo sempre più in declino, degradato, barbaro ed insensibile non potrebbe esser stata miglior fonte d'ispirazione. La sorpresa è che musicalmente è la miglior sintesi possibile del Waters storico; indubbiamente il tempo impiegato (che non sarà stato certo 25 anni, ma almeno 10 potrei sostenerlo con serenità) ha giocato a favore, ma il merito maggiore in realtà potrebbe essere imputato a Nigel Radiohead Godrich, il famoso produttore che non soltanto ha svolto il suo lavoro con il giusto distacco e reverenza, ma pare che abbia convinto il suo creatore a tagliare, a condensare il materiale in modo da renderlo più compatto e concentrato. Conoscendo l'ego di Waters, dev'essere stata un impresa titanica.
Poco da dire sul contenuto; i fans storici dei PF troveranno il giusto godimento, perchè la retrospettiva è pressochè totale, a volte ai limiti dell'autoplagio (Smell the roses ad esempio, che è una ripresa di Have a cigar, come negarlo?), ma stiamo parlando di un istituzione che col tempo non perde il proprio valore. Un po' di Wall ce n'è, ma la fonte più attinta a mio avviso è quel gran disco, poco citato nei libri di storia, che fu Animals. Monumento.

mercoledì 7 novembre 2018

Iceburn ‎– Hephaestus (1993)

Un'anno dopo il debutto Firon, il power-trio originale degli Iceburn spaccò la mela in due con questo concept (almeno a livello musicale, non so nei contenuti lirici) di oltre 70 minuti. Testimonianza di una progressione alla velocità della luce, tant'è che l'anno succesivo amplieranno la line-up col terzo Poetry Of Fire. Spezzettato in 28 tracce perlopiù inferiori ai due minuti di durata ma difatto una soluzione unica, Hephaestus è un concentrato di jazz-hardcore con qualche punta psichedelica, in cui la tecnica non prevarica mai le strutture o la compattezza. Un disco difficile ma avvincente, che rappresenta una delle massime evoluzioni di quanto fecero gli ultimi Black Flag.

lunedì 5 novembre 2018

Shipping News ‎– Very Soon, And In Pleasant Company (2001)

Nel momento in cui uscì, il secondo album degli Shipping News si portava dietro delle grosse aspettative, e non solo in casa Quarterstick: per Jeff Mueller era diventato il gruppo principale all'indomani dello split dei June Of '44 e i Rachel's di Jason Noble non attiravano più le stesse attenzioni del 1995/96. Dopo il buon esordio con Save Everything di quello che sulle prime sembrava più che altro un progetto secondario, Very soon.... li pose in rilievo come i più accreditati eredi del post-slintianesimo. E' un album praticamente perfetto, nonchè il seguito più credibile al mitico Rusty dei Rodan. C'è tutto il necessario: le fasi sincopate e graffianti, quelle sognanti e delicate, le atmosfere sospese, i tonfi ed i deliqui, e poi ci sono le canzoni; convincenti, ben scritte ed eseguite, cantate esclusivamente da Noble e quindi più sbilanciate verso la melodia. Produzione perfetta e non va escluso dai credits il batterista Crabtree, poco meno che fondamentale. Memorabili l'articolatissima Quiet Victories e l'iniziale The March Song.

sabato 3 novembre 2018

Oronzo De Filippi ‎– Meccanizzazione (1969/71)

Nel suo manifesto Blowuppiano sulla Library (#158/9), Valerio Mattioli data Meccanizzazione anno 1969 contro il 1971 di Discogs. Sottigliezze? Può darsi, in confronto all'opinione del grande giornalista romano; scrive egli infatti che più che rievocare i ritmi dell'industria, il disco fa pensare più a Capri.
L'oscuro Oronzo De Filippi è accreditato in pochissime pubblicazioni dell'epoca e soprattutto non si sa nulla di lui. Googlando il suo nome escono più che altro pagine in inglese, e peraltro tutte entusiastiche. Non potendo ricavare altre info, giocoforza ci rilassiamo all'ascolto di questa mezz'oretta scarsa di godevolissima jazz-lounge-bossa che trasudano italianità da tutti i pori. Poi è chiaro che viene in mente più la costiera amalfitana che una fabbrica, ma dev'essere questo necessariamente un limite?

giovedì 1 novembre 2018

Leafcutter John ‎– Tunis (2010)

E' un po' che non abbiamo più notizie di John Burton, per cui retrospettiva su questo pseudo-live dal concetto fascinoso: invitato ad un festival a Tunisi, gli è stato imposto di eseguire il suo concerto con l'ausilio anche di materiali registrati nei dintorni. Col nastro poi è tornato a casa ed ha assemblato il disco finale, risultato in un meltin' pot ambizioso di influenze locali, un po' di acustica ed electro-ambient polverosa, misticheggiante, da miraggio desertico. Fra canti di muezzin, strumming, droni estatici, ipnosi e tribalismi, Burton è riuscito a non farsi prendere la mano ed ha fatto centro, e che si tratti di un live ce ne accorgiamo solo negli ultimi secondi, quando un caloroso applauso si leva dal pubblico.

martedì 30 ottobre 2018

Scream From The List 76 - Musica Elettronica Viva ‎– Leave The City (1970)

La Audion Guide pone una postilla alla voce MEV: Although some people may quote other MEV albums, this relates most closely to NWW's own music, being more rock avant-garde. Possiamo anche trovarci d'accordo, ma come la mettiamo col fatto che Alvin Curran, il factotum dell'entità MEV (per chi non lo sapesse, raggruppamento di hippie-dropouts americani radunati a Roma a fine anni '60 per delle improvvisazioni più o meno radicali, più o meno aperte a chiunque), ha dichiarato che Leave the city è il parto di due ragazzi francesi entrati nel collettivo e poi scappati in patria a fare il loro disco "rubato"?
Certo, il concetto di gruppo aperto in questo caso fu un po' troppo frainteso oppure Ivan e Patricia Coaquette fecero una furbata dalle possibili conseguenze legali, poi non avvenute. Curran la prese con filosofia, evidentemente, e difatti l'album non compare nella discografia di Wikipedia, ad esempio. Se lo confrontiamo con il coevo, originale di appartenenza The sound pool, possiamo indubbiamente trovare delle assonanze, sia concettuali che di sonorità. Quindi facciamo finta di niente e lanciamoci nell'ascolto di queste due suite da oltre 20 minuti.
Message è una mini sinfonia hippy per percussioni, droni, flautini, campanine e coretti estatici. L'effetto ipnosi è garantito, ma forse dura un po' troppo.
Molto, ma molto meglio Cosmic Communion, un oscurissimo e rovinoso gorgo elettro-acustico, una roba da caccia alle streghe con coda sballo-acustica che sembra di sentire i Flying Saucer Attack più rurali, un quarto di secolo prima. E' questo a rendere il disco speciale, al di là di tutte le premesse e i fattacci inerenti.

domenica 28 ottobre 2018

Girls Against Boys ‎– Venus Luxure No.1 Baby (1993)

La coesione assoluta, il climax sonoro, la messa a fuoco incendiaria, questo è Venus Luxure. Dopo gli esperimenti in precariato ed il primo sorprendente album, era nell'aria che i GVSB avrebbero sfornato un capolavoro del genere, ed oggi ne celebro personalmente il venticinquennale (nella mia graduatoria del 1993, si classificò terzo). Ormai seppellite le origini hardcore, i quattro si concentravano sull'impatto frontale, con ben pochi fronzoli. Una scaletta infallibile, con le dovute pause strategicamente ben equidistanti (la torbida Satin Down, la melmosa nenia Get Down, la spettrale Bug House, il miglior finale possibile). Il focus del disco, una mitragliata di corse a rotta di collo, Go be delighted, Let Me Come Back, Learned It, Billy's one stop, e in evidenza il video-lancio Bulletprood cupid, che vidi incantato e magnetizzato per la prima volta su Indies (purtroppo ora introvabile sul tubo). L'amalgama generale e gli arrangiamenti di Janney erano i loro segreti principi, ma non posso fare a meno di segnalare Fleisig come il migliore in campo, uno dei migliori batteristi di tutti i nineties.

venerdì 26 ottobre 2018

Messthetics ‎– The Messthetics (2018)

Solletica la fantasia. Sì, facile intuirlo. Quella che forse hanno tanti in comune.
FF di Bastonate ha scritto una delle sue memorabili: Non riesco a decidere davvero se quello dei Messthetics sia un disco bellissimo o una scoreggia epica, ci sono tanti argomenti a favore dell’una e dell’altra tesi. 
Per chi non lo sapesse, Messthetics è un tech-trio, al basso c'è Joe Lally, alla batteria c'è Brandon Canty. Ma la musica che fanno non c'entra nulla coi Fugazi, davvero, perchè con loro c'è un guitar-hero, tale Anthony Pirog, che evidentemente ha rispetto ma nessun timore reverenziale nei confronti delle due eminenze grigie e fa la sua cosa, ingombrante, buzzurra, eccessiva, ma a volte anche di buon gusto. Il formato e certe arie me li fanno pensare come una versione pseudo-intellettuale dei Mermen, più calata nel presente.
Alla fine non è nè bellissimo nè una scoreggia epica. E' un disco che sarebbe potuto essere ben poco digeribile, ma se chiudiamo gli occhi e non pensiamo alle due eminenze e ci lasciamo andare, sentiamo l'onestà di fondo che trasuda e la accettiamo di buon grado.
Ah, la fantasia di cui alla prima riga....non è passata. Se fosse stato tutto un grande scherzo, una palestra, un preparativo? Chissà....

mercoledì 24 ottobre 2018

Sophia – Fixed Water (1996)

Gennaio 1997, Fixed Water arriva nel mio negozio di fiducia a due mesi di distanza dall'uscita, album n. 4 della Flower Shop di Robin Proper Sheppard. Mi ero messo il cuore in pace con la fine dei God Machine, due anni e mezzo prima, e le già viste recensioni parlavano di una conversione al cantautorato semi-acustico, a suoni placidi e quieti. Il Pig mette su il cd e partono le note fragili, lente e ben scandite di Is It Any Wonder.
Qualche anno dopo, quando Robin capitò a suonare dalle mie parti, me lo sono fatto autografare.
E' un sabato pomeriggio freddo e nebbioso, e manca pochissimo alla mia partenza per il servizio militare. Fixed Water scorre tranquillamente, come fosse un raccoglimento semi-malinconico alla memoria di Jimmy Fernandez. Trovavo curiosa e non appropriata la scelta di un monicker così anonimo, Sophia. Era forse ella una donna così importante da meritarselo?
Una svolta dolorosa, una catarsi silente, una specie di purificazione. In tutta sincerità, Fixed Water non è stato il suo album migliore: a posteriori, i brani veramente memorabili sono soltanto 3 su 8: So slow, When you're sad e The death of a salesman, che oggi chissà perchè mi fa venire in mente Kurt Cobain, immaginandomela in versione grunge. Sarebbe stato un anthem perfetto per i Nirvana.
Questo è un caso in cui il valore affettivo supera quello intrinseco. Dopo pochi giorni, le note di quei 3 pezzi mi risuonavano in testa continuamente, le avevo già mandate a memoria indissolubile. Era il debutto di Robin Proper Sheppard; volevo bene a questo artista.

lunedì 22 ottobre 2018

Volcano The Bear ‎– Egg And Two Books (2006)

Live dei VTB giocato in casa in quel di Leicester, registrato nel giugno del 2006. Droni incessanti, fanfare dissonanti, voce straziata e disgraziata, chitarre acustiche stentoree, batteria tonfante sullo sfondo, piani suonati senza pietà, per un concerto che paradossalmente, rinunciando agli studio-tricks o alle sovraincisioni, costringe i quattro a giocare all'essenziale finendo così per evitare le lungaggini che hanno quasi sempre minato i dischi in studio. Si trattava comunque di un periodo di grazia, dato che dello stesso anno è il loro capolavoro riconosciuto. Difficile dire se si tratti di un disco per completisti, vista la peculiarità del loro marchio: di sicuro è uno dei migliori.

sabato 20 ottobre 2018

Mick Karn Featuring David Sylvian ‎– Buoy EP (1986)

Solitamente non mi soffermo sugli EPs singoli, ma in questo caso occorre fare un'eccezione perchè questo 12" segnò una importante, seppur isolata, riappacificazione fra Sylvian e Karn, a 3 anni dallo scioglimento dei Japan, il cui motivo era il logoramento dovuto alla ben nota tensione fra i due. Il pezzo che intitola il vinile, fra l'altro, è un autentico gioiello; atmosfera notturna, ritmica decisa ma raffinata, grande enfasi sul clarinetto e sul basso di Karn, il valore aggiunto della voce di DS. Un passo in avanti rispetto alle ultime prove dei Japan, una deviazione per entrambi che avrebbe meritato più spazio, peccato non si siano spinti oltre. I restanti due sono strumentali per soli fiati (Dreams of reason) ed una specie di soundtrack dal sapore etnico (Language of ritual), sicuramente marginali ma comunque gradevoli, in quanto in linea con la produzione contemporanea del grande bassista.

giovedì 18 ottobre 2018

Wraiths ‎– Oriflamme (2006)

Atto d'esordio del duo più temibile delle brughiere scozzesi, ovviamente autoprodotto, stampato in 50 cd-r e poi riedito in vinile dalla Aurora Borealis un paio d'anni dopo. Come il successore, il terrificante Plaguebearer, è un incubo industrial-noise di stampo ritualistico diviso in due tracce da 20 minuti, ed è un efficacissimo anti-stress: scie galattiche, sbuffi metallici, abissi di perdizione, vortici sterminati, droni ispidi ed irsuti. Leggermente inferiore al sopracitato, ma soltanto perchè più monocromatico; mancano gli spunti percussivi, che forse hanno costituito il punto di forza. Ma restano molto ma molto superiori alla media dell'harsh-noise degli anni Zero.

martedì 16 ottobre 2018

Motorpsycho ‎– Timothy's Monster (1994)

Un passo importante di carriera: dopo i riconoscimenti internazionali per Demon Box, l'approdo su major fu pressochè inevitabile. Ciò che stupiva era che, passato neanche un anno da quel mastodonte, i ragazzi di Trondheim se ne tornavano con un doppio cd. La prolificità resterà una costante nel proseguio del loro cammino, a volte anche a scapito della qualità.
Forse proprio per questo motivo al tempo vidi Timothy's Monster come una mezza delusione: rispetto a Demon Box mancava la giusta follia, era un album meditato, dilatato e con alcune lungaggini che potevano renderlo un ottimo singolo. La formula indie-psych-hard restava esaltante, ma le debolezze insite in questo paio d'ore abbassavano la media con le perle incastonate: Trapdoor, Wearing Yr Smell, Leave it like that sul versante squisitamente Dinosaur Jr, On my pillow splendida ballad slacker-lisergica, i 17 minuti della possente ed evocativa The Wheel, i 13 della celestiale esplosione The Golden Core.
In ogni caso, riascoltandolo oggi dopo oltre 20 anni, Timothy's Monster riacquista un certo valore anche nei momenti meno esaltanti. D'altra parte, la bravura dei Motorpsycho era quella di saper mutuare con evidenza mediando con la grandeur scandinava e quel senso dell'eccesso tutto loro. Oppure sarà soltanto il ricordo dell'adolescenza.

domenica 14 ottobre 2018

Xiu Xiu ‎– Knife Play (2002)

Lo spiazzante e sorprendente album di debutto di Jamie Stewart, un po' prima che il moniker lo identificasse in maniera radicata e pressochè solista. Nel pieno del revival della new-wave se ne usciva alla guida di un quartetto che riusciva nell'impresa di creare un ibrido fra Mark Hollis, David Thomas e il synth-pop. Sarà il primo di una lunga serie che continua tutt'oggi, un po' abusata a dire la verità, ma comunque espressione di un output artistico sincero ed eclettico, con una sensibilità che ha ben poco di americano. Knife Play ne era la pistola fumante, ed ebbe un riscontro di critica immediato ed unanime: più che di coltelli, un gioco di ombre e luci, vuoti e pieni, schizofrenia e sentimento. Per almeno 3/4 anni, Xiu Xiu resterà una garanzia.

venerdì 12 ottobre 2018

Birthday Party ‎– Junkyard (1982)

Serviva una replica ancor più violenta del debutto Prayers On Fire per aggiudicarsi probabilmente la palma di disco più crudo e cruento di tutta la storia della 4AD. Un vero e proprio abisso separava l'art-dark-punk dei primi artisti che pubblicarono sull'etichetta di Ivo (Bauhaus, Modern English, Colin Newman) dai primi due album degli australiani; macelleria noise-blues destinata ad avere un'influenza gigantesca che si espanderà anche in tutto il nordamerica, ben oltre il decennio di appartenenza. Un Nick Cave animalesco ed esagitato ma dopotutto ancora abbastanza basso nel mixing era il valore aggiunto di una produzione un po' compressa; un teatro degli orrori forse non invecchiato benissimo, ma che fa ancora il suo cattivo effetto.

mercoledì 10 ottobre 2018

Yowie ‎– Synchromysticism (2017)

Math-rock acrobatico ed ultra-compresso da parte di un trio statunitense che tiene alto il vessillo ultra-ventennale della Skin Graft e che tramite essa ha rilasciato soltanto 3 album in 13 anni, si dice a causa di una pignoleria oltre i limiti del maniacale. Batteria ad orologeria sincopata, chitarra scurissima e chirurgica ma soprattutto un basso pauroso e rombante....che un basso non è, scopro alla fine, bensì di una chitarra baritona. Una coesione che ha dell'elettronico, dell'ingegneristico, e la strategica durata di mezz'ora (vista la monocromaticità, una scelta davvero intelligente) per un disco che incute timore ed ansia. Curioso il fatto che molte recensioni l'abbiano accostato al progressive; a me sembra un po' astruso, ma capisco che siamo di fronte ad una musica davvero peculiare.

lunedì 8 ottobre 2018

Insides ‎– Euphoria (1993)

Preludio a quel sublime trionfo che fu Clear Skin, questo fu il debutto della coppia Tardo/Yates, nove pezzi di dream-pop a base di elettronica raffinata. La voce suadente e delicata della seconda sopra le basi e le chitarre cristalline del primo, per un assieme di bellezza assoluta. Semplicistico in confronto al loro capolavoro, ma assolutamente paradiasiaco. Per gli amanti dei Seefeel potrà sembrare un po' troppo pulitino, per quelli dei Cocteau Twins potrà sembrare poco sviluppato in termini di arrangiamenti; certo è che la loro voce personale l'avevano trovata, e vien da chiedersi come mai la 4AD non se li fosse accaparrati.

sabato 6 ottobre 2018

Mamiffer ‎– Mare Decendrii (2011)

Tre anni dopo lo splendido debutto che ci aveva fatto scoprire il talento di Faith Coloccia, lei e Turner tornavano con un secondo più ambizioso, più enfatico e magniloquente. Pezzi lunghissimi, uno stuolo interminabile di musicisti assoldati alle orchestrazioni, composizioni dilatate, fasi quasi prossime al silenzio. Sembra che Turner abbia preso campo nella progettazione (molte più chitarre, seppur sostanzialmente educate), e non è un bene; il primo pezzo, As Freedom Rings, si sviluppa su un giro pachidermico di vaga reminescenza Isisiana che tedia non poco (e non è per nulla attinente al mood generico della Coloccia). Per fortuna, a partire dai 20 minuti di We Speak in the dark la signora riprende in mano la situazione e le sue lente, ipnotiche partiture pianistiche tornano a farsi centrali, a sfiorare una musica da camera elettrificata ad alto impatto drammaturgico. Eating our bodies e Iron Water concludono il disco in grande bellezza, ristabilendo l'equilibrio imponente di questa artista dalla personalità impareggiabile.

giovedì 4 ottobre 2018

Ash Ra Tempel ‎– Schwingungen (1972)

ART atto secondo, Klaus Schulze se ne è già andato per lidi cosmici e viene rimpiazzato da Wolfgang Muller. Il bassista Hermut Enke gioca a fare il Roger Waters della situazione, prende in mano il gruppo e firma in totale solitaria i 3 titoli.
Ma cosa c'era mai da comporre, in sostanza sono 3 jams diluite: Light: Look at your sun, un blues acido e compassato. Darkness: Flowers must die una cavalcata semi-tribale. Suche & Liebe una suite elaborata in pieno stile floydiano alla Saucerful of Secrets, con tanto di finale estasiato. Ad un primo esame superficiale, sarebbe stato un disco passabilissimo, eppure entra dentro gentilmente, con il giovane master Gottsching che aleggia e galleggia sopra di tutto eludendo la forza di gravità, come solo lui sapeva fare.

martedì 2 ottobre 2018

Idaho ‎– People Like Us Didn't Stop (Live, Radio & Rehearsal Vol. 2) (2017)

Ci sono voluti solo 17 anni per dare un seguito a quel diamante grezzo e confuso che fu il volume 1 della (presunta) serie. Il nostro Jeff continua a dare in pasto ai suoi pochi ed affezionati fans materiale d'archivio, con la solita flemma, durante la lavorazione del seguito al balbettante You were a dick. Seguendo il filo del discorso cronologico, riprende una ventina di estratti dal vivo a partire dal 1994 (la sempre magnifica Drive It) per spingersi fino alle registrazioni del 2008 in Francia, da sempre terra europea di massima stima nei confronti del nostro.
Nel mezzo, vengono citati pressochè tutti gli albums che hanno segnato la sua saga: il quartetto del 1996 di Three Sheets to the wind (da brividi Get You Back), la fase successiva di Forbidden, Hearts Of Palm, Alas e Levitate con almeno un estratto cadauno, dopodichè giustamente più spazio al tour europeo dell'autunno 2002 che vide un cambio significativo e fu documentato sul grande bootleg di Gleis, a santificare discograficamente per la prima volta tracce come Up For Living e la sismica Bailout. Infine il salto al 2008, con le White Sessions di Parigi, un inedito registrato in Belgio (Purple, abbastanza ordinaria), To Be The One e Lately presenze obbligatorie, una curiosa versione accelerata di Social Studies e la pastorale baldanzosa Ready to go di cui ci mancava soltanto il titolo.
Come doveroso, il tutto dedicato alla memoria di John Barry.

domenica 30 settembre 2018

Scream From The List 75 - Alcatraz – Vampire State Building (1972)

Filed under le cose più accessibili della list, e pertanto destinate ad un oblio maggiorato in quanto nè innovative nè rivoluzionarie. Semplicemente jazz-rock fra Soft Machine di IV, Jethro Tull di Stand Up e Colosseum di Daughter of time, da parte di un quintetto amburghese che rischia di essere citato soltanto perchè registrò Vampire State Building nello stesso studio in cui, più o meno contemporaneamente, i Faust scrivevano la storia col loro primo.
Lo spettro coperto è notevole, partendo dall'opening soffice ed educato dell'apertura fino al tornitruante finale con tutto quello che ci poteva stare dentro, luoghi comuni o meno. Doveva esserci voluto del tempo agli Alcatraz per preparare questo album, lo registrarono in 3 soli giorni e poi restarono fermi fino al 1978. Non erano destinati a fare storia, ma erano veramente bravi e l'inclusione nella List fu un attestato di stima importante.

venerdì 28 settembre 2018

High Tide ‎– A Fierce Nature (1990)

Nel 1986 Tony Hill, dopo una quindicina d'anni di pausa, resuscitò la sigla High Tide, forse per un rinnovato interesse nei confronti del fenomenale act che aveva guidato a fine '60 nel ginepraio inglese, senza alcun successo. Inizialmente fece una cassetta con Simon House, poi ripescò due registrazioni d'archivio dei tempi, ed infine nel 1990 la tedesca World Wide Records gli permise di pubblicare ben 3 dischi, con il quale pose definitivamente la parola fine sulla storia del gruppo. Le uscite successive sono state tutte roba d'archivio, più o meno ben fatte.
Di quei 3 album inediti, A fierce nature è sicuramente il migliore, nonostante una registrazione che certo non è molto fedele, ma d'altra parte questa è stata la maledizione costante nella carriera del grande chitarrista. Ad aiutarlo in questa sede soltanto il batterista Drachen Theaker, il quale sfortunatamente soltanto due anni dopo è venuto a mancare per malattia.
Il tempo aveva ammorbidito un po' le velleità di TH, che qui si concentrava abbastanza sulla forma canzone, lasciando al modello jam soltanto un paio di tracce. L'assenza di House ovviamente lasciava il campo libero alla sei corde, ma in alcuni tratti si sentono gli echi di un passato in cui le arie autunnali e meditabonde si facevano largo, evidenziando un talento purtroppo rimasto inascoltato al mondo. Chess, Roll on e A fierce nature le migliori in questo senso, mentre il gorgo abissale di Incitement restituiva il lato più incendiario di HT. Il congedo acustico di Power and purpose invece ha il sapore di un saluto nostalgico, se non un po' amaro. Era giusto essere tornati, giusto per dire ciao, lo sapete che c'eravamo anche noi allora?

mercoledì 26 settembre 2018

New Year ‎– Snow (2017)

Imbiancati dalla neve, dai capelli e dalle barbe, i fratelli Kadane sono tornati a ben 9 anni di distanza dal precedente. 
Con un disco violento, aggressivo ed iper-veloce.
Scherzo, ovviamente. Cosa mai potrebbe cambiare? La title-track, una delicatezza di 6 minuti, sfodera un piano elettrico suonato dal buon Matt. Che torna nella stupenda filastrocca The last fall. Homebody è una florescenza con ritmo dispari che sembra prelevata di forza da What fun life was. Recent history, con la sua vigoria sembra prelevata dalla parte finale di Transaction de novo. Il nodoso valzer di Amnesia è pressochè una novità assoluta. L'altro pezzo lungo, The beast, è una stasi elettrica ad alto voltaggio che volteggia leggera leggera. Il resto della scaletta è poco più che ordinario.
Registrato da Steve Albini, Snow è arrivato quasi senza preavviso, quando ormai non pensavo più che fine avessero fatto. Continueranno a fare i soliti dischi per chissà quanto, i Kadane Bros, ed ogni volta mi stupirò di quanto siano maestri nella loro arte.

lunedì 24 settembre 2018

A.R. Kane ‎– "i" (1989)


L'estrema ambizione degli A.R. Kane si materializzò con questo doppio, appena un anno dopo lo splendido debutto. Evidentemente uno sforzo non da poco, dato che per un quinquennio ci fu uno iato e poi la dissoluzione. Il loro afro-indie-psych-shoegaze-pop si tinse di nuove suggestioni, incluse una maggiore accessibilità generale delle composizioni e qualche inserto elettronico, per uno scenario sempre più poliedrico. Un disco comunque non esente da difetti, fra cui la scarsezza generica del vocalist che emerge impietosamente (che fosse un punto caratteristico lo si era capito su 69) e l'eccessiva lunghezza, dato che tagliando 3/4 pezzi passabili (quelli un po' più danzerecci, ad esempio) si sarebbe eguagliato tranquillamente il livello precedentemente raggiunto. Resta comunque gradevolissimo.