Lo storico debutto del bloody noise-trio, un concentrato di terrore e ferocia allo stato puro. A distanza di un quarto di secolo, non mette meno paura che all'epoca.
Il suono denso, lavico e truculento della chitarra di Spencer (nonchè il suo grido cruento), il rombo ispido del basso di Shore, l'apocalisse tambureggiante senza soste di Ondras, in 12 tracce che in gran parte simulano bulldozer impietosi, ma anche varianti molto interessanti come spietate mattanze post-core-blues (Slag, Aza-2000) ed il pezzo finale, White Hand, che stabiliva un curioso ibrido da macelleria gotica.
Una violenza che resterà ineguagliata, insieme alla raccolta-necrologio per il defunto Ondras. Nei dischi successivi Spencer affinerà la barbarie con nuovi compari ed una maggiore professionalità, raggiungendo risultati notevoli fino al 1998.
Tassello cruciale di una carriera sfaccettatissima, almeno quanto lo è stato il gioiello ambient-rock del 2007. A sentire Perdition city, davvero si stenta a credere che sia lo stesso gruppo che 4-5 anni prima proponeva una formula di black-metal che, per quanto personale fosse, era pur sempre black-metal. Definirlo un disco trip-hop sarebbe comunque riduttivo: come spesso accade ai musicisti sopra la media di approcciare a gamba tesa un genere assai distante dalle loro radici, il risultato è mal che vada peculiare.
Le ritmiche stentoree di quella tendenza ancora molto in onda ai tempi sono soltanto un accessorio, in fondo: Perdition city è un concept notturno, lascivo e misterioso in cui splendono le soluzioni melodiche più aperte (Porn Piece Or The Scars Of Cold Kisses, Nowehere/Catastrophe), gli strumentali drammatici ( Hallways Of Always, Tomorrow never knows) e gli esperimenti più oppressivi (We are the dead, Dead city Entries). Sopra tutto questo, l'iniziale e memorabile perla di Lost in moments. Ai tempi lo scansai del tutto, ma avrà diviso non poco le opinioni e continua a farlo (Pitchfork addirittura lo derise in maniera sguaiata). Io credo sia giusto che col tempo vada annoverato come un capolavoro di electro-art.
(2) Nel primo Rockerilla che comprai, Gennaio 1993, c'era un ampio servizio dedicato ai bostoniani Bullet Lavolta, che era di fatto un necrologio; la band si era sciolta da pochi mesi, dopo un secondo disco su major ed aver potenzialmente mancato il grande successo. Nel settembre 1991 avevano diviso un palco coi Nirvana il giorno prima dell'uscita di Nevermind, e la stagione era di quelle buone sul serio, ma non se ne fece nulla e l'oblio se li inghiottii.
Quasi ogni gruppo di cui lessi in quel mensile così rivelatorio per me solleticava l'appetito di musica nuova, ma passai oltre anch'io. Così, a distanza di 24 anni, me li ascolto per la prima volta e nonostante i pre-dubbi vengo piacevolmente assalito da un infuocato hard-grunge-stradaiolo che teoricamente mi dovrebbe esser quasi indigesto. Invece The gift, che fu il loro debutto, denota una freschezza invidiabile per l'anno di uscita e soprattutto una produzione bella piena e corposa che sarà così decisiva nel grunge di successo (Nevermind a parte, infatti). Coppia di chitarre fragorosissime, cantante invasato ma con criterio, pezzi assatanati di derivazione punk e heavy-metal, qualche punta melodica che fa pensare addirittura ai Cheap Trick; insomma gli ingredienti per discrete masse c'erano, ma la fortuna soffiava su altri lidi e Boston era già toccata ad altri.
Gli amanti dei primi (comunque contemporanei a questa uscita) Bachi Da Pietra avranno tratto un sommario compiacimento nei confronti di questo trio bergamasco che se ne uscì col Cdr autoprodotto al quale è seguito un solo album vero e proprio nel 2011, Frontiera, e poi più nulla.
Difficile disquisire sulle possibilità di un evoluzione o di un cambiamento nella brillante formula dei Bancale; l'assetto richiama(va) decisamente quello del duo Succi/Dorella: niente basso, batteria minimale con assenza dei piatti, una chitarra meno tecnica e più concentrata sul feeling, un recitato filtrato indolente e strascicato ad opera del frontman Barachetti, impegnato a snocciolare paranoie ed alienazioni della vita moderna impregnata di frustrazioni lavorative e consumismo, e forse non a caso da una delle zone più produttive dell'Italia intera.
Solo 5 tracce, che sanno di blues malato e di slow-core notturno; un suono fumoso e maledetto, la dis-eleganza di un croonering artigianale e, a modo suo, unico. Un gioiello, fin troppo breve.
Ennesimo grido francese, reso ancor più affascinante dall'aurea di mistero che ammanta la storia del gruppo. Esiste solo una bio dei Pataphonie, che parla in sostanza di una band di amici che se ne fregava (come tantissimi altri nei '70) dell'indigeribilità della proposta, una specie di deformità avant-jazz-rumoristica che manda letteralmente in pappa il cervello. Non si può parlare di astrattismo, di cerebralità o di concetti del genere: questi due lunghi pezzi, di certo improvvisati e registrati dal vivo, sputano il linguaggio dell'assurdo di un quartetto di gente che aveva senz'altro delle doti tecniche, che affiorano in tratti insospettabili e a più riprese. Ma dopo svariati ascolti, l'aggettivo è sconcertante, quello che impressiona per il coraggio. Non saprei neanche dire se e chi abbia influenzato. Per chi si vuole disorientarsi e sconvolgersi per una quarantina di minuti. Un esperienza terminale.
Musiche composte automaticamente, recita (con un po' di vanità, diciamocelo) il booklet del quarto album degli Æthenor. Come verificai in sede live qualche anno fa, il corso profondamente cambiato al contempo del rimescolamento della line-up ha visto creare una forma di suono nuova, inusitata ed all'altezza dei personaggi. Per l'ormai ex-progetto collaterale di dark-hypnotic-ambient, O'Malley e O'Sullivan hanno acquistato Rygg (manipolatore elettronico, anch'egli in forza agli Ulver) ed il veterano batterista inglese Noble (un passato remoto nel funk-wave bianco ed una carriera stabile nell'avant-jazz); fatta base in Norvegia, i quattro fanno sfracelli e coniano questo suono sgusciante ed astratto, cerebrale ma anche fisico, soprattutto grazie a Noble. Il live-report sopra citato vale come sintesi di uno stile pressochè indefinibile, probabile frutto di improvvisazioni neanche tanto concordate. Musiche che rapiscono, automaticamente.
Il fantomatico disco-non-disco con cui la Virgin introdusse il mondo stregonesco dei Faust in Gran Bretagna. Dato che si trattava di registrazioni a costo zero poichè effettuate in casa, la Virgin lo mise sul mercato ad un prezzo stracciatissimo, un operazione un po' discutibile ma che di fatto ottenne l'effetto desiderato: divulgare il verbo Faust fuori dalla Germania.
E tal verbo, in quel pugno di anni gloriosi, era l'arte ed il fulmine della sperimentazione pazzoide e dell'anarchia più sfrenata. Tapes, pur nella sua natura precaria di antologia d'archivio, inquadra alla perfezione il contrasto che era il carburante del caos creativo in seno al gruppo: la sensibilità musicale di Sosna contro la follia degli altri, in un cut and paste alternato ed avvincente, composto di 26 tracce tutte molto brevi che non fai in tempo ad assimilare che già sono bell'e passate. Non merita di essere trattato come un capitolo minore, anche se loro stessi si preoccuparono di segnalarlo come tale: qualunque cosa potessero aver realizzato in quegli anni, era un concentrato di lungimiranza inestimabile.
Terzo disco per Luis Vasquez e terza volta in cui affronto l'ascolto con previdenza, superficialità e poca attenzione, salvo poi dovermi ricredere ed ascrivere di nuovo il monicker Soft Moon ad una delle più brillanti operazioni di recupero dalla dark-wave degli ultimi 10/15 anni.
Temevo un'iniezione innaturale di elettronica nel suono di Deeper, che probabilmente avrebbe deluso me ed altri gothicconi inguaribili che si emozionano ancora a sentire una mutuazione dei Cure della trilogia. Qui ce ne sono diverse: Far, Try, Wasting (in verità più altezza Disintegration), Being, la sospesa e magnifica Without. La suddetta elettronica resiste, ma in dosi esclusivamente funzionali nel resto dei pezzi che sostano fra synth-pop e cyber-industrial di gran razza, anche grazie alla produzione piena e rotonda che restituisce giustizia a dei suoni che in origine furono penalizzatissimi. Un altro centro per il mexican boy.
Fantomatico quartetto giapponese che non pubblicò nulla in vita, e del quale si sa pochissimo a livello biografico. Già di per sè è difficile ottenere info sulle bands nipponiche, figuriamoci andando così indietro nel tempo; in questa raccolta pubblicata dalla PSF nel 1991, ad esempio, non si sa neanche il nome del batterista. Ciò che è importante è la sostanza recuperata su nastro; un acid-lo-fi-punk esponenziale, suonato a rotta di collo, che ai tempi poteva avere ben pochi concorrenti in materia di violenza a livello mondiale.
Ciò giustificato senza alcun dubbio anche dalla voce di Yamazaki, un grugnito maniacal-isterico similare a quello del vocalist degli Aburadako. Il supporto del trio è punk, c'è poco da dire, ma di quello a ritmi folli (col bassista Hamano in evidenza, che contemporaneamente faceva parte della prima formazione dei Fushitsusha, e ho detto molto) e con una chitarra acidissima che quando va in assolo spacca vetri a 360°.
Diverse tracce sono ripetute, ma ovviamente sono in alternate takes ed oltretutto a diverse velocità. Schegge impazzite, imprendibili. La solita storia: solo il Sol Levante poteva etc etc etc....
Trio di mattacchioni abruzzesi che con fare pacioso e divertito giocano con una nutrita serie di luoghi comuni del passato. Mi si passi i termini, magari gli Inutili prendono la loro musica molto sul serio, ma io la vedo così. Già il nome del gruppo stesso è memorabile. Al primo ascolto sembra una band di bassa lega, al secondo già la considerazione sale parecchio, al terzo la simpatia è inevitabile ed alcuni motivi restano in testa.
Il garage è il punto di partenza; selva di chitarre, ritmiche scalcinate, chiasso generale e caos organizzato. La prima metà del disco è quella grosso modo classica: Velvet Underground, l'indie-rock americano più slacker degli anni '90 (vengono in mente gli Strapping Fieldhands), Jon Spencer Blues Explosion, Sonic Youth, addirittura i Doors.
Nella seconda metà i ritmi si allentano, si allentano anche i cordoni di tenuta ed il suono si slabbra, compaiono delle tastiere astruse; è la controparte sperimentale degli Inutili. E' chiaro che non sono degli innovatori, ma alla fine guadagnano un loro stile che va oltre la miriade di influenze.
Viene solitamente indicato come un disco minore di HB, forse perchè registrato con l'ausilio di sole tastiere elettroniche e (poco) piano, oppure perchè quell'immenso debutto ha costituito una pietra di paragone troppo ingombrante.
Eppure, se ci si abbandona senza alcun preconcetto all'ascolto, Lovely Thunder è magia pura. Soltanto Sandtreader va annoverata come una delle sue meditazioni più serene, ed in parte anche Ice floes in eden. Gran parte della raccolta vede un Budd cupo, ad un passo dalla tempestosità, con una ambient da finta quiete prima della tempesta: Flowered knife shadows, The gunfighter, Valse Pour Le Fin Du Temps e la lunghissima Gypsy Violin vedono la sua indicibile grazia e compostezza asservirsi di arie maestose e minacciose. A mio avviso la sua prova migliore degli anni '80.
Il black-metal, si sa, può essere un'ottima palestra giovanile per sviluppi di vario tipo. Ce lo insegna la storia, con casi clamorosi come gli HANL. I francesi Aluk Todolo da lì provengono e con questo programmatico rock occulto hanno coniato un sound furibondo e ricco di sfaccettature.
Il trampolino di lancio sembra essere la propaggine più oscura ed urticante del rock tedesco '70, come i primi Ash Ra Tempel o meglio ancora gli Amon Duul II di Yeti; scomodare paragoni così scomodi può fuorviare, senza dubbio. Però gli 80 e passa minuti di Occult Rock non sanno di vintagismo, bensì spaziano in tante altre direzioni, post-metal, space-rock, epic-instru, con unico comune denominatore la psichedelia pesante, a tratti oppressiva. La chitarra di Riedacker disegna scenari apocalittici, la sezione ritmica tiene le fila delle architetture. E' un ottovolante di ottanta minuti che riesce a non tediare quasi mai. Non rivoluzionerà nulla, ma è una voce personale e penetra sottopelle, progressivamente.
Un'altro disco santino di Zingales, che rapidamente faccio altrettanto mio. Una di quelle mission inglesi che soltanto in quegli anni potevano uscire, che avrebbe fatto un figurone sulle Mental Hours, giustamente paragonato per i suoni a Global Communication, e che per attitudine io aggiungerei da affiancare al santone E2-E4 di Gottsching: diversi i punti in comune. Il pezzo unico, strumentale, che trae le fondamenta dal minimalismo, che intercala figure ricorrenti, cresce inesorabilmente con piccoli dettagli che affiorano a poco a poco, che manco te ne accorgi ed è cresciuto, evoluto, strega ed incanta.
Autori di siffatto gioiello un duo misto che nella propria breve vita ha realizzato soltanto tre album; per inquadrarlo direi un felicissimo incontro fra il dream-pop, l'ambient e la trance, con la chitarra protagonista ad intarsiare figure angeliche. Un sogno ad occhi aperti.
Qualche mese fa, in una monografia su DB su Blow Up, l'ermetico redattore Capuano tracciava la storia del torinese evidenziando uno spartiacque ben preciso a metà anni Zero, ovvero il momento in cui si rese conto di non poter sopravvivere di musica. C'è un verso su Fragranze Silenzio in cui canta le mani sporche di lavoro...Destino ingrato per un artista che da vent'anni propone il suo personalissimo cantautorato semi-industriale bilanciato fra elettronica e strumenti suonati, e che ha saputo dimostrare capacità melodiche forse neanche troppo sviluppate, probabilmente perso in un trip troppo originale per sapersi anche solo avvicinare alle conformazioni.
Melodie che in Fragranze silenzio escono timide in tutto il suo indolente intimismo, come un fiore che sboccia alla fine dell'inverno. Spazio ai beats sintetici, ai glitches, alla voce fantasmatica, ai clangori ora smussati, alle nebbie soniche e a piccoli gioielli come Cauterization, Clouds, Fiori finti, Ali di mosca. Unico neo la finale title track, 16 minuti di drone-doom immobile e leggermente tedioso. Ma prima di essa, fragranze molto molto gradite.
L'apoteosi dell'apocalittico Magma-sound non poteva che essere ottenuta dal vivo, in cui la classe del gruppo di Vander usciva inesorabile, quasi superiore alle già ricche e complesse prove in studio. La formazione che registrò una serie di concerti a Parigi nei primi di Giugno del '75 vedeva la temporanea uscita di Jannick Top, sostituito però prodigiosamente da quel Paganotti che poi, dopo aver strappato un credito compositivo su Udu Wudu, andò a formare gli eccellenti Weidorje. Il suo stile era meno animalesco di Top, più raffinato e comunque altrettanto incisivo. Insomma, stiamo parlando di due fenomeni.
Al di là dell'economia fondamentale del basso, il live parla la lingua kobaiana in una summa esaustiva di quanto realizzato fino a quel momento. Ci sono i lunghi estratti delle temibili Konthark e Mekanik, c'è persino un recupero del primissimo (passabilissimo) album che fa un'ottima figura, la pastorale Lihns a stemperare l'oppressione, l'articolata sinfonia celestiale Hhai. Sugli scudi tutti i membri, soprattutto il violinista Lockwood, ma è quasi superfluo ribadire la coesione impressionante di un gruppo così dipendente da un unico compositore.
Progettone messo in piedi dal fiatista di fama mondiale Gustafson, che con questo primo ha guadagnato la palma di disco dell'anno per BU. Registrato dal vivo in studio da parte di un ensemble di una ventina di elementi quasi tutti svedesi, Exit! ha avuto l'ambizione di aggiornare il jazz da big band ai giorni nostri con due lunghissime suite.
Traguardo raggiunto perfettamente: Part one parte con passo felpato, in parte imparentato col jazz classico, con svisate di fiati, voce femminile e piano alla Abrahams in primo piano. Dopo una pausa, l'orchestra riparte sorniona cambiando il tema e chiude con eleganza.
Ma è la tempestosa Part two a sbancare, con un ritmo tumultuoso che taglia momentaneamente i ponti col jazz, un maelstrom incessante di caos organizzato. Un'altra pausa a circa metà e poi la ripartenza con la disintegrazione della composizione, è la parte impro che manda tutto a catafascio. Per me magari non disco dell'anno 2013, ma da top ten sì.
Quasi strano, non ricordavo che nel primo GDS non c'era O'Rourke, ma Bundy K. Brown, uno dei padri putativi del post-rock dell'asse Louisville-Chicago. Al riascolto dopo parecchi anni di The Serpentine Similar, la sensazione è sempre che Grubbs fosse giunto finalmente al progetto di avanguardia che aveva fatto covare sotto le infuocate performance dei Bastro. La trasformazione è perfettamente inquadrata da un pezzo come For Soren Mueller, che alterna piroette bastroane alle compassate astrazioni per chitarra e basso ipnotico, di fatto il piatto forte e principale del disco, che non disdegna comunque qualche sonata per piano che tradiva le mai celate influenze dei Red Krayola epoca God Bless...su Grubbs. Manifesti del lotto le lunghe A Watery Kentucky e Even the odd orbit, splendide digressioni di uno stile unico ed inimitabile, trasognato e formale al tempo stesso.
Non perdere un protagonista di un modo così anti convenzionale di fare
musica è qualcosa che arricchisce il nostro sottobosco indipendente,
specie se amate chi cerca di affermare pensieri più pensati e
“impegnati” rispetto alla media dei nostri tempi.
Citazione di una recensione che mi sembra doveroso riportare, perchè sintetizza alla grande ciò che io stesso ho provato ascoltando Austerità. Dopo la triste scomparsa di Fontanelli, temevo che in qualche modo avremmo perso Collini e le sue storie, il suo sarcasmo, il suo cinismo trasognato, il suo semplicemente esserci. Mi rallegra quindi questo matrimonio (tutto sommato prevedibile, ma di certo non scontato) con Reverberi, che snocciola sfondi e scarni scorci di limpida ispirazione GDM (i migliori, Austerità e Bagliore), riuscendo a modo suo a non far rimpiangere le basi ODP.
Per quanto riguarda Collini, va solo ascoltato famelicamente. Impossibile tuttavia non citare lo stupefacente aneddoto scolastico-adolescenziale di Vera, lo struggimento di Austerità, l'esilarante fraintendimento di Banca Locale. Caro Geometra, è sempre un piacere.
Ennesimo inqualificabile art-avant-monster dalla Francia, con un unico, inevitabile disco in carniere, peraltro in ritardo temporale sulle bizzarrie più generalizzate del decennio.
Essenzialmente un trio tastiere, chitarra e clarinetto, gli Heratius vengono solitamente definiti i Faust d'oltralpe, ma la sensibilità musicale era più focalizzata seppur convogliata in una serie di stranezze difficilmente descrivibili; in un certo senso lo potrei battezzare industrial-progressive da camera, vista l'alternanza fra ruvidezze analogiche, gorghi rumoristici, fraseggi bucolici col clarinetto in evidenza, qualche svisata elettrica frippiana, un recitato che fa molto teatro d'avanguardia, demenze blues spudoratamente umoristiche, e tanto altro.
Gwndolyne va preso per ciò che è: un pasticciaccio dada figlio del proprio tempo, sfuggente per l'eternità e relegato alla categoria delle musiche più incredibilmente strane. In solida reputazione.
Splendida anomalia britannica: un duo di colore che abbandonò qualsiasi stereotipo legato alla musica nera per abbracciare uno strano e fascinoso miscuglio di new-wave, dream-pop, fulgidi arabeschi chitarristici (senza disdegnare feedback stridenti), lambendo spesso un campo dub dalle parvenze molto più bianche.
Un disco fantasioso e super-variopinto, con la peculiarità delle voci che, essendo tutt'altro che limpide (per non dire sgraziate), davano un chè di preziosa precarietà. Dopo una prima metà effervescente anche a livello ritmico, la seconda parte va in gloria con le meravigliose rarefazioni di Sperm Whale Trip Over,The Sun Falls Into the Sea, The Madonna is With Child e Spanish Quay, numeri magistrali di ambient-rock. Si scrive un po' ovunque che hanno anticipato tante cose della Too Pure, il trip-hop, persino certi aspetti dello shoegaze. Un po' di giustizia è arrivata postuma, dato che in vita non ebbero un granchè di riconoscimenti; per quanto mi riguarda, ho impiegato 3-4 ascolti per permeare nella grandezza di 69.
Grazie all'insanabile passione per il Sol Levante del mio conterraneo Savini, di tanto in tanto testo l'ascolto di gruppi nipponici più o meno fuori di testa. Il quintetto Core Of Bells è decisamente dentro la categoria dei primi; un suono imprendibile, un folle incrocio fra Aburadako, Hella e Red Krayola, compresso fra sfuriate ultra-compresse, gag surreal-matematiche, teatrini dell'assurdo ipertecnici, banzai sonici come se non ci fosse un domani. Irresistibile e mai banale.
Uno dei 7 album con il quale ZR inondò il catalogo SST fra l'87 e l'89, dei quali ho già imparato ad amare Water IIe Nonentity. Insieme a questi, Water costituisce la trilogia dell'acqua ed è una delle sue classiche sarabande di gag-rock serrato con la chitarra in grande evidenza, sia in veste funzionale che in libera uscita di assolo. Memorabili I'll rip your brains out, Getting laid at grace park, Burn in hell e Mongoloid Middle America.
Dopo la clamorosa collaborazione con gli Zu, Eugene Robinson torna a svernare in Italia, questa volta con un trio all-stars di quelli che sulla carta si direbbero supergruppo: Iriondo, Capovilla e Valente. Ovvero tutti e 4 ragazzi degli anni '90.
L'operazione sa tanto di autoreferenzialità, per non dire di autocelebrazione nostalgica; muscoli in bella vista con una sezione ritmica classicamente yankee-noise, ER che sbraita alla sua maniera, Iriondo lobotomico ed incisivo. In pratica un aggiornamento del suono Touch & Go con la cura professionale delle registrazioni attuali. Concettualmente più o meno quanto pensavo del Teatro Degli Orrori, ma qui la somma delle parti è superiore. Un disco che, per quanto produzione di 4 volponi che sanno bene il fatto loro e che alla fine portano (quasi sempre) a casa il risultato, può intrigare anche gli extra-amanti del settore, per quanto fatto dannatamente bene.
Collettivo californiano che negli anni '90 propose un mix incendiario di industrial, tribale, esoterica e psichedelia. Data la fortissima componente scenica del progetto (in rete si trovano testimonianze di come i loro concerti fossero dei potentissimi baccanali orgiastici), probabilmente il nucleo decisionale non cercò di convogliare al meglio le creazioni musicali, bensì di cercare di ricreare una parvenza dei loro show.
Per questo Triple Mania II più che un disco sembra una carrellata, un catalogo delle ossessive pulsazioni che portavano sul palco: i tamburi incessanti, i synth a fischiare e rombare, le voci manipolate, le emissioni animali, questo ed altro concorreva a creare allucinazioni che vissute dal vivo avranno reso il concetto di inferno molto vicino alla realtà.
Band californiana in attività da quasi 20 anni, quindi ben precedente l'ondata dell'harsh-noise sia quella dello shit-gaze. Risalta quindi che questo album, ultimo di una lista che inevitabilmente è fin troppo lunga, fuoriesca come un'improbabile incrocio fra le due correnti. con una componente primitive-arty che ricorda tanti nomi del passato remoto e persino certe correnti più o meno sotterranee statunitensi di 20 e passa anni fa.
Un disco delirante, lo-fi, sgangherato ma con una visione ben precisa dall'inizio alla fine. Un suono che aliena come quelli delle metropoli ma elabora anche allucinazioni di naivetè a loro modo stilish.
Due uscite corte prima e dopo il rinomato debutto su Sub Pop: difficile pensare, ad orecchie inconsapevoli che sia la stessa band. L'EP Weapon contiene 4 pezzi di alternative-noise fragoroso, con qualche scoria di post-hardcore ma già piuttosto maturo. Le chitarre hanno il sopravvento ed il cantato di Ryan è ancora sintonizzato su uno screaming monotonale. Per un gruppo all'esordio assoluto, niente male.
Machine Cuisine, un mini-lp edito soltanto su vinile 10", fu un episodio controverso; PS gli assestò addirittura un impietoso 4/10, dopo aver dato uno dei suoi rari 8/10 a The Pigeon. Si trattava di un evidente disco di transizione, oltre che il primo approccio radicale dei 6FS all'elettronica; la band era in pieno rimescolamento di formazione (se ne erano andati il chitarrista Phillips ed il bassista Niemand), ed alla luce di questo a mio avviso non è da buttare, anzi; la schizofrenia residente nel dna esce alla grande nelle pulsazioni ossessive di White Temples, mentre sono irresistibili le marcette kraftwekiane di Love (Via Machine) e The well tempered monkey. Il resto, sì, si poteva limare qualcosa, ma non è che infici di tanto.
Il wonder-trio di Sidney non finisce mai di stupirci ed è sempre più difficile trovare le parole per descrivere le loro uscite. Dopo un profondoexcursus su alcunistadi dellaloro colossalecarriera, eravamo arrivati al tumultuoso e dissonante Mindset, al quale è seguito Open, il loro disco forse più visionario e meditativo (per non dire mistico, aggettivo che mancava dalla loro tavolozza) e poi il rovinoso Vertigo, con ogni probabilità il più scuro ed inquietante. Di una durata inedita (soltanto 44 minuti in luogo della solita oretta), propone una delle novità più rilevanti, ovvero l'utilizzo predominante da parte di Abrahams dell'organo e del Rhodes e visti gli overdub degli stessi, si tratta di una costruzione diversa dai loro standard. L'uso rarefatto dei piatti di Buck e quello in penombra del double-bass di Swanton rientra invece nei canoni di umiltà di questi due grandi uomini che sanno lavorare al servizio della suite, alchemici. Dietro la placida copertina che immortala cime di alberi su una distesa d'acqua, c'è il pezzo forse più astratto di una carriera che incredibilmente non conosce tregua di successo artistico. Che durino cent'anni.
Prezioso doppio ripescaggio, a testimonianza che a 15 anni dalla morte non si finisce mai per tributare uno dei veri grandi della musica teutonica, anche se la cittadinanza gli fu sempre stretta in senso artistico.
Il primo cd contiene incantevoli sonatine per solo piano, estatiche e contemplative, registrate fra il 1972 ed il 1989 ed in gran parte inedite. La classe e l'eleganza mistica di Fricke in perfetta solitudine non avrebbe potuto trovare miglior assortimento, dato anche che indeterminati pezzi sono stati recuperati dopo la scomparsa.
Così possiamo godere di probabili outtakes di Hosianna Mantra (Moses sembra davvero esser fatta di quella divina pasta), di contemplazioni leggere come piume ma anche di rarefazioni interrogative ai limiti dell'inquietante (Garden of Pytaghoras, degna ipotetica soundtrack di un thriller).
Messa a ruota di tale meraviglia, la colonna sonora realizzata per la scalata al Kailash in Tibet di un Fricke in versione alpinista insieme al Popol Vuh/Filmmaker Franck Fiedler, suona un po' ridimensionata. Eppure si tratta di purissima new-age di filigrana nobile, di quella che fa scomparire il 99,5% della produzione mondiale di tal categoria. Nel cofanetto è incluso anche il DVD col docufilm in questione.
Per lungo tempo ci avevo sperato, che Martin facesse luce sul decennio buio. Poi, dopo la delusione di You were a dick, il mio interesse per Idaho si è incorniciato alla voce "vecchie glorie che ho ascoltato a ripetizione, basta un ripescaggio ogni qualche anno". Quindi, l'uscita a ciel sereno di questa raccolta è stata un fulmine rivelatorio, non più sospirata ma un ripescaggio che fa giustizia e sostanza.
Il decennio buio va dal 1983, anno in cui Martin andò a Londra a cercare fortuna, al 1993, l'uscita di Year After Year. Interrogato su quanto realizzato in tutto questo tempo, lo stesso ha sempre nicchiato accennando a progetti abortiti e generici insuccessi. Per quale diavolo di motivo nessun discografico si sia preso la briga di pubblicarli, resta un mistero ancor più fitto vista la qualità generale di The Broadcast, una bazza di 19 pezzi che fa godere non poco gli Idaho-heads.
A partire dalla Paralyzed che già conoscevamo, si può udire una progressione ben precisa che segna la crescita di Martin, Berry ed il batterista Smith da un suono un po' arty-80, effervescente e variopinto, verso il sacro slow-core del debutto discografico. Burning my hands, 67 Down, Qurelle, Freeze, Untitled, Lumberjack, Hell's kitchen song, So far Apart sono gli highlights più splendenti che stabiliscono un trampolino rimasto troppo tempo oscurato.
Il tutto poi tristemente accresciuto dalla notizia della morte di John Berry, avvenuta pochi mesi dopo l'uscita. RIP
Secondo album di quello che era ancora una band e non un'entità guidata da Adi Newton come successe dal 1983 in poi. Era la chiusura di un ciclo breve ma significativo e molto peculiare nella storia della new-wave inglese: un suono spigoloso, spesso guidato dal basso, mutuato dai coevi giganti del funk bianco (ma perchè no? Persino dai Van Der Graaf di The Quiet Zone!), ma già possessore di una spiccata sensibilità arty e con i fiati a scorrazzare e seminare panico. E con un paio di pezzi persino accattivanti per gli standard di quegli anni, come Blue Tone e 4 Hours.
C'è chi preferisce o dà più importanza ai DVA cibernetico/elettronici e chi invece privilegia la prima fase; difficile asserire con fondatezza, resta sempre una questione di gusti. Io non ho dubbi, ascoltando le tracce più coraggiose di Thirst trovo più longevi quelli più vecchi.
Progetto per il momento limitato a questo eponimo fra Andy Votel (dj e produttore mancuniano di lungo corso) e i Demdike Stare (i Demdike Stare). C'è da dire che se non sapessi nulla, darei la paternità del disco a questi ultimi, ma non conosco la musica di Votel per cui mi limito a godere di queste 7 tracce di elettro-ambient un po' dubbato e piuttosto scuro, con sonorità vintagistiche q.b. per renderlo appetibile anche agli hauntologici.
Palma della scaletta alla suite Intervision in 3 parti, alternate fra altri pezzi. La 1 è una marcia solenne per stratificazioni di synth, la 2 una scansione dubstep con percussioni modificate in primo piano (come un Micky Hart androide), la 3 un breve delirio di audio-generatori come degli Orb in corto circuito.
Molto interessanti anche le altre tracce, fra collage storti ed escursioni trance a la '90s. Lo so, non è di sicuro il nuovo che avanza, ma è sempre un bel sentire.
Mister Eluvium in una parentesi a suo nome di documento, strategicamente piazzata nella pausa fra Copiae Similes. Numero inaugurale di una piccola label dell'Oregon e uscito originariamente solo su vinile, Miniatures sembra vivere della stessa ispirazione del primo, capolavoro orchestrale del 2007, seppur messo in scena in vesti più spoglie, come se fossero brillantissime out-takes prima degli arrangiamenti lussureggianti che furono ad esso riservati.
Rigorosamente numerate, le miniature di Cooper si susseguono, titolate solo per numero progressivo, come digressioni estatiche per organo, solipsismi dimessi di solo piano, polverose scie cosmiche per synth e fiati statici, rigorose e gelide folate di Eminent.
E' quella che si dice in gergo un'uscita preventivamente minore, ma con Cooper c'è sempre stato poco da fare: la classe non è quella alle sue spalle.
Questa è la strada giusta per KH, una volta superati i 60 anni, una volta disidratatasi quasi completamente la sua vena creativa: affidarsi ad altri nel compito esclusivo di supportare musicalmente le sue performances vocali. Se poi si tratta di materiali parecchio infiammabili, tanto meglio.
La collaborazione con i Zeitkratzer, ensemble tedesco d'avanguardia la cui espressione ho letto esser definita chamber-noise (!), conta 3 dischi in 8 anni e sembra una delle più incompromissorie della sua intera carriera, al punto che si potrebbe quasi definire la sua naturale propaggine (se vogliamo, anche colta).
Questo live, che ad un orecchio superficiale come il mio si direbbe improvvisato, vede KH intento a dipanare il suo intero spettro vocale coeso in un contesto a dir poco orrorifico, in cui i 10 elementi diretti dal band leader Reinhold Friedl passano da creazioni astratte (Ghosts, Roses) a serrate percussive ai limiti dell'industriale (Smashine, Wet Edge), con i fiati impazziti in grande evidenza. Questa è l'orchestra giusta per KH, ovvero quella che srotola al meglio le partiture dell'assurdo, la violenza psicotica e la follia allucinata più adatte al Nostro, ancor di più oggi, nella presunta età della pensione.
Gran bella testa, quella del rumeno Miereanu: dopo diversi titoli in patria, andò a studiare da Stockhausen e Ligeti, per poi trovare pianta stabile in Francia dove è diventato professore di filosofia e scienze delle arti. Apparentemente la sua discografia è concentrata nella prima metà degli anni '80, ma come spesso capita nell'avanguardia, forse solo una parte delle sue composizioni sono finite su vinile, e Luna Cinese è censito come debutto su Discogs. Il titolo in lingua è dovuto probabilmente al fatto che Gianni Sassi lo volle pubblicare su Cramps nell'ambito della collana Nova Musicha, coraggiosissimo atto di amore verso le avanguardie più radicali, e come prevedibile rimasto appannaggio di ben pochi negli anni anche a venire.
Logico l'inserimento di Stapleton: Luna Cinese è composto da due flussi di elettroacustica oscurissimi, una dark-ambient ante litteram scandita da bordoni inquietanti, suoni concreti, un recitato spiritato femminile, fischi atonali di flauto, scampanellii, tremolii di organo, e chissà quanto altro. L'effetto è più che ipnotico, quanto basta per spingere il tastino repeat più volte. Autentico gioiello di astrattismo.
In un intervista abbastanza recente, Sooyoung Park, alla domanda finale in cui gli viene chiesto se vuole lanciare un messaggio ai fan, risponde laconicamente: Beh, è difficile immaginare che qualcuno là fuori ascolti ancora la
nostra musica dopo così tanto tempo, ma se è così ciò mi rende davvero
felice.
Risposta disarmante, e probabilmente non è molto distante dalla realtà il fatto che i Seam siano davvero dimenticati. Per carità, potrebbe anche essere la prospettiva di Park, che dopo aver terminato l'attività del gruppo nel 2000 si è trasferito a Singapore per fare il programmatore. C'è tanto indie-rock americano dei nineties che, a riascoltarlo oggi, sembra fiacco, fiacchissimo. Ma i Seam resistono alla prova, soprattutto il secondo The problem with me, di gran lunga superiore al debutto e che stabiliva una cifra stilistica personale e cristallina, fra impennate vigorose di post-hardcore e compassate ballad elettriche che sembrano una versione luminosa dei Codeine. Sempre bellissime Rafael, Road to Madrid, Stage 2000, Sweet Pea.
Saluto con grande piacere il ritorno discografico dopo un silenzio ventennale di Dan Oxenberg, dopo la clamorosa reunion live dei Supreme Dicks che ha visto toccare persino l'Italia (ma che diamine, solo un concerto a Milano!...), con la collaborazione di un non meglio identificato Bear Galvin.
Uscito per l'etichetta franco-svizzera Three:Four Records, a testimoniare un legame speciale con l'Europa, Late Superimpositions vede colui che fu il vocalist principale della leggendaria band/setta, probabilmente incoraggiato dal cofanetto antologico uscito nel 2011, tornare con uno stile abbastanza morigerato, per non dire pacificato. E' sempre il folk bucolico ad ispirarlo, quello che caratterizzava per la maggior parte The Unexamined Life, privo però degli sballi spazio-psichici che hanno reso unico al mondo il SD-sound.
Non è certo una mancanza; c'è tempo per ogni cosa, quel tempo eccezionale è bello passato e sarebbe inutile cercare di rifare gli SD. Qui c'è un disco disarmante, genuino e commovente come soltanto Oxenberg poteva farlo, con la sua inconfondibile voce tremolante, senza artifizi e con almeno 3 pezzi memorabili (I believe in you, la suite in 3 parti di Less than nothin e The ping pong song).
Davvero difficile trovare le parole giuste per una delle bands più geniali, gioviali e conviviali dei '70, per la quale è anche inutile stare a cercare caselle o catalogazioni, che ho scoperto a causa della NWW List con quel monumentale doppio che mi ha fulminato al primo ascolto.
Per Klossa Knapitatet, meno immediato e forse più cerebrale, il colpo arriva dopo 2-3 ascolti ma è quasi altrettanto forte. Fu il loro terzo, l'ultimo con il chitarrista Apetrea in organico a fianco degli storici Krantz, Bruniusson e Hollmer. Ed è manco a dirlo, la sagra del virtuosismo senza vanità, dell'avant-rock giocoso e visionario, delle gag surreali e lucide. In due parole, spettacolo assoluto; inevitabilmente legato al suo decennio, ai detrattori potrà anche sembrare vecchio e sorpassato; per chi scrive questa è musica senza tempo.
E così i BR si smascherarono; dopo aver raggiunto il climax della loro prima fase con Melody of certain damaged lemons, che chiuse un ciclo, il poco riuscito debutto su 4AD ed infine 23, il loro disco definitivo per chi scrive.
Fin dall'inizio, anche quando il loro suono era ispido e a volte aggressivo, lateva questa sensibilità melodica che soltanto un gruppo così stranamente assortito poteva generare. Ciò che comunque sembrava mancare erano le canzoni azzeccate, quasi come se amassero rimirarsi allo specchio senza trovare melodie veramente memorabili; su 23 ce ne sono tante, e le migliori sono perfette alchimie di quella loro sensibilità tutta particolare, fra il malinconico ed il trasognato, con arrangiamenti fantasiosi e multicolour: Publisher, Spring and by summer fall, SW, Heroine, Dr. Strangeluv, The Dress. E non ce n'è una da buttare via, fra le altre. Splendido.
Universalmente riconosciuto come mosca bianca ma anche come caposaldo essenziale nella discografia dei BF, questo sconvolgente mini di 25 minuti segnava un punto irreversibile ed anticipava di qualche anno certe commistioni di hard evolutissimo che avrebbero sviluppato gente di confine come Blind Idiot God e Iceburn, per non parlare del math-rock anni '90 anche se in forma diversa nei contenuti.
Non è vero, come si legge spesso, che Rollins non compare perchè era già fuori dal gruppo: Ginn concepì queste 4 tracce in forma strumentale e diede via libera al suo chitarrismo ormai sempre più arzigogolato e delirante, adeguatamente supportato dai tempi dispari della Roessler e di Stevenson, per un jazz-core spigolosissimo e totalmente innovativo, in quanto dotato di una tecnica particolare che era slegata sia dalle radici hardcore che da un non-identificato punto di arrivo; dire jazz in effetti è davvero straniante, ma Ginn volente o nolente suonava così. Unico punto debole la produzione, piatta e deficitaria di potenza, ma quelli erano anni difficili per tutti. Ad ogni modo, da annoverare fra le grandi anomalie degli anni '80.
L'ambient satura ed impressionistica di Hecker, una formula al suo vertice espressivo con questo suo secondo su Kranky. Il canadese ha sempre avuto una virtù, nel panorama dei neo-ambientali: ha saputo centellinare le produzioni concentrandosi sui risultati, con una media di un disco ogni 2 anni.
E poi la forza dei suoi sta nella coesione incredibile che li caratterizza, pur svariando da colonnati imponenti di droni ruvidi a quadretti cosmico-sinfonici ad elegie originate dal pianoforte che si espandono a 360°.
Più del celebrato Ravedeath 1972, che ce l'ha fatto conoscere per come è stato acclamato, amo questo Imaginary Country per come riesce a catturare l'attenzione e a far scattare il desiderio del riascolto per addentrarsi meglio nei fitti misteri che la abitano.
Più che un attestato di stima, il mio rievocare NC comporta un saluto implicito e nostalgico ad un amico che non vedo nè sento da 10 anni. Molto tempo fa, nell'ambito di lunghe discussioni musicali (ha una cultura davvero invidiabile), sbandierava la sua grande passione per NC, soprattutto per i suoi primi dischi solisti. The firstborn is dead è un classicone dell'australiano, intriso di quel croonering minaccioso, di quella formula demoniaca su cui un personaggio relativamente nuovo a metà '80 poteva far leva per diventare un'icona di culto. Figura che poi ha cavalcato con la fortuna che tutti ben conosciamo.
Detto questo, non sono mai stato un suo fan. Ma il mio amico amava (e credo ami ancora) la sua musica con un trasporto emotivo che gli illuminava gli occhi, ed in fondo io ero troppo giovane per cercare di apprezzarla. Oggi forse riesco a coglierne meglio il senso, ma pazienza se non mi appassiona più di tanto. Oggi l'ascolto di NC mi riporta alla mente l'amico con cui magari prima o poi mi reincontrerò, ed in tal caso sarà la colonna sonora giusta.
La magia della Barwick sta in un non-luogo, geograficamente non marcabile; di sicuro ben sopra il livello del suolo.
Ed il più possibile lontano dalla New York di cui è originaria la vocalist che modella la propria soffice ugola come strumento e la stratifica, la sovrappone fino a formare nebulose di grande fascino. Una vera e propria psichedelia vocale, che può richiamare sia fascinazioni avanguardistiche del passato (Meredith Monk) che umili fuoriclasse dei giorni d'oggi (Grouper), senza neanche un virtuosismo ma soltanto lavorando di cesello sulle armonie estasiate, allungate e dilatate con gli effetti, con poco spazio riservato agli strumenti: un po' di piano, qualche synth, un tamburello nell'ultima traccia, e l'abbandono è fatto. Speciale.
Emerito profano, mi accosto timidamente alla contemporanea, o neo-classica. La spinta non ricordo esattamente da cosa è stata dettata; forse il nome di Part mi era rimasto impresso in quanto principale fonte per la colonna sonora di Mia Madre di Moretti, ed alcuni frangenti mi erano rimasti impressi.
Senonchè, alla ricerca di un titolo rappresentantivo dell'estone, o anche solo di una sintesi esaustiva sulla sua opera, scopro che è tutto un ammasso informe di titoli, in cui non esiste una versione definitiva di ogni composizione; messo in crisi sui miei dogmi (ma credo sia normale in quel mondo, l'affastellarsi tranquillamente randomizzato), mi affido ad un link di dubbia e dimenticata provenienza e ciò che ne scaturisce non è il Tabula Rasa con cui l'ECM nel 1984 aprì le sue porte a Part, bensì lo stesso doppiato da altri 4 titoli, peraltro datati fine '80/inizio '90.
Ciò sarebbe bastato a farmi innervosire, se non fosse che il primo pezzo in scaletta, Fratres per piano e violino, si tratta di una meraviglia incredibile, di 11 minuti da ascoltare e riascoltare e riascoltare all'infinito, che ti lasciano senza parole per descriverne la bellezza assoluta.
Dopo questo shock, non dico che mi ero illuso, ma speravo che ci fosse altro di quell'altezza stratosferica; purtroppo non c'è, ma non ho potuto fare a meno di amare anche l'elegia di Spiegel Im Spiegel, le tempeste sinfoniche di Cantus in memory of Benjamin Britten e Festina Lente, le figure intercalari di Summa, la maestosità di Tabula Rasa. Un po' meno entusiasta dei canti gregoriani, che evidentemente non sono il mio ideale. Ma non importa, da quando ho scoperto Fratres (attenzione, Jarrett al piano e Kremer al violino a Basilea 1983, occorre essere precisi!), è amore vero.
(Sul tubo la versione è censurata per motivi di copyright, la sottostante è quella che più si avvicina)
Gran bell'esempio di elettro-acustica moderna, che coniuga con freschezza graffianti field-recordings a lievissime partiture cariche di mistero, soffi appena percettibili ed orchestrazioni ultraterrene. Autore è questo sperimentatore milanese che da oltre 10 anni lavora principalmente in gruppi (Sparkle In Grey) o in collaborazioni a non meno di 4 mani. Untitled winter invece (gran bel titolo), è il suo primo album a nome solista esclusivo, anche se scorrendo la lista dei collaboratori si scopre che i contributi esterni sono piuttosto importanti. Ciò che conta è la bellezza dello scorrere di questo digipack dal forte impatto visivo, assemblato dall'americana Scissor Tail. Un inverno avvolgente, a cui abbandonarsi, ma attenzione non monocromatico; ci si può trovare l'estasi concreta dei Pan American, la navigazione notturna incerta di Elegi, gli stillicidi pianistici di Library Tapes, e tanto altro ancora. E non basta un'ascolto, chiaro.
Giustamente omaggiati, nello scorso numero estivo, di un'estensiva monografia su Blow Up in occasione del ventennale del loro ultimo maggiore. Leggendolo, stupisce quanti musicisti di una certa fama hanno tributato loro rispetto ed ammirazione. Ed io con questo completo il trittico di albums che la grande band di Tim Taylor pubblicò in vita. Bonsai fu la rivelazione; dopo il primo, brillantemente sospeso fra diversi stili, la chitarrista Bodine abbandonò ed il suo sostituto Schmersal non potè essere acquisto più azzeccato, adattissimo ad impersonare il suono sempre più arzigogolato e compulsivo che fruttò queste 13 tracce in maggior parte concitate e caotiche, che certamente potevano far intuire le influenze primarie del gruppo (Pere Ubu, il Capitano, i Devo) ma rivelavano al mondo una band destinata a fare grandi cose. Come al solito, un grande Taylor a trascinare, perfetto e funzionale il trio dietro. Chissà che spettacolo erano dal vivo.
Progetto estemporaneo (solo questo omonimo ed un live postumo pubblicato una decina d'anni dopo) di Weasel Walter, qui dedito ad una chitarra spigolosa e dirompente, affiancanto dal cantante Magas (un monotono beffardo) e dalla batterista Melowic (minimale e sincopata). Nell'autentico segno della Skingraft che produceva, Lake of dracula fu un disco esaltante nonostante l'evidente provvisorietà della situazione, fatto di un art-noise-punk catastrofico ma a modo suo persino cabarettistico (qui sta la chiamata in causa anche dell'influenza del Capitano), con 16 pezzi tutti piuttosto brevi che si rincorrono come schegge acuminate in un campo minato.
Capitolo di transizione eppure così riuscito da esser generalmente definito l'apice dei DCD, Spleen and ideal si muove agile ed incontrastato fra le scorie residue della dark-wave di cui era intriso il debutto e le future inflessioni medioevali, barocche, etniche e quant'altro. L'equilibrio è mirabile: le tracce più ombrose, solitamente cantate da Perry, offrono ancora ritmiche sostenute ed arrangiamenti sofisticati (discreto ma capitale l'utilizzo dei fiati). La Gerrard, sirena incantatrice, si districava fra le ossessioni goticheggianti ma risaltava di più nei mantra mistici ed eterei che, tutto sommato, sono le perle del disco.
Ad ulteriore affrancamento da qualsiasi genere, a somma pietra miliare della carriera contrastata di questo gruppo unico al mondo.
Quartetto del Missouri che realizzò 3 dischi a metà anni Zero e poi si sciolse, con metà dei componenti che andarono a formare i neo-freaks Cave. Non molto facile intravedere una linea di congiunzione, dato che i W48K erano dediti ad un crossover folle ed intasato di citazioni.
La componente psichedelica aveva la percentuale maggiore, ma in An Ethereal Oracle c'era veramente di tutto: cavalcate di radice new-wave, tamarrate alternative in pieno stile 90's, schitarrate stoner, fughe tribali, angoli acuti di noise-rock. Un disco senz'altro originale, nonostante follemente eterogeneo. Una band che avrebbe meritato più esposizione.
La dedica sulle note del vinile recita to the quiet men from a tiny girl, ovvero il titolo del secondo album di NWW, uscito nel 1980. Eppure le similitudini finiscono qui; Anonym, il debutto di questo duo nipponico (bissato soltanto da un secondo nel 1981 e poi più nulla), è un disco fantasma.
Una di quelle mosche bianche che solo sulla List si possono trovare, o che soltanto dal Sol Levante potevano fare capolino. Yoshikawa, chitarra. La Yunko, piano, synth, beat box, voce spiritata. Con molte probabilità non-musicisti, creatori di ambientazioni scarnissime, sinistre, stordite, come magistralmente descritte da Vlad piano bar per alienati in stato di sedazione. L'inevitabile naivetè unita alle allucinazioni più inquietanti della library più oscura, per dirne una. Un disco assurdo che cozza contro qualsiasi convenzione, che non anticipa nulla (tutt'al più il primo Blues Control è l'unico che mi viene in mente, ma solo come vaga similitudine in alcune tracce) perchè non replicabile in nessun modo. Da maneggiare con molta cautela.
Riconoscibili a scatola chiusa fra mille altri artisti anche soltanto tangenti le sue aree, i dischi di Mark Nelson sono quasi sempre stati una certezza. In particolar modo quelli del decennio Zero, come questo quarto ed il successivo che con ogni probabilità è stato il suo capolavoro. Rispetto ad esso, The river made no sound era più imperniato sui ritmi, sia che fossero ben udibili (ed in alcuni casi anche abbastanza spediti), che fossero ridotti a glitches esangui, sia che fossero immaginari e rimasti sepolti in qualche traccia del mixer o nella testa di Nelson. Per il resto, è il piano elettrico a farla da padrone come strumento guida delle composizioni vaporose ed affascinanti, che trasmettono relax e favoriscono la stimolazione cerebrale come quasi nessun'artista elettronico ha mai saputo fare.
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