domenica 23 agosto 2020

Pausa 2020


Traversie personali di diversa natura, esigenze familiari strutturali e psicologiche (fra cui IL trasloco), ma soprattutto una certa stanchezza generale nell'esplorare di palo in frasca, fanno sì che da un po' di tempo a questa parte io abbia voglia soltanto di dedicarmi ai miei mostri sacri, di ascoltare i Cure per una settimana, e poi la settimana dopo soltanto gli Arab Strap, e la settimana dopo gli Idaho, e poi solo Peter Hammill per un mese...e così via. Di conseguenza, necessito di una lunga pausa, di un ciclo defatigante privo di nuovi dischi; in fondo è un fatto ciclico che avviene ogni tot anni, l'ultimo fu nel 2014 e durò 6 mesi. Il blog è una passione e mi piace accumulare nuove conoscenze, ma non riesco a postare un disco e scriverne in modo superficiale o a liquidarlo in poche righe come quelli che non mi piacciono e finiscono nella succursale. Fatto sta che di recente ho cambiato casa, ho cambiato lavoro e le nuove situazioni non favoriscono in nessun modo l'ispirazione per buttar giù quelle sporche righe che mi piace mandare nell'etere, per tacere che non ho quasi più il tempo per ascoltare musica. Quindi, in attesa di sistemare qualche cosa nella mia vita e di ritrovare una quotidianità più rilassata, mi prendo questa pausa necessaria.
Un arrivederci a chi passa di qua, abitualmente o casualmente.

venerdì 21 agosto 2020

Arab Strap - Changes (1999)


Ed infine la cover più impronosticabile che potessero sfornare (ne ricordo solo un'altra degli Spacemen 3, abbastanza rivoluzionata, almeno fino alle scelte inconcepibili degli ultimissimi tempi), ma neanche tanto, visti i trascorsi di MM, si diceva dedito anche al metal da adolescente. Ad ogni modo, il pezzo forse più pastorale e delicato dei Black Sabbath (anomalia, dopotutto, prelevata da Vol. 4, anno 1972) nell'anno più slow ed etereo degli AS fu un accoppiamento che non poteva non funzionare. Ed infatti resta uno dei loro massimi capolavori atmosferici, non tanto per la melodia originale (che diciamocela, è oggettivamente bella a prescindere da qualsiasi parere si abbia dei BS) quanto per lo svolgimento: beat elettronico tipico di AM, raffinato ma insistente sul charleston, la parte di piano affidata alla 6 corde acustica, le ondate di mellotron sventagliate sull'elettrica effettata ma pulitissima, per una cornice finale quasi galattica.
Su tutto questo, AM biascica il testo originale alla sua maniera, confidenziale ed apparentemente distaccato. Con la sua solita grazia, insomma.
E' stato giusto, giustissimo dedicare a questo pezzo (e non ad altri cameo, che numericamente non furono pochi) un capitolo a parte dell'Archive, se non per il valore intrinseco, anche soltanto per la cover dedicata, la rivisitazione di Vol. 4 con un MM assorto sull'acustica. Memorabile perchè sarebbe stato molto più scontato metterci un AM in air-hugging stile Ozzy we love you!.

giovedì 20 agosto 2020

Arab Strap - The Summer Has Ended: Tascam Demos 1995


Li chiamano i loro primissimi demos. Esiste un tape sempre del 1995 in circolazione chiamato Coming Down, che però sembrerebbe precedente, al punto che alcuni pezzi potrebbero anche aver fatto parte del repertorio degli Angry Buddhists, il proto-progetto di Aidan con suo fratello ed un amico, attivo dal 1990 al 1995. Sembrerebbe perchè una piccola maturazione fra i due è più che tangibile, se non altro per le sorprendenti anticipazioni di Soaps, Wasting, una Islands assolutamente irriconoscibile in up-tempo noise, la Oxytocin che altro non è che l'embrione di Piglet, la Love Songs che lo è di An eventful day. Per il resto, domina il caos più totale. Soltanto la new-wave di Birds sopravviverà fra le rarità degne di nota, mentre passeranno in cavalleria gli altri episodi, più che trascurabili ma fedeli testimoni di una selezione naturale, di una fotosintesi clorofilliana in pieno atto.
Si partiva.

mercoledì 19 agosto 2020

Arab Strap - The Shy Retirer


Documento che testimonia l'ultima registrazione in studio, datata 21/06/2006, e facente parte del merchandising al Farewell Tour. Non lo volli comprare quando li vidi all'Estragon, avevo l'amaro in bocca e pensavo che fosse ingiusto che si sciogliessero.
Invece avevano ragione, e mi ci sono voluti anni per capirlo. In questa sessione solo A&M, solo voce e chitarra, nient'altro. Francamente non so cosa farmene di un altra versione di The Shy Retirer, che ok, è stato uno dei loro pezzi più famosi ma per me è in seconda/terza fascia. Commovente come sempre invece Pro-(your) life, nella versione più nuda e splendente possibile. Ed eccellente anche Serenade, una delle loro migliori dell'ultimo repertorio.

martedì 18 agosto 2020

Arab Strap - The Frog Tape (Demos 1995)



Il demo (occhio e croce il terzo in ordine cronologico, ma non se lo ricordano neanche loro) che scatenò la loro saga, finendo sulla scrivania della Chemikal (siano sempre benedetti). I due precedenti conosciuti soffrivano di eccessiva dispersione e di qualche riempitivo imbarazzante, ma dopo un dovuto rodaggio i due capirono che sarebbe stato meglio concentrare ed il gioco era fatto. Un quarto d'ora scarso, con 4 pezzi su 5 rifiniti su The week never starts round here (fuori soltanto Drug Song For Paula, una gag meritevole di essere archiviata). Spazio alla slintiana Coming Down, al surreale upbeat-country I work in a saloon, alla quadrata Gourmet  ed alla gemma embrionale The Clearing, che conserverà i suoi tratti distintivi sulla nuova versione (battito tonfante, voce telefonata, nebbia fitta) a parte la coda noisy, un trapano che sì, è stato meglio tagliare.

lunedì 17 agosto 2020

Arab Strap - Sunday at the Hug & Pint (Demos 2002)


Questioni di completezza, oppure nostalgiche, o di legami affettivi.....Non sono pochi i riempitivi nell'AS Archive, ma va bene così, vogliamo sentire qualsiasi cosa abbiano registrato. Persino questi demos del 2002, quindi non proprio il loro momento dorato. La Cunted Version di The Shy Retirer viene chiamata in causa come abbandonata, ma non è che ci siano grosse differenze con la finale. E poi due lo-fi da camera d'albergo, dopo un concerto, stanchi ed emotivi. Lasciamo perdere la stucchevole Loch Leven....hey ma c'è The girl I loved before I fucked, già strutturata e liricamente intensa, anche in tal grezza rendition. Basta poco, per emozionarsi.

domenica 16 agosto 2020

Arab Strap - Sanitised Broadcasts 99​-​03


Dietro l'ironico titolo si trova un'antologia quadriennale che innanzitutto svela un retroscena: i 3 magnifici pezzi di Elephant Shoe in modalità trasfigurata (con Gow e Miller) che John Peel mandò in orbita come una delle sue sessions in realtà erano stati registrati con l'intento di diventarne la versione ufficiale. Che fosse un incomprensione o meno, Lord JP poteva fare quello che gli pareva sempre e comunque, di conseguenza A&M si dovettero adeguare. Questi 20 minuti li conoscevamo già, ma io li riascolterei all'infinito e non serve aggiungere altre parole che: The Drinking Eye, Pro-(Your) Life, Leave the day free.
Segue un eccezionale session in duo acustico, con ogni probabilità risalente al 2001 e si crede mai trasmessa da nessuno, con Aidan full-time sulle tastiere. La scelta di b-sides oscure come Blackness e Bullseye (quasi rabbrividente, con la novità assoluta della voce riverberata, credo mai successo nè prima nè dopo) sembra privilegiare le corde di Malcolm, che hanno un suono perfettamente cristallino e rendono massima giustizia alle composizioni. Per The devil tips ho terminato le parole, un'altra Tanned in unplugged fa aumentare gli interrogativi: com'è possibile che sia diventata una specie di (eccezionale) atmo-bossa in studio? Domande da fan terminale, questo è chiaro....
Il resto, beh...roba del 2003. Pregevolissima l'out-take di Fuck a doodle don't, presente solo nelle stampe australiane di Monday, e la sempre bella Glue. Per il resto, un po' di noia.

sabato 15 agosto 2020

Arab Strap - Quiet Violence (2002)



Mini autoprodotto, registrato in casa, distribuito gratuitamente agli avventori di un festival in patria. Erano grosso modo le prove generali di Monday at the hug & Pint, con i due in veste agreste, circondati dalle donzelle agli archi, un po' di beat box e kilt di ordinanza. Ciò che penso di questa fase non lo voglio ripetere di nuovo perchè mi sembra di essere ingeneroso. D'altra parte era giusto che l'operazione nostalgia su Bandcamp coprisse tutto il periodo di vita, ed ai tempi Quiet Violence era un'autentica rarità che bramavo per ascoltare.

venerdì 14 agosto 2020

Arab Strap - Paradiso 2003


Per Monday at the Hug And Pint ci fu una svolta in qualche modo prevedibile, perchè The Red Thread aveva speso le ultime cartucce di un filone aureo che non poteva durare in eterno. Quindi per il nuovo corso, materiale più accessibile, barocchismi e sinfonismi, velleità artistiche maggiorate e line-up amplificata, come testimonia questo Amsterdam del novembre 2003.
Archiviata la militanza pluriennale dei fidi Gow e Miller, gli AS si presentavano in 7 (!) sul palco del mitico Paradiso, con la nuova sezione ritmica Bathgate / Jeans, il violino di Jenny Reeve, il cello di Alan Barr e Allan Wylie alla tromba ed al piano. Un ensemble da camera che dispensa arrangiamenti professionali finendo per mettere MM in penombra, ma senza sacrificare il DNA dei pezzi, in gran parte prelevati dall'ultimo disco.
Questione di gusti. Questi sono gli AS che a me sono piaciuti di meno, e forse non si piacquero tanto neanche loro. Saranno casualità, ma credo che più o meno in questo periodo abbiano iniziato a meditare seriamente lo split.

giovedì 13 agosto 2020

Arab Strap - Mitchell Theatre 12•11•99 (Rough Mixes)


Un live album perso ed infine ritrovato, che li inquadra in uno dei periodi migliori (almeno per me, fan terminale di Elephant Shoe), del quale non si ricordano il motivo per cui fu abbandonato e neanche ripulito, da cui deriva la precisazione Rough Mixes. Spicca la presenza di Barry Burns dei Mogwai, già special guest sul disco e qui incluso per diverse performances al piano, elegante e mai invadente. Con Adele Bethel, coinvolta come sempre in Aries the ram, Pyjamas e Toy Fights, si era ormai agli sgoccioli.
Un concerto lunghissimo, come da tendenza del periodo molto protratto sui ritmi lenti e catatonici, che ha il suo climax nella versione monstre da un quarto d'ora di Autumnal. Fondamentali nello sviluppo le energetiche rendition di Direction of strong man e Hello Daylight, a spezzare l'aura di letargica magia che viene comunque trasfigurata nelle code noisy di Blood, New Birds ed Afterwards, showcase abituale di MM a terminare. Sì, forse era passato troppo poco tempo da Mad For Sadness, e si era in una fase molto delicata della loro convivenza. Un documento imprescindibile per i fan della loro fase di mezzo.

mercoledì 12 agosto 2020

Arab Strap - Malmö 2006


Con la line-up amplificata a quintetto (la sezione ritmica Scanlon/Simpson ed il jolly Jones), gli ultimi concerti degli AS furono tecnicamente impeccabili. Esecuzioni precise e focalizzate, un AM mai stato così intonato, non troppo spazio al passato nelle scalette, ed una sostanziale freddezza percepibile sia su nastro che dal vivo (ne ebbi tangibile impressione anche all'Estragon, Novembre). Non fa eccezione questo concerto svedese, che vede la miseria di 5 pezzi su 15 dal repertorio precedente a Monday at the Hug & Pint. Almeno presente l'ultimo loro capolavoro, quella The Girl I Loved Before I Fuck che finì paradossalmente come inedito di Ten Years Of Tears invece di alzare la media di The Last Romance.
Ma ormai erano al sipario, e l'amarezza di aver perso la spontaneità dei giorni migliori era una triste realtà. Non a caso, neanche uno straccio di liner notes, sulla relativa pagina Bandcamp.

martedì 11 agosto 2020

Arab Strap - Live in Melbourne 2: Corner Hotel (2001)

Nella stessa giornata, la seconda di due serate consecutive a Melbourne, ovviamente sempre in unplugged (tastiere permettendo). Un set incantevole, fra i più brillanti esemplari di capacità di trasfigurazione dei loro pezzi, con elementi semplici e la loro umiltà, nient'altro. Stesso trio del pomeriggio, con Gow alla doppia seduta spazzole / tastiere, ed AM a fare qualche colpo di piano.
A partire dall'incipit elegante di Amor Veneris, nessun colpo a vuoto. La dinamica Scenery fa l'ennesimo figurone. La resa di Turbulence (uno dei pezzi che amo di meno del loro repertorio, confesso) è superiore all'originale. La magica bossa nova di Tanned trasformata in una torch song in minore, memorabile comunque. La nerissima Bullseye ancor più angosciosa dell'originale, con AM in massimo tasso di emotività. Per Hallo Daylight penso di non poter trovare più parole per decantarne il mio amore. Here we go senza beat fa strana sensazione, ma la sostanza del classico è inattaccabile.
Un concerto a livelli quasi da album ufficiale.

lunedì 10 agosto 2020

Arab Strap - Live in Melbourne 1: Punters Club (2001)

Ebbero un buon riscontro anche in Australia, dove se non sbaglio avvennero le prime esecuzioni in acustica. In quel di Melbourne, il 17 Marzo ne fecero ben due. Il primo si svolse in questo Punters Club ed è un buon set variegato, che pescava da tutti e 4 gli albums fino ad allora sfornati da A&M. 
Fondamentale comunque la presenza di David Gow nella seconda metà, fra spazzole e tastiere (Islands e The Devil Tips, eccezionale). Un musicista versatile e perfetto per la causa AS, che dopo quell'esperienza non troverà molta fortuna con i Sons And Daughters.

domenica 9 agosto 2020

Arab Strap - Live in Liverpool 2005

Fatti curiosi che possono capitare. Quand'è capitato ai Cure, c'è stata la riserva pronta a salire sul palco. Per gli AS, al posto del batterista Jeansy dovuto scappare a casa per un emergenza, è toccato seccamente ad una Korg Rhythm del 1979, forse programmata in fretta e furia per una parte della scaletta, di conseguenza virata sull'acustico (sul palco anche il cello di Alan Barr).
Ma a dire la verità, (e francamente sarebbe stato difficile il contrario), il concerto ne risente. Sopratutto dal 2003 in avanti, si sono esibiti molto in versione acustica, però appare chiaro che tale situazione richieda preparativi (magari anche solo psicologici, chi lo sa) che vanno oltre lo standard. Un peccato, perchè d'altra parte il gruppo fu in grande forma fino alla fine, ma questo live non va oltre lo status di mera curiosità.

sabato 8 agosto 2020

Arab Strap - Instrumentals Y2K

Descrizione esauriente nelle notes: due strumentali del 1999/2000 che avevano il potenziale per arrivare a The red thread ma non giunsero mai allo stadio di applicazione dei testi. Siamo forse al picco ispirativo di A&M seconda fase, diciamo quella più matura ed eclettica. Black Indie Metal è quasi slow-core e deve il suo ironico titolo al "chorus" ultra distorto di Malcolm. Unfinished Fireworks è un retaggio quasi Mogwaiano nel versante più pastorale possibile, di cui finirono comunque per usare un breve tratto per un bridge di Love Detective, quello col piano in contrasto armonico.
Nei credits finalmente viene messo per iscritto che la batteria la suonava Aidan, ne avevo la certezza ed il sentore, ed ho sempre ritenuto che fosse un buon drummer, soprattutto per le fasi quiet.

venerdì 7 agosto 2020

Arab Strap - Blossoming Romance (Demos 2005)

Tre demos per The Last Romance. Il primo pezzo è così intitolato ma in realtà si tratta di Don't Ask Me To Dance, in una versione grezza ma strutturalmente identica all'originale. Interessante com'era l'idea originale di If there's no hope for us, con partitura acustica, immersa in un beat freddo ed immutabile, sviolinate e spoken word. Praticamente un altro pezzo. Infine una Dead Air a bpm zavorrati, ad effetto maggiormente bucolico dell'atmosferica conosciuta come b-side.
Per veri completisti.


giovedì 6 agosto 2020

Arab Strap - Astoria '98

Un mini-set di mezz'ora pre-Philophobia, ovviamente incentrato su di esso nella veste live, più cruda ed essenziale. Spicca una versione da 11 minuti di My Favourite Muse, con un MM impazzito che conferisce una carica noise alla parte solista, con tanto di finale puro-harsh. Il processo di estrema elettrificazione prende anche One Day, After School che detiene un ritmo up-tempo che svanirà nel nulla in sede di registrazione dell'originale. Intrigante anche la resa di The First Time You're Unfaithful, che evidenzia la bellezza delle parti chitarristiche. In generale, è un buon anteprima di come sarebbe potuto diventare Philophobia senza la produzione; non meglio nè peggio, solo diverso.

mercoledì 5 agosto 2020

Arab Strap - Accelerator: Stockholm 2001-07-05

Con una copertina ed un nome abbastanza fuorviante, è l'ufficializzazione di un bootleg che mi ero perso. Per fortuna che fa parte del ripescaggio, perchè si tratta di un live di altissima qualità. Sul palco di Stoccolma, in quell'occasione, anche un tastierista, tal Lewis Turner, mai sentito nominare. Si trattava comunque di una ciliegina benvenuta, vedi le inusitate folate di mellotron (!) in Screaming in the Trees e sull'eccezionale resa di Scenery, in cui il suddetto sfoggia anche un solo di pianoforte elettrico nel finale, di gran gusto. Ma tutto il gruppo è in forma e snocciola grandi versioni dell'onirica The devil-tips, della spettrale Blackness, della commovente Pro-(your) life, nonchè una delle migliori New Birds di sempre.

martedì 4 agosto 2020

Arab Strap - Archive 2020

22 anni fa avevo 22 anni e scoprivo, grazie ad un'ascolto strappato dal Pig, gli Arab Strap con Philophobia. Da quel momento per me fu istantaneo amore assoluto per il duo scozzese, ed ovviamente ne seguii le mosse con puntualità. E' stata la band che ho visto più volte dal vivo, il loro forum online fu il primo a cui mi iscrissi e partecipai. Una decina d'anni fa scrissi una monografia su Sunday Morning mettendo a fuoco tutta la mia passione verso il loro catalogo, e rileggendola ora sto realizzando che il ricongiungimento degli ultimi anni sia più che giusto, anche se per adesso limitato ai concerti ed alle ristampe. Hanno sempre avuto un certo gusto per le autocelebrazioni, Aidan e Malcolm, e la costrizione casalinga della pandemia li ha in qualche modo guidati a perpetrare un ripescaggio di cui si ventilava da anni; l'Arab Strap Archive, materializzatosi su Bandcamp il 1° Maggio scorso.
Si tratta di un pack di 20 titoli in totale, una vera festa per noi feticisti / completisti di A&M. Non tutto è completamente inedito (conoscevamo già Live 7", Quiet Violence, Cunted Circus, Acoustic Request Show, ma è comprensibile l'intenzione di ripromuovere uscite originalmente molto limitate), ma come scritto nelle note, i due hanno sempre pensato che i loro momenti migliori fossero fuori dai soliti studio, e si tratta di una storia degli AS fra i vicoli e le strade rurali.
Voglio quindi dare risalto ad una buona parte di questo archivio e poi prendermi una pausa, in puro AS-style; preannuncio, eseguo, lascio e poi tornerò. Non si sa quando, ma, salvo forze maggiori, tornerò....

domenica 2 agosto 2020

Red House Painters - Live 1993.07.24 – 4AD at the I.C.A. - London, England

Documentone di un mini-festival organizzato per un compleanno della 4AD. Avevano esordito a Londra nel novembre del 1992 e da allora non erano più tornati. Nel frattempo era uscito Rollercoaster da un paio di mesi e tutte le sue conseguenze, un pubblico in aumento ed uno stato di grazia stellare. Il concerto lo certifica in tutte le maniere possibile, nonostante una qualità discutibile, non certo soundboard: tuttavia la bilanciatura è buona, i bassi si sentono distintamente ed una volta fatto l'orecchio, il bootleg è commovente; non avevano ancora raggiunto quella confidenza e quella coesione che li avrebbe portati a diventare dei navigatori delle stelle un paio d'anni dopo, qui legati alla struttura originaria, con poche variazioni (strana soltanto la rendition di 24). Immagino la meraviglia dei presenti nell'ascoltare Evil, qualche mese prima della sua pubblicazione, nonchè la deliziosa cover I Am A Rock. Per il resto, esecuzioni perfette di Katy Song, New Jersey, Strawberry Hill, Dragonflies. Pubblico non vasto ma sonoramente entusiasta. 
E ci credo.

venerdì 31 luglio 2020

Beach House ‎– B-Sides And Rarities (2017)

Diceva un fan, alla notizia di questa miscellanea dei BH, che senso ha una loro raccolta di b-sides? Le loro A-sides sono come delle B-sides!.
Ci ho messo un po' a capirla, ma credo che sia un gran complimento. L'arco temporale va dal 2005, un anno prima del debutto, al 2016. Non nascondo che, inconsciamente, speravo di trovare qualche perla di quello che ritengo il loro periodo d'oro, da Devotion a Teen Dream, oppure qualche letargica e fascinosa nenia del primissimo periodo. Non ho scovato niente di clamoroso, ma la raccolta l'ho ascoltata a ripetizione, forse proprio perchè per la sua omogeneità e in un certo senso per la riscoperta delle loro produzioni meno sofisticate, pertanto ancora più umane e arrendevoli.

mercoledì 29 luglio 2020

Felt ‎– Forever Breathes The Lonely Word (1986)

Terminata la prima fase dei Felt, con i due bellissimi album del 1984, Hayward dovette trovarsi di fronte ad una defezione importante, quella del bravissimo chitarrista Deebank. Dopo un disco un po' transitorio nel 1985 ed un mini strumentale nell'estate 1986, a fine anno tornò alla forma migliore con FBTLW, senza fare rivoluzioni copernicane nè tradire il proprio integralismo. Diventato unico compositore, delegò la chitarra ad un nuovo acquisto e diede maggior peso all'organo di Duffy, ormai tratto onnipresente, infiorettante e colorito. Rimarchevole anche la prestazione del bassista Thomas.
Ma la sostanza restava il suo forte; il songwriting, baldanzoso e vivace, rigorosamente fuori moda, che induce alla positività ma sa dare i colpi migliori quando gli accordi si fanno anche minori al posto giusto, nel momento giusto (Down But Not Yet Out, All The People I Like Are Those That Are Dead, Gather Up Your Wings And Fly). 
Un altro colpo di artigianato per il buon Lawrence, nonostante la dipartita di colui che sembrava essere il principale responsabile delle musiche. Sbruffone era e sbruffone restava.

lunedì 27 luglio 2020

Khanate ‎– Khanate (2001)

C'è una fantastica intervista retrospettiva, realizzata un decennio dopo lo split, che esordisce con SOMA riflettendo così: We never had a big audience. E finisce con un orgogliosissimo Dubin che, in merito all'influenza che i Khanate hanno esercitato su una legione di bands, sentenzia così su tali presunti replicanti: ...I don't hear the magic. I eat those people with some Fava beans and a nice Chianti".
Su di loro ho detto tutto quello che potevo esprimere: Things Viral (2003), Capture & Release (2005), il Live del 2005, il postumo del 2009. Nessuno di questi fu meno di un capolavoro. Non mi ero soffermato invece sul primo omonimo, che sì avevo ascoltato ma mi aveva impressionato meno. Ripescandolo dopo tanto tempo, resta indubbiamente un prodotto doom in grado di devastare la concorrenza, ma meno innovativo dei seguenti; i 4 necessitavano di un rodaggio per trovare il bandolo della matassa e deflagrare artisticamente.
Come si evince dall'intervista sopracitata, inoltre, il metodo di lavoro fu inusuale e non ripetuto in seguito, consistendo essenzialmente in un cut-and-paste ad opera di Plotkin, che assemblò l'opera in studio da registrazioni sparse. Da questo derivò l'inizio di una lunga di serie di attriti fra l'ingegnere/bassista e SOMA, sostanziale causa dello split nel 2006, e causa del fatto che il gruppo dovette imparare i pezzi per poterli eseguire live. Ma questa è un'altra storia, ed al suo netto resta il fatto che Khanate è un primo pugno nello stomaco, con un SOMA prorompente, un suono più metallico ed una fisicità maggiore, insomma un disco più terreno e crudo. Un degno antefatto.
I don’t hear the magic. I eat those people with

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I don’t hear the magic. I eat those people with

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I don’t hear the magic. I eat those people with

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I don’t hear the magic. I eat those people with some fava beans and a nice Chianti.”

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sabato 25 luglio 2020

Screams From The List #97 - Plastic People Of The Universe - Egon Bondy's Happy Hearts Club Banned (1978)

Pubblicato in Francia solo nel 1978, ma con registrazioni risalenti al 1974, Egon Bondy's rappresenta il primo album di questa band praghese che fece dell'opposizione al regime vigente il suo massimo credo, ed a causa di questo ebbe tanti problemi nel poter esercitare la propria attività.
Musicalmente, è materiale che tutto sommato si mantiene dignitoso nonostante porti tutti gli anni che ha sulle spalle, ma credo che le parole di Vlad, seppur entusiastiche, possano rendere un'idea a fuoco del sound, alle quali non aggiungo altro.
....esso spazia con forza bislacca fra raucedini beefheartiane, arieggiamenti del primo Zappa, sfiati di sassofono, inserzioni acide di violino: un fondo underground e notturno (ascrivibile anche al loro esilio artistico) dona un fascino costante a tutta l’operazione...

giovedì 23 luglio 2020

Tom Recchion ‎– Freak Show (1982)

Il primissimo album del mitico TR fu una cassetta (!) edita da una label giapponese, la Pinakotheca, ad esperienza LAFMS ancora fresca. Destino alquanto carbonaro per un personaggio che avrebbe meritato ben altra esposizione, ma che forse per scelta sarebbe rimasto nell'ombra più totale fino al ripescaggio a metà anni '90. Freak show viene minimizzato dalla registrazione piuttosto lo-fi, ma già evidenziava la genialità del nostro. Si apre con The real strungaphone, che verrà ripescata sull'antologia The lowest form of music, ma non è la traccia più rilevante. Sono le 4 tracce a seguire a mettere in mostra una forma spastica e surreale di new-wave che resterà irripetuta nel canzoniere Recchioniano, soprattutto Gun shine e Love was pain, ad avere un po' di fantasia una mutazione narcotica e dadaista dei Wire. Pezzi a quanto pare registrati in completa solitudine, nel caso fosse vero un'altra grande sorpresa, vista la non banale tessitura delle chitarre (e geniale il canto, totalmente sconclusionato, ai limiti del demenziale).
Il Lato B contiene il concetto Pieces, diviso in 5 parti, e vede TR in una situazione puramente avanguardistica, dedito ai suoi strumenti autocostruiti, con zero melodie, clangori semi-metallici, situazioni comunque non esenti dal DNA giocoso che marchierà a fuoco le sue prove migliori. Ripeto per l'ennesima volta; un autentico mago del suono.

martedì 21 luglio 2020

Shellac ‎– The End Of Radio (14 July 1994 Peel Session / 1 December 2004 Peel Session)

Pubblicato l'anno scorso forse per spezzare l'attesa per il seguito di Dude Incredible, è l'unione delle 2 Peel Sessions per la BBC. La prima, brevissima, risale al 1994 e la conoscevamo già per mezzo di semi-bootleg che trova ufficializzazione discografica.
Ben più interessante e corposa (quasi 40 minuti) quella di fine 2004, avvenuta pochi mesi dopo la morte di John Peel. Diversi anteprima di Excellent Italian Playground, anche se il mio parere su quel (debole) album resta invariato. Nove minuti di The End Of Radio sono un po' pesanti. Per fortuna che riscatta tutto la sempre eccezionale Steady as she goes e nel finale i tre decidono di voltarsi al passato remoto con 3 K.O. tecnici. Billiard Player Song beneficia di una dilatazione (oltre 9 minuti rispetto ai 4 dell'originale) sconosciuta per i loro canoni, quasi allucinatoria. 
Infine, Dog And Pony show e Il Pornostar. Micidiali, serve altro?

domenica 19 luglio 2020

Egisto Macchi ‎– Nucleo Centrale Investigativo (1974)

Soundtrack per una serie TV, ovviamente poliziesca, del 1974 per l'Egisto nazionale, ai tempi molto dedito ad operazioni diciamo meno nobili, che si andavano ad intersecare con prodotti più ambiziosi ed avanguardistici. Ma sappiamo bene ormai che quella mente illuminatissima sapeva trasformare anche la più banale della commissione in qualcosa di magico.
NCI parla soprattutto la lingua della suspance opprimente, del thrilling tangibile di cui spettatore diventa preda, delle micropunte di archi e percussioni, seppur votato molto poco alle dissonanze e quindi meno coraggioso delle sue opere che ci hanno sbalordito. E' una raccolta in cui il basso elettrico ha una sua importanza in alcune tracce, con la comparsa addirittura di una sparuta e desolata chitarra, pertanto è un Macchi diverso dal solito, che lascia il segno come sempre. 
Ristampato nel 2015 dalla Cinedelic, che ha avuto la simpatica idea di allegare al vinile una paletta poliziesca sagomata.

venerdì 17 luglio 2020

John Carpenter, Cody Carpenter, Daniel Davies ‎– Halloween (Original Motion Picture Soundtrack) (2018)

L'occasione è il (quasi) quarantennale dell'originario Halloween, uno dei cult più celebrati di JC. E per i suoi 70 anni, dimostra la grandezza personale dell'uomo: non soltanto non ha voluto interferire con il remake, ma si è prestato con umiltà a rielaborarne di conseguenza la soundtrack, che ovviamente fu farina del suo sacco, accreditandola ai suoi due fidi collaboratori, il figlio Cody ed il chitarrista Davies. 
Il primo approccio non mi aveva entusiasmato: all'inizio il classicissimo tintinnio di pianoforte che identifica in tutto e per tutto la pellicola viene declinato in salsa techno, con pompa cassa. Una volta digerito questo aspetto, però, ne esce un viaggio avvincente, che sta in piedi senza l'ausilio della visione, lascia spazio alla fantasia e gode di un suono straordinario, come peraltro i dischi di JC solisti degli ultimi 3/4 anni. Fra dolenti sonate di piano, imponenti figure sintetiche, deflagrazioni di bassi tonanti, riprese e ripresine, insomma, è sempre il solito Carpenter, che può piacere o non piacere. Che non sorprende, se non per la cura e la passione che trasudano dalle sue musiche.

mercoledì 15 luglio 2020

Cabaret Du Ciel ‎– Skies In The Mirror (1992)

Interessante ripescaggio da parte di una piccola etichetta francese che nel 2018 ha riversato su vinile un tape risalente al 1992 ad opera di Cabaret Du Ciel, ovvero un duo di reduci punk/wave veneti (tali Desiderà e Morosin) riadattatisi ad una forma di sonorizzazione ambientale/soundtrack di accompagnamento a proiezioni video-art. Skies in the mirror uscì nel 1992 solo su formato cassetta, e dovette aspettare 26 anni per essere ristampato, ma tutto sommato meritava di essere ripreso dal nulla per beneficiare di un ascolto a posteriori.
Al di là delle oggettive, ridotte qualità audio di quella che di fatto era una autoproduzione al tempo, il prodotto è estremamente datato nei suoni, vertendo su una specie di minimalismo-ambient-gaze a base di bassi e nebulose di synth/midi fattura, ravvivate tuttavia da una chitarra che a tratti si mette a suonare cristallina e fa la sua figura. Devo ammetterlo: al primo pezzo avevo già pensato ecco, un altra spazzatura Midi di inizio anni '90, ma pezzi come Staircase to nowhere, Raintears e Falasarna Exposure hanno un fascino spazio/notturno tutto particolare, fanno perdonare altrettante cadute di tono/stile e fanno passare il concetto di "sana e sincera naivetè" (da chiamare in causa con rigore e non me ne voglia nessuno) dalla parte della ragione.

lunedì 13 luglio 2020

Harold Budd ‎– Avalon Sutra (2004)

Sembrava un cerchio in perfetta chiusura: HB dichiarò l'auto-pensionamento, alla soglia dei 70, e si apprestò a registrare per l'ultima volta per la label di David Sylvian, che nelle sue pagine ambient era stato un superbo discepolo del verbo buddiano, che ne diede l'annuncio con fierezza.
Non è andata così, perchè giù l'anno successivo tornava a pubblicare, seppur a più mani, e l'avrebbe continuato a fare con assiduità, ma le sue dichiarazioni fecero capire un ripensamento genuino e sincero. Proprio come la sua musica.
Comunque sia andata, Avalon Sutra resta uno dei suoi capolavori e costituì una mirabile sintesi delle migliori doti suggestive del californiano. I rimandi all'opus Pavillion Dreams sono frequenti, ma le composizioni sono snocciolate in maggior parte in forma breve, distillando un ispirazione superba in acquarelli commoventi. Strumentalmente, il contributo al suo elegiaco pianoforte si divide fra un pastorale quartetto d'archi ed i fiati nobili di Jon Gibson (in 4 pezzi, anche co-accreditato alla composizione), a costruire un quadro perfetto, da cui farsi avvolgere senza alcuna speranza, nonostante un lieve calo nelle tracce centrali del disco, più concentrate a costruire ipnosi e dilatare le atmosfere. Ma miniature supreme come Three Faces West, It's steeper near the roses, Porcelain Ginger, le 3 Arabesque, Faraon sono pura levitazione mentale.
Non era ancora la fine, avrebbe avuto ancora qualcosa da pennellare, il Maestro. Magari non a questi livelli, ma lo ha dimostrato.

sabato 11 luglio 2020

God Machine - Peel Session 1992-04-21

L'unica session della Macchina Divina per la buonanima di John Peel, tenutasi il 21 Aprile 1992. Il benemerito DJ li convoca con un tempismo non perfetto, a meno che non amasse particolarmente Purity, in quel momento unico prodotto sul mercato del trio, uscito nel Novembre 1991. Comunque sono tempi frenetici, soprattutto in UK, e non stiamo certo discutendo sui meriti del glorioso conduttore. Un mese dopo debutteranno su Fiction con l'EP Desert Song e prenderanno il razzo per la stratosfera; sono passati quasi 30 anni, ma la mia considerazione per questa immensa band non è stata minimamente scalfita dal tempo.
Proprio da quell'EP in rampa di lancio Robin, Ron e Jimmy prelevarono 3 pezzi su 4 per questa esclusiva session: tramite i bootlegs abbiamo capito quanto fossero travolgenti sul palco, ebbene, anche nello studio BBC non si fecero trattenere e rilasciarono tutta la loro energia; Commitment, ad esempio, ne esce addirittura più fragorosa ed alienata. La Desert Song in versione non prodotta non sfigura ridimensionata, facendo della propria ossessività la risorsa principale. La crepuscolare Pictures of a bleeding boy chiudeva la session con toni intimisti ed universali, e nonostante manchi delle sovrapposizioni vocali di studio ha la stessa magia ipnotica. 
Completava il quadro la cover dei Bauhaus Double Dare, che troverà casa ufficiale un'anno dopo nell'EP Home, piuttosto calligrafica anche in questa rendition, ma sempre impressiva ed efficace.
Una mezz'ora di Macchina Divina, grezza, istintiva, luminosa. 

giovedì 9 luglio 2020

These New Puritans ‎– Inside The Rose (2019)

Ben 6 anni di distacco fra l'ottimo Field Of Reeds e l'ultimo dei fratelli Barnett, ormai rimasti in solitudine familiare nell'art-output del puritanesimo, questa volta in decisa virata verso un post-gotico dal forte impatto ritmico (soprattutto la prima metà dell'album), prodotto con una cura maniacale in tutti i dettagli, e che non può non ricordare costantemente acts come Piano Magic, l'O'Sullivan in guisa Mothlite, o addirittura gli ultimi Ulver in certi tratti. Nella seconda metà emerge invece il lato più sinfonico/pastorale, con un songwriting incantevole in A-R-P e Where The Trees Are On Fire (ma anche l'intro Infinity Vibraphones è una vetta).
Praticamente infinita la lista dei collaboratori, fra cui un cameo di David Tibet, la cui ombra effettivamente si può intravedere in qualche passaggio. Il vero protagonista però è il glorioso Graham Sutton, che registra, mixa e fa qualche coro; è proprio ai suoi, grandissimi Bark Psychosis, che gli highlights di Inside The Rose pagano un commosso e sincero tributo.

martedì 7 luglio 2020

Lard Free ‎– Lard Free (1977)

Terzo ed ultimo per lo Sgrassato di Gilbert Artman, che nel giro di 4 anni passò dal free-jazz-core del primo all'elettronica pura del secondo fino a terminare nel 1977, con una line-up collaborativa sempre mutata da un episodio all'altro. Per questo capitolo conclusivo del progetto, il polistrumentista normanno non si avvalse più di strumentisti classicamente jazz-rock, ma di figure adatte ad un altro coacervo di elettronica spinta, che sul lato A include la lunga Spirale Malax, un trip oscuro degno dei Tangerine Dream di qualche anno prima. E' tuttavia il lato B che riserva maggiore interesse, con la Synthetic Seasons, divisa in 3 parti, con droni di organo solcati da una batteria tonante in estemo riverbero, suoni quasi industriali, sulla prima. La batteria torna vicina e ben udibile nella parte due, che sgrana un ritmo dispari saltellante, con il chitarrista Baulleret che sale in cattedra con un lamento ultra-elettrico atonale ed angoscioso. Da manuale. Terminato il groove, fra le macerie resta solitario un clarinetto desolato che preannuncia la parte 3, con un lungo groove metallico da incubo che va in fade out fra glitches spaziali, per una suite complessiva lacerante e intimorente. Che sia stato questo album a far entrare lo Sgrassato nella List, anzichè il primo? Oppure tutti e tre?

domenica 5 luglio 2020

Peter Jefferies ‎– Last Ticket Home (2019)

Avevo letto da qualche parte che nel 2013, dopo oltre 10 anni, il grandissimo PJ era tornato ad esibirsi dal vivo, ovviamente dalle sue parti (Nuova Zelanda). Per cui la speranza che tornasse a comporre e registrare non era tramontata del tutto, e forse Last Ticket Home potrebbe essere la preview di qualcosa. Si tratta di un'antologia di rarità ed inediti che copre l'arco temporale 1991-2019, perchè in effetti al termine della tracking list troviamo due pezzi del 2015 per un 7" mai rilasciato, nonchè due unreleased del 2019 stesso. Il tutto testimonia un ritorno di PJ alla forma canzone più canonica, ma sembra sul filo del rasoio fra melodismo raffinato e tensione opprimente (All across the sky, che inizia come un crooning cabarettistico e tramuta in un incubo claustrofobico). Il piatto forte a mio avviso sta nei due pezzi prelevati da un live del 2002, l'ultima stagione prima del ritiro, con esecuzioni efferate di due classici come Electricity e World in a blanket, quest'ultima in una rendition da far accapponare la pelle e far scomparire l'originale.
La prima metà dell'antologia preleva rarità varie da compilation, altri 7" come la rimarchevole collaborazione col chitarrista Chris Smith (Ghost Writer e Westgate Exit, superbi entrambi). Superfluo ribadire la statura di questo cantautore unico, anche in una raccolta estremamente eterogenea come questa, che ha saputo prendere elementi classici e trasformarli in una formula variegata, travolgente e raffinata, vellutata e grezza, immediata e sperimentale.

venerdì 3 luglio 2020

Alexander Spence ‎– AndOarAgain (2018)

La giusta pietra tombale su un capolavoro che cresce col tempo, uscendone letteralmente. La storia infatti ne ha amplificato la statura, e a 20 anni dalla morte di Skippy l'idea di saccheggiare i demos di Oar sembrava assurda e potrà anche sfiorare il feticismo, ma incredibilmente, l'ascolto dei 3 cd scorre placidamente, riservando svariate, piacevoli sorprese.
Del talento puramente strumentale di Skip si sapeva; le sue doti di batterista, ad esempio, emergono nei demos in maniera disarmante, dimostrando che si esprimeva al meglio forse quando riteneva che quello che stava suonando non sarebbe finito sul master. E non da meno le performance alle chitarre, di filigrana finissima e con ceselli notevoli fra le pieghe inedite. Scopriamo così che la traccia più provata e riprovata è Diana, di cui troviamo persino una versione con la 12 corde, mentre di Books of Moses non troviamo neanche una alternate take. Ma nel mezzo possiamo trovare un oceano oariano, certamente indirizzato ai fans terminali di uno dei dischi più umani che sia mai stato pubblicato, realizzato in completa solitudine dopo 6 mesi passati in una clinica psichiatrica, senza neanche poter imbracciare una chitarra. Era tutto nella sua testa.

mercoledì 1 luglio 2020

Richard Skelton ‎– Border Ballads (2019)

Dopo un triennio di sostanziale calma, fra il 14 ed il 17, RS è tornato ad essere iper-prolifico ed è abbastanza dura stargli dietro. Concentrandosi fra le uscite fisiche, Border Ballads appare come uno dei più significativi ed un caloroso ritorno alle gloriose origini a livello di emotività, dopo che il suo suono si era incupito e caricato di nuvoloni. Gli impasti di viola e violoncello pertanto tornano ad essere protagonisti in questo concept (12 brani, media 4/5 minuti) che verte sui confini rurali fra Scozia ed Inghilterra, con particolare attenzione ai corsi d'acqua.
Ma non sono solo i preziosi archi ad essere sugli scudi, in quanto Skelton si concentra sensibilmente (una metà circa del lotto) anche sul pianoforte, con sgocciolii di note contemplativi, a mo' di cornice espessionista. Il risultato è immancabilmente incantevole, commovente, anche se non posso non notare somiglianze con Stray Ghost, in un versante meno accademico e più emotivo. Riccardo Cuor Di Leone è così, fa dischi che posso ascoltare anche 10 volte di fila e non stancarmi mai, saluto il suo ritorno alla forma migliore e pazienza se non riesco ad ascoltare tutto quello che fa. Le emozioni più profonde vanno centellinate, sempre.

lunedì 29 giugno 2020

Sisters Of Mercy ‎– Floodland (1987)

Quando sembrava che i SOM potessero spaccare le classifiche, dopo un debutto lungo di buon successo, Eldritch dovette fare i conti col suo caratteraccio. Hussey e Adams lo piantarono in asso per andare a fare i Mission, così si ritrovò a preparare un album di fatto solista. Patricia Morrison, una ex-Gun Club, figurava nella line up ma pare non abbia suonato neanche una nota di basso. Floodland ha pertanto una peculiarità; sembra suonato ma in larghissima parte è digitale.
Un disco controverso, portato all'eccesso, che passa da estremi ad estremi. La concessione al ballabile marziale, ammiccante alla melodia, dell'opening Dominion / Mother Russia, non prometteva per niente bene. Flood I, dall'incedere lugubre e minaccioso, segnava il tratto solenne e piuttosto enfatico, facendo pensare che le chitarre fossero scomparse. Ma a partire da Lucretia My Reflection torna la magia nera di Eldritch, la pregnanza di pathos proiettata in un cielo notturno. E il lied pianistico 1959 lo metteva in mostra in un inedita veste di dark-crooning struggente e melanconico.
This Corrosion, 11 minuti supersonici per corali ed orchestra, in teoria doveva essere il super-hit ma era pur sempre il 1987 e non era al grandissimo pubblico che Eldritch puntava. Flood II e Driven like the snow confermano la tendenza maggiore del disco, ovvero di una glacialità ed una compostezza generale che segnava un profondo cambiamento rispetto agli inizi: il songwriting restava alto, gli arrangiamenti perdevano qualcosa ma Eldritch guadagnava in status. Il gorgo finale di Never Land (A Fragment), di un celestiale che più nero non si poteva, ne era il degno suggello.

sabato 27 giugno 2020

Black Heart Procession ‎– The Waiter Chapters I-VIII (2017)

Interpellato sullo stato dell'entità BHP, Pall Jenkins ha dichiarato che è piuttosto arduo definirlo in quanto Tobias Nathaniel da tempo vive a Belgrado, mentre lui è rimasto a San Diego. Fermi discograficamente dal 2009, i due hanno reincrociato gli strumenti per un paio di tour europei gli anni scorsi, ma ad oggi sembra improbabile un ritorno, almeno per adesso.
Tempo di retrospettive quindi, a partire dalla ristampa di 1 per il ventennale. The Waiter Chapters invece ebbe origine nel 2008 come limited tour only cdr, ed aveva la peculiarità di contenere gli episodi inediti #6 e #7. Quasi 10 anni dopo è stato il momento della ristampa in vinile con l'aggiunta dell'#8, come a chiudere una serie. La saga del cameriere ebbe svolgimento lungo i primi 5 album di BHP, e quando venne pubblicato Six non soltanto non ero a conoscenza della prima edizione della raccolta, ma in fondo non mi posi la questione per la quale era assente.
Il lato più dimesso, solenne e abbandonato a sè stesso di Jenkins e Nathaniel ha avuto nei Chapters uno degli output più noir nonchè memorabili. Il fatto che siano anagraficamente distaccati non impedische che l'antologia abbia una coesione mirabile. I tre inediti, immagino outtakes di The Spell e Six non aggiungono nè tolgono nulla alla storia. Ma l'occasione di riascoltare le prime 4 puntate è di quelle speciali e riporta a dolci ricordi di 20 anni fa.

giovedì 25 giugno 2020

Screams From The List #96 - Cupol ‎– Like This For Ages (1980) + B.C. Gilbert / G. Lewis 3R4 (1980) + Ends with the sea (1981)

Per niente facile orientarsi nell'universo Wire post-154. Se Newman andò abbastanza banalmente a suo nome, Lewis e Gilbert diedero la stura ad un fiume inarrestabile di musica per almeno 4/5 anni, pubblicando con ogni probabilità tutto ciò che registrarono. Sulla seconda puntata della List finirono così per ben due volte; dell'essenziale progetto Dome ho già scritto con entusiasmo, ed era una faccenda autoprodotta. Al contempo la 4AD li mise sotto contratto e nell'estate 1980 fecero uscire un mini, Like This For Ages, a nome Cupol. La title track, un flusso di coscienza diretto erede degli incubi angosciosi di 154. Furono i 20 minuti di Kluba Cupol a gettare la maschera: L&G si erano dati all'avanguardia pura, con un monolite altamente percussivo, fra industriale ed etnico, che di musicale ormai non aveva più nulla.
Fu con questo mini-shock che guadagnarono l'ingresso nella List. In autunno tornarono con l'LP 3R4, ma il monicker Cupol era già stato abbandonato in favore dei semplici nomi personali. L'impatto percussivo è svanito a discapito di un'ambient foschissima, nebbiosa, minimalista.
Nell'aprile 1981 tornano con un 7", Ends with the sea. Torna una vaga forma di struttura armonica, con delle chitarre, un canto vero e proprio, seppur sempre immerso in un contesto alieno.
Per Ivo l'esperimento fu sufficiente e non ci fu proseguimento nella collaborazione; sicuramente le vendite furono scarsine e le parti si salutarono. Nel 1988 la label comunque raggruppò tutti e tre i vinili in un cd antologico a nome 8 Time, che quindi divenne il prodotto più indicato a finire sulla list, perchè sicuramente più reperibile. Preso nel suo complesso, suona quindi piuttosto eterogeneo, ma meno datato di altre sperimentazioni coeve.

martedì 23 giugno 2020

Siouxsie And The Banshees ‎– Hyaena (1984)

Nello stesso anno in cui dava alle stampe The Top, uno dei lavori più eterogenei e controversi dell'intera saga Cure, Robert Smith campeggiava in bella vista con la sua cofana nel quadrilatero S&TB, non più in veste di guest ma di effettivo, e co-autore di tutti i pezzi di Hyaena. E dava un gran bel contributo ad una band che iniziava a sentire un po' troppo la pressione della Geffen e sfoderava l'ultimo colpo di reni prima di un decadimento inesorabile.
In gran parte Hyaena è il risultato di una maturazione che aveva portato ad una consapevolezza: non andare oltre i propri limiti, ma dato che nella vena migliore ormai era stato dato quasi tutto, provare a fare qualcosina di stravagante e inatteso. Dazzle è un opening abbastanza canonico ma l'intera sezione di archi ad ispessire già dava il senso di barocchismo di lì a venire. Take me back, col suo organo saltellante e gli impasti vocali virtuosi è un divertentissimo divertissment. Il centro pieno è la pianistica Swimming Horses, talmente entusiastica da essere promossa come singolo (l'altro fu la beatlesiana Dear Prudence, un inspiegabile pugno in un occhio), ed oggi ancora memorabile. Al canzoniere gotico di mestiere vanno assegnate Blow the house down e l'epic Bring Me The Head Of The Preacher Man. Il buon Bobby fece il suo pregevolissimo lavoro di cesello chitarristico, arabescato come da situazione generale. Peccato che la Siouxsie non gli fece aprire bocca; quella sarebbe stata la vera innovazione.

domenica 21 giugno 2020

Matt Christensen ‎– Coma Gears (2014)

Assimilata la sorpresa con Honeymoons e indagato superficialmente sugli Zelienople, la voglia di ascoltare altro di MC non è tardata. Nel voler approfondire il discorso, però, affiorano i seguenti problemi: 1) un sassofonista jazz omonimo, anch'egli statunitense, dal quale è facile discernere vista l'area di operatività distante anni luce, ma che crea comunque sovrapposizioni 2) la relativa oscurità in cui il chitarrista naviga, dal momento che si tratta sostanzialmente di un dilettante (per dire, neanche una su Pitchfork!) 3) finchè si prende Discogs come riferimento, le uscite non sono tantissime ma se si finisce sulla sua pagina Bandcamp, la lista dei titoli è infinita.
Vale così lo stesso discorso che faccio per Aidan Baker. Un titolo a caso che mi piace e vada come vada. Sorpresa, Coma Gears è un'altro bellissimo disco, e diverso da Honeymoons. Ormai l'ho inquadrato, MC: è uno di quei soggetti che ha il suo fortissimo stile personale, che cicla e magari ricicla all'infinito le stesse idee, ma ha il tocco magico di conferire un impronta che lascia il segno. Il suo songwriting spiritato, a passo di lumaca, scazzato e deciso al tempo stesso, è qualcosa che si ama o che si odia. Coma Gears è un disco che infonde una sorta di trance a tratti desertica, e quindi dai connotati americani decisi, ma che già tradisce la fascinazione per l'ambient-rock britannico delle leggende più citate in Honeymoons in vesti più ruvide (in un paio di pezzi, Worry e Blame The World sembrerebbe quasi dei demo inediti dei Loop di Heaven's End).
Niente ritmi, un deciso uso di tastiere atmosferiche a fare da tappeto e sostenere la sua Telecaster, sopraffina ed indiscussa protagonista nel dispensare le note giuste, in sequenze e numeri. E la conferma di avere in questo impiegato nei servizi sociali (nonchè avido bevitore di caffè) uno dei migliori non-inventori degli ultimi anni.

venerdì 19 giugno 2020

The Sun And The Moon ‎– Le Soleil, La Lune (1988)

L'one-shot di Mark Burgess ed il batterista John Lever dopo lo split dei Chameleons, all'insegna di un suono più ruvido, con quasi zero synths e meno prodotto di Strange Times. I due chitarristi della situazione, più interessati a costruire walls of sound e dare più di una coloritura fine sixties, erano meno dotati dei grandi Fielding e Smithies, ma l'imprinting era ancora profondamente camaleontiano, diciamo meno sovrannaturale ma col marchio a fuoco di Burgess ben definito. La buona produzione, per essere il 1988, era in qualche modo anticipatrice di un certo suono indie-brit degli anni '90 a venire. Death of Imagination e A matter of conscience le perle da annoverare nel miglior canzoniere del mitico nasone, pregne di quel fatalismo umanissimo e solennità terrena che l'hanno reso un mito assoluto.

mercoledì 17 giugno 2020

Caudal – Ascension (2014)

Uno dei progetti collaterali più interessanti di Aidan Baker, proprio perchè divaga su aree da lui non direttamente esplorate in precedenza ma non impedisce di far emergere i tratti più talentuosi della sua sensibilità. Si tratta di un classico power-trio strumentale col bassista Sweeney ed il batterista Salazar, che pur essendo relativamente sconosciuti (e non certo giovanissimi, a giudicare dalla foto) fanno un lavoro eccellente soprattutto nei 20 minuti di Uprise, una sfuriata kraut-wave per batteria motorik, basso alla Hook e chitarra psycho-shoegaze. La personalità di Baker però esce alla grande nei 17 minuti di Slow Bow, una bomba atmosferica di indolenza e stratificazioni chitarristiche, che sviluppa magicamente stati di trance nel modo in cui (purtroppo in poche occasioni, in proporzione alla discografia un tantinello esagerata) Baker sa fare. Chiude 451S2, che riprende il martello ritmico su un tappeto timbrico ambientale, una sigla di chiusura un po' straniante ma efficace.
Disco eccellente, non certo per innovazione ma per esecuzione ed efficacia.

lunedì 15 giugno 2020

Deep Freeze Mice ‎– Saw A Ranch House Burning Last Night (1983)

Quarto album dei DFM, avvenuto in una fase delicata della storia decennale della band; la transizione attraverso l'unico cambio di line-up, col batterista fondatore Summers presente soltanto in una parte del disco e poi dipartito. A causa di questo, Jenkins & compagnia si arrangiarono usando una drum-machine gestita da tal Dawn Leeder, nelle liner notes addetta a unreal drums, percussions, spaghetti bolognese. L'ironia super-british dei Mice va sempre ricercata ma era una certezza così come il loro art-vaudeville-wave-pop, puro ed intransigente. Il battito elettronico non andava ad intaccare più di tanto il loro stile: You took the blue one, Sagittarians, Under The Cafe Table, Hitler's knees gli highlights, con un Jenkins sempre più ispirato a guidare le vignette surreali marchio di fabbrica. Ogni disco dei Mice che scopro, penso che siano stati incredibilmente sottovalutati ed ignorati, a causa anche dell'epoca in cui esistirono.
La ristampa (ovviamente autoprodotta) in cd del 2015 ha accoppiato alla track-listing ben 12 bonus-tracks di imprecisate differents sessions e di un live a Leicester del 1982, contenente quindi estratti dei primi 3 album, col ripescaggio fra l'altro delle leggendarie I met a man who spoke like an UCCA form e Peter Smith is a banana, rese con una grinta davvero notevole.

sabato 13 giugno 2020

Om – BBC Radio 1 (2019)

Ho apprezzato gli arabeschi ed i misticismi di Advaitic Songs, ma li ho ritenuti un piccolo passo indietro rispetto all'ispirazione divina di God Is Good. Passati 8 anni, speravo in un nuovo album, invece lo scorso Ottobre è uscito un live alla BBC di mezz'ora, che propone per 3/4 materiale di AS, riservando a GIG soltanto la divina Cremation Ghat.
Non molto da dire, quindi, se non una più che valida occasione per tornare all'ascolto, per far scaldare il nuovo polistrumentista Tyler Trotter (uno del giro Zak Ryles, nonchè militante nei Watter), nonchè per saggiare le acrobazie di un sempre più scatenato Emil Amos. E confidare in un ritorno in studio, chè di questi tempi abbiamo sempre più bisogno di un conforto interiore.

giovedì 11 giugno 2020

Hair & Skin Trading Company ‎– Over Valence (1994)

Lo spirito più genuinamente ipnotico degli ultimi Loop fu mantenuto in vita dagli H&STC con un trittico di albums fra il 1992 ed il 1995. Il primo fu un po' troppo raffazzonato, il terzo fu una deriva un po' troppo rumoristica; Over Valence, il mediano, il migliore. Si tratta di un lungo dispiego di psichedelia acida in 2/3 capitolati d'impostazione: l'evocazione ai limiti dello shoegaze (Go Round, On Again Off Again), la sfuriata con chitarre pesanti e ritmi frenetici, l'ambientazione desertica degna dei Loop (Take Control, Sub Surface), mixate in maniera saggia durante la track listing. Purtroppo non ebbero quasi nessun riscontro, nè di pubblico nè di critica; ma questo album va comunque ricordato come vero erede dei Loop post-mortem.

martedì 9 giugno 2020

Skaters ‎– Mountaineer Skyness Of Majestic Planes (2008)

Ovviamente la creatura non faceva parte degli Skaters, però bella l'idea (o l'occasione, dipende) di fare una foto di band con tale gradevole presenza. Se poi si pensa a ciò che facevano gli Skaters, lo fu ancora di più. Come ebbe a scrivere Valerio Mattioli in Noisers, sono stati di gran lunga i più weird, lerci e lo-fi performer della scena noise americana degli anni Zero. Ne ebbi prova ascoltando il suo disco consigliato e ne ho conferma con questo (una C46 in edizione limitata a ben 30 pezzi), citato invece da PS. Davvero poco da dire: 42 minuti di lamenti vocali incrociati, stratificati, allungati, passati sotto una poltiglia di fango sonoro dentro la quale ci vuole non poco per entrare. Nella side B le cose si evolvono grazie a qualche bongo che dà un idea di ritmo ed una maggiore movimentazione, e poi la sorpresa a 2 minuti dalla fine, con un loop di synth che in qualche modo anticipa ciò che James Ferraro porterà alle estreme conseguenze col suo (sopravvalutatissimo a mio avviso) lavoro personale. Una volta ascoltato, MSOMP mi ero promesso che non lo avrei ascoltato più. Ma poi ho capito di non averlo capito, ed allora l'ho rimesso su. E' il gusto dell'orrido, che a volte ci frega.

domenica 7 giugno 2020

Fall ‎– Live At The Witch Trials (1979)

Primo di 31 (ma Discogs ne conta 97 fra live, raccolte e miscellanee), in un anno che dire storico è riduttivo, ed i Fall erano già un entità a sè stante, con MES ancora non totalmente dittatoriale (la dipendenza dal chitarrista Bramah è tangibile e le tracce totalmente di suo pugno sono solo 2), seppur la formazione già bella cambiata rispetto ad un anno prima.
LATWT denota un influenza beefheartiana di fondo che non è possibile ignorare, depurata dal blues e filtrata attraverso la lezione del punk. Like To Blow e No Xmas For Jonh Keys sono il top, come già intuito nella micidiale quaterna coeva delle Peel Session, e Burns un eccellente batterista, il Drumbo regular della situazione. La tensione scema solo alla fine con la jam Music Scene, una jam tirata un po' troppo per le lunghe, ma l'eccellenza Fall a venire era già bella progettata.