mercoledì 31 maggio 2023

Goodbye & Hello


Questa volta è uno iato a tempo indefinito.

La famiglia in primis e poi il lavoro me lo chiedono, a gran voce, ed io non posso certo esimermi.

Potrei dire che è stato bello, bellissimo e divertente, ma non lo dico perchè non è un goodbye, ma spero sia solo un hello.

Probabilmente posterò qualcosa riguardo a dei concerti a cui assisterò, magari tornerò con qualcosa dei Bombetta's perchè abbiamo ripreso a suonare dopo anni, siamo entusiasti e stiamo elaborando.

Ma per quanto riguarda TM a cadenza regolare e la mia personale esplorazione, beh... finisce qui.

Un saluto e un grazie di cuore a chi ha dimostrato apprezzamento.

👍


lunedì 29 maggio 2023

Tom Recchion – Japanese Cassette (2022-1986)


Provvidenziale e meritorio recupero del grande Tom, risalente al 1986 quando gli venne chiesto di contribuire ad una tape compilation redatta dal performer giapponese Aritomo, comprendente fra gli altri gli Half Japanese, P16.D4, Merzbow e persino i nostri Baroni e Toniutti. Il promotore cassò metà del materiale che Recchion gli propose (non è chiaro in effetti cosa c'entrasse con l'industrial, ma a quei tempi poteva essere molto facile non essere pienamente documentati), ma per fortuna dopo 36 anni possiamo goderci una mezz'ora inedita della sua geniale avant-freak-exotica, concepita e realizzata nel suo miglior momento di forma. In rapida successione quindi scorrono le spastiche progressioni, le minacciose e tetre escursioni nell'ignoto, e soprattutto le irresistibili vignette di cut & paste-lounge, da sempre suo miglior biglietto da visita e anticipatrici di altri pregevoli musicisti che molti anni dopo imbastiranno il loro output con questo spirito surreale ed avventuroso.

giovedì 25 maggio 2023

Alexander Voulgaris a.k.a The Boy - Ώντρεϋ (2021)


L'autore della colonna sonora che mi ha fatto innamorare tratta dal film che mi è più piaciuto degli ultimi 3/4 anni ha una nutrita discografia maturata negli ultimi 15 anni fra soundtracks e dischi originali, ben documentata sul Tubo. Certamente l'alfabeto greco non consente di apprendere più informazioni di quelle che la curiosità alimenterebbe, così dopo una rapida e superficiale analisi ho scelto questo album di un paio d'anni fa, sperando di poter scorgere qualche altra gemma. Il disco mette in mostra un songwriting mellifluo ed evanescente a base essenziale di tastiere ed una voce femminile algida (non propriamente ineccepibile dal punto di vista tecnico) in greco (poco da fare, usando una parolaccia si potrebbe dire che è inchiavabile), con uno spiccato melodismo e qualche influsso tradizionalista. Una produzione un po' più affinata ed una scelta più saggia dei timbri avrebbe aiutato.

Detta così, un disco sul quale si sarebbe potuto sorvolare ampiamente, anche perchè certi pezzi sono proprio banalotti, ma scorrendo bene fino alla fine un paio di chicche si trovano e sono davvero memorabili, nello specifico la 7 e la 8 (non sto ad incollare i titoli), delicata e soffusa la prima, drammaturgica e melanconica la seconda. Due piccole perle che da sole valgono il disco e riaccendono quel fuoco che si era acceso con Apples.

domenica 21 maggio 2023

Screams From The List #115 - "Mama" Béa Tékielski – La Folle (1977)


Cantautrice francese ma di origini italo-polacche, la Tekielski diede vita ad un ibrido molto originale con questo La Folle, immergendo il suo songwriting di chiara estrazione dalla chanson storica transalpina in un substrato jazz-funk-rock molto bianco, spesso ai limiti della psichedelia. Date anche le indiscutibili doti vocali della protagonista, impostata su un vibrato-gorgheggiato potente e teatrale, mi si staglia in mente un ipotesi fantasiosa, ma giusto per dare un'idea: si provi a pensare Milva cantare sui Goblin, ed il pianeta non sarebbe poi così distante. Il disco inevitabilmente risente un po' degli anni che ha (è fuor di dubbio che queste produzioni oggi suonino molto più datate di altre più anziane), ma esercita ancora un discreto fascino per la propria originalità.

mercoledì 17 maggio 2023

Volebeats – Solitude (1999)


Uno dei tanti gruppi statunitensi di cui non avremmo neanche saputo l'esistenza se non fosse stata per la meritoria divulgazione di PS, che nella sua scheda definisce il quintetto detroitiano (tutt'ora attivo, 13 album in oltre 30 anni) come un alfiere dell'alt-country parecchio superiore ai Wilco, tanto per fare un nome altisonante. Solitude è un pregevolissimo disco a due facce mescolate nella scaletta: da un lato ballads trasognate ma tutto sommato di ordinario folk-country di derivazione fine sixties, dall'altro gli strumentali, vero piatto forte, di surf desertico (Desert Song, appunto, Blue Green, Speedboat, Moon Beams), che li fa sembrare dei Mermen allucinati e zavorrati ma molto più umili, con l'eccellenza di Denton Street, una variante quasi slow-core di grande atmosfera. Altalenanti, ma capaci di dispensare momenti di grande bellezza.

sabato 13 maggio 2023

Antlers – Burst Apart (2011)


Il contrastante quarto degli Antlers, a quel punto un trio vero e proprio, criticatissimo perchè sembrò un colpo di spugna alle ambizioni smisurate del predecessore Hospice, in favore di un suono mellifluo, smaccatamente melodico e composizioni accattivanti. La realtà è che Silberman col passare degli anni ci ha fatto capire un concetto chiaro: fa quello che vuole e soprattutto non fa molti calcoli, e per questo è un personaggio che ci piace. Il giudizio ai dischi è un altro discorso, e se mi fossi basato sulle recensioni Burst Apart non l'avrei neanche sfiorato. Ma una band che fa Familiars si merita l'ascolto integrale della discografia, anche a ritroso, perchè qualche chicca la si trova sempre anche in questa raccolta slegata, frammentaria, fuori fuoco ma marcata dal grande talento di Peter Sirenetto Silberman, sempre più a suo agio con i falsetti ed i gorgheggi, in contesti trip-hop, funky, folky, indie-pop da cameretta confidenziale, soul bianco e quant'altro. Belle No Widows, Every Night my teeth..., Corsicana, Hounds, French Exit.

martedì 9 maggio 2023

Maquiladora – What The Day Was Dreaming (2003)

 

I miei beniamini dell'alt-country americano, in definitiva, al quarto album. Un gruppo purtroppo criminalmente sottovaluato, persino in un periodo in cui il genere incontrava il favore della critica generalista, che però l'ha ignorato a piè pari (a parte Scaruffi, che invece non ha lesinato elogi). Di certo non ha aiutato il fatto di avere un nome particolare ma corrispondente ad un pezzo dei Radiohead, nè gli omonimi che sono sopraggiunti successivamente. What The Day Was Dreaming fu un'altra dimostrazione di grande talento espressivo e compositivo, fatto di suoni sonnolenti, ballads carezzate in punta di dita, echi di falò notturni ed un cuore enorme, gigantesco. Sudden Life, Drunk and lightning fires, Leave the music on, Waiting gli episodi più memorabili, ma non c'è nulla di sbagliato in tutta la scaletta. Facile identificare Neil Young come padre putativo, io ci sento anche l'eredità preziosissima dei Rex ed in prospettiva anche un influenza esercitata sulle cose più roots-oriented degli Antlers di un decennio dopo. Stiamo parlando di nobiltà, dopotutto.
 

venerdì 5 maggio 2023

Locrian – New Catastrophism (2022)


Sette anni per un gruppo prolifico come i Locrian sono stati un eternità, ma era chiaro che dopo un disco impressionistico come Infinite dissolution i chicagoani si sarebbero dovuti confrontare con una sfida importante; progredire sempre più verso una relativa accessibilità oppure fare marcia indietro in direzione delle cruente e melmose sonorità degli inizi? La risposta è rimasta a metà del guado.

New Catastrophism parte con Mortichnia, 10 minuti di oscurità cosmiche affini ai primi Tangerine Dream, e prosegue con un altra ipnosi sulfurea, The Glare is everywhere....L'obiettivo è chiaro; quasi zero dinamiche, tutto dedicato alla scultura drone-doom con micro-variazioni da cogliere per le orecchie più concentrate. Il focus si ottiene finalmente con Incomplete Map Of Void, riuscitissima declinazione del loro verbo più celestiale. Una mesta chitarra acustica introduce la finale Cenotaph to the final glacier, che a poco a poco si dissolve in un pulviscolo scandito da un loop ritmico ad alta velocità, di nuovo memore dei gloriosi corrieri tedeschi sopra citati. Ecco la chiusura del cerchio: New Catastrophism potrebbe essere la loro ripresa a base teutonica, oppure un episodio interlocutorio. Intanto però una conferma importante è che non hanno ancora fatto un disco deludente.

lunedì 1 maggio 2023

Joanna Newsom – Divers (2015)


Ma che fine ha fatto la divina Giovanna dopo questo disco, il suo quarto in oltre un decennio? L'unica notizia acclarata è che nel 2017 è diventata madre, e quindi vien da supporre che abbia, anche solo temporaneamente speriamo, riposto la sua arpona per esercitare il mestiere più nobile del mondo. Ipotesi che non fa altro che aumentare la stima ed il rispetto per questa grande ed originale cantautrice.

Divers ebbe il gravoso ed oneroso compito di succedere di 5 anni al monumentale Have One On Me, un capolavoro che difficilmente si potrà superare. Persino una formula inedita come quella californiana poteva essere a rischio di ripetersi, ma chissà perchè non è successo. Tornata ad un formato umano, ha felicemente deciso di variegare le proprie composizioni con sapienti, mai invadenti arrangiamenti. L'apertura cameristica di Anecdotes ci catapulta da subito in un mondo fiabesco, segue un trittico di pezzi a piena band, inclusa batteria. Ma la dimensione che preferisco è quella con l'essenziale, come la pianistica The things I say, la meravigliosa Divers, gli arcobaleni di You will not take my heart alive, le polifonie in crescendo della finale Time as a sympton, una chiusura in grande stile. Se avesse terminato la sua carriera qui, non ci sarebbe molto da rimpiangere, perchè i suoi dischi sono talmente belli che possiamo mandarli in loop senza mai stancarci.

giovedì 27 aprile 2023

Kitchens Of Distinction – The Death Of Cool (1992)


Trent'anni fa leggevo il nome dei londinesi KOD su Rumore, nei riquadri da 1/4 di pagina che erano riservati alle recensioni corte raggruppate per settori geografici o di generi settoriali. Mi incuriosivano, ma li dimenticai rapidamente. Quindic'anni fa li ascoltai per la prima volta, col secondo album Strange Free World, e lo trovai una mezza delusione per la sua monotonia di fondo. Ma nel frattempo le rivalutazioni si sono accavallate come si accavallano i corsi e ricorsi della vita, ed il loro terzo album The Death Of Cool incontra il mio favore, complice forse la passione maturata nel frattempo per i Chameleons, che mi ha aperto un mezzo mondo. La leggenda capitanata da Mark Burgess fu senza alcun dubbio un'influenza importante per i KOD, se non altro a livello compositivo/atmosferico, che proponevano però un indie-psych-shoegaze contrassegnato dall'ottima voce del bassista Fitzgerald, un ruvido-melodico di razza, e dalle stratificazioni del chitarrista Swales, un po' Sergeant degli Echo & The Bunnymen ed un po' Guthrie dei Cocteau Twins.

L'importanza del suono e della produzione prevaricano spesso le architetture, ma le buone composizioni non mancano: What Happens Now?, On Tooting Broadway Station e Gone world gone riecheggiano per l'appunto i Chameleons più lineari e baldanzosi, Mad As Snow e Blue Pedal i loro manifesti shoegaze, la finale Can't trust the wave una superba ballad che curiosamente rievoca i Church. Un disco avvolgente, da ascoltare senza pause, per un esperienza davvero atmosferica.

domenica 23 aprile 2023

Oiseaux-Tempête – Oiseaux-Tempête (2013)


Il titanico esordio del collettivo francese dai fortissimi connotati socio-geo-politici, un lunghissimo excursus (Ouroboros arriva fino a 18', altri due pezzi si aggirano ai 10', ma non è sfiancante) dai toni fatalistico-apocalittici, per certi versi affine ai Godspeed You Black Emperor di cui rappresentano una versione dimessa strumentalmente (Opening Theme, La Traverseè), senza escludere però di mostrare qualche muscolo ritmico (Kirie Eleyson. Ottimi gli spunti in dilatazione (L'Ile, Call John Carcone), fino a sfiorare una formula ispida di psych-rock senza speranza. Il limite più grande di questa musica (registrata benissimo) è semplicemente che è molto bella per chi ama il genere, ma ha una concorrenza spietata sotto la quale rischia di finire dimenticata.

mercoledì 19 aprile 2023

Japan – Tin Drum (1981)


Per me, adolescente folgorato dalla magica triade '80 di David Sylvian, i Japan hanno sempre rappresentato una dicotomia snob/seduzione, con la quale forse mi sono riappacificato poco tempo fa, completando una piena rivalutazione, soprattutto dei loro gioielli Gentlemen take polaroids e Quiet Life. Tin Drum fu l'ultimo prima dello split e rappresente forse la perfezione formale / produttiva della loro discografia, grazie anche all'operato di Steve Nye, all'epoca uno dei produttori inglesi più in voga ed in grado di esaltare il lato più world, per non dire esotico, dei Japan. Un matrimonio quasi perfetto, se non fosse che a tratti si rasenta quasi l'asetticità a scapito della spontaneità; vien da chiedersi, viste le tensioni in seno al gruppo, se fosse una conseguenza naturale.

Il basso di Karn, sempre più sinuoso e sgusciante, è il protagonista insieme alle tastiere di Barbieri. La voce di Sylvian un pochettino sotto nel mixaggio finale, le sue composizioni assortite fra esotismi e retaggio emozionale (ovviamente gli episodi migliori, l'immenso Ghosts destinato a sopravvivere negli anni, ma anche Still Life In Mobile Homes, Cantonese Boy, The Art Of Parties). Un disco altissimamente estetico, un probabile punto di non ritorno ed anche indice che Sylvian ebbe una grande intuizione; quella di tornarsene a casa e mettersi in proprio, felicemente.

sabato 15 aprile 2023

Peter Jefferies – Closed Circuit (2001)


Il disco dell'addio del grande outsider neozelandese, almeno fino al 2019 quando sono emerse un paio di raccolte di inediti e rarità assortite, molto eterogenee ma essenziali per ogni fan, e che hanno alimentato quantomeno la speranza di vederlo tornare in attività. Closed Circuit, quasi un titolo programmatico a suggellare una carriera stellare iniziata una ventina d'anni prima, a lungo vagante nel sottobosco locale e poi finalmente emersa nei '90 anche negli USA con la militanza su Emperor Jones, che gli diede la giusta visibilità. Un disco scomodo in quanto successore del suo apice sperimentale Substatic (un oggetto misterioso che disorientò anche i suoi sostenitori), un ritorno alla sua comfort zone fatta di alternanze fra velluto e carta vetrata, non all'altezza dei suoi principali capolavori ma capace di dare conferme del suo enorme talento. Certo la recriminazione resta alta: se il disco avesse beneficiato di una produzione migliore, pezzi come State of the nation (gotico atmosferico inedito), Dryest month in 100 years, Closed Circuit, Ghostwriter, Whatever you want ne avrebbero giovato. Con buona pace di SIB, il maggior sostenitore giornalistico italiano del talento di PJ, che però bolla il disco come il suo peggiore. No caro Direttore, non sono d'accordo. Quest'uomo non ha fatto un peggior disco.

martedì 11 aprile 2023

Harold Budd / Brian Eno – The Pearl (1984)


Seconda ed ultima ambient-opera per i due masters-pioneers, quattro anni dopo Ambient 2 : The Plateaux of mirror, stesso setting-up: Eno ad apparecchiare lo studio per ottenere un suono più espanso possibile e Budd seduto ad improvvisare le sue laconiche frasi di pianoforte. Questo capitolo, però, fu maggiormente soddisfacente per il californiano, che ebbe a dire che in confronto il precedente era uscito naif. 

Punti di vista. In The Pearl possiamo trovare fra le vignette più ispirate del primo Budd (The Silver Ball, Dark-eyed sister, Late October, Still Return), ma l'essenza coesiva di questo microcosmo ovattato resta integra anche dopo una moltitudine di ascolti. Perchè immancabilmente va in loop senza che neanche ce ne accorgiamo, facciamo altro, ci fermiamo e ci abbandoniamo a queste bellezze storiche, cristallizzate dal tempo, senza ritorno.

venerdì 7 aprile 2023

Remember Remember – The Quickening (2011)


Gradevole instrumental-post-rock variopinto e cinematico da parte dell'ensemble di Glasgow, qui al secondo album di un terzetto che vedrà nel successivo Forgetting the present il loro canto del cigno. Tre dischi forse corrisponde al numero perfetto per questo tipo di complessi? Per la sua natura esclusivamente strumentale, il collettivo guidato dal polistrumentista Ronald ha sviluppato tutte le proprie potenzialità espressive con perizia, c'è da ammetterlo. In The Quickening hanno espresso qualità di arrangiamento eccellenti, a fronte di composizioni rassomiglianti più a dei mantra circolari che altro. L'avvincente Unclean Powers svetta sul resto, con un crescendo quasi godspeediano, la baldanzosa John Candy strizza l'occhiolino ai God Is An Astronaut, il deliquio di Scottish Widows rimanda alle gesta cameristiche dei Balmorhea, l'evocativa One Happier una panoramica sulle brughiere britanniche, con orgoglio e delicatezza. Questa era la loro essenza: bravi in più o meno tutto, meritevoli di un ascolto, con n. 1 pezzo memorabile in ogni disco, ma sempre di una categoria inferiore.

lunedì 3 aprile 2023

Gong – Flying Teapot (Radio Gnome Invisible Part 1) (1973)


Due anni dopo il fulminante esordio di Camembert Electrique, Daevid Allen si ripresentò con una line-up rivoluzionata e forse più dotata tecnicamente, per dare forma alla Teiera Volante, primo tassello di una trilogia completata nei 2 anni a seguire. Sebbene sia di gran lunga il disco più famoso e celebrato dei Gong, io lo ritengo leggermente inferiore all'esordio, in parte per una maggiore professionalità che andò a scapito delle atmosfere, in parte per le scelte di arrangiamento (troppo sax, passaggi un po' narcisisti ai limiti del jazz-rock). Siamo comunque a livelli ancora molto alti, grazie ai due pilastri della scaletta: la title-track, una cavalcata space-funk che conquista sulla lunga distanza e soprattutto Zero The Hero And The Witch's Spell, che rilancia le geniali invenzioni del precedente con un allucinato e surreale psych-vaudeville pieno di sorprese ad ogni angolo.

giovedì 30 marzo 2023

Sparkle Division – To Feel Embraced (2020)


Splendida deviazione di Basinski dal suo percorso classicamente ambientale, per la quale Pitchfork ha coniato un brillante slogan: WB sembra uno scenziato con camice bianco che abbandona il laboratorio per salire su un cavallo selvatico. Questo per rimarcare il fatto che il buon Billy ha nientemeno che rispolverato il sassofono, lo strumento che gli dava da lavorare negli '80 quando girava l'America con acts artisticamente discutibili. Pare sia stato spinto all'azione da Preston Wendel, l'altra metà di Sparkle Division, nonchè collaboratore quasi fisso di WB negli ultimi, ottimi album. Cosa significa a volte un buon partner artistico che ti distoglie dal tuo trip personale , ti dà nuova linfa ispirativa e ti sollecita a provare strade diverse.

Il bello di To Feel Embraced non è soltanto che è quanto di più diverso accade normalmente nei dischi di WB. La classe e l'imprinting, al di là del (sicuramente decisivo) contributo di Wendel, esce in maniera micidiale anche su questa mistura di electro-lounge-jazz hauntologico e straniante fin dal primo pezzo in scaletta, You Go Girl!. In tutta onestà, che WB non suonasse il sax da tanto tempo si sente, ma la sua ruggine melliflua finisce per essere un punto di forza. C'è un po' di tutto in TFE: Atmosfere sornione da jazz club, vignette cinematiche strascicate, scie cosmiche nineties, digressioni celestiali che riportano tutto a casa, architetture incasinate in cui WB si diverte a fare l'improbabile free-jazzer. 

A metà fra il divertito ed il serio, Sparkle Division è un esperimento che mi auguro sentitamente non resti isolato. D'altra parte, la classe sembra aumentare con l'invecchiamento....

domenica 26 marzo 2023

Feelies – The Good Earth (1986)


Il secondo dei Feelies, ben 6 anni dopo il debutto Crazy Rhythms. Un altro titolo programmatico; prima i ritmi folli, poi la buona Terra, con un folk-rock sostenuto, alla Rem (dichiaratisi influenzati da loro, a ragione). Contesti differenti, inevitabilmente visto il lasso di tempo intercorso, rilassatezza e vibrazioni positive ma stessa testardaggine e restare sul pezzo con determinazione. I Feelies erano un gruppo molto particolare, conscio forse del proprio potenziale ma in fondo neanche tanto ambizioso; la differenza coi Rem forse era sostanzialmente questa, oltre che avere un cantante nel gruppo. Good Earth è un bello scorrere di scenari agresti, e a loro bastava questo, forse.

mercoledì 22 marzo 2023

Screams From The List #114 - Association P.C. – Sun Rotation (1972)


Quartetto misto olandese-tedesco dedito ad una free-fusion in stile scatenatevi bestie, improntato ad una selvaggia ostentazione di qualità tecniche, ma con il classico, irresistibile sound polveroso tipico di queste produzioni. Scaletta divisa fra sinuosi temi composti ed improvvisazioni belluine, in cui spicca soprattutto il batterista Courbois (le cui iniziali danno il nome al gruppo), un tornado alla Cobham. Poco altro da dire, se non che; non sono passati alla storia e forse un motivo ci sarà, ma un gradevole ascolto o due ci stanno alla grande.

sabato 18 marzo 2023

These New Puritans – Expanded - Live At The Barbican (2014)


Magistrale riproposizione dal vivo dell'ultra-austero Field Of Reeds, registrato con l'ausilio di un'intera orchestra, d'altra parte necessaria per dare una versione fedele dell'originale (d'altra parte, al 98% in copia carbone). E' sembrata quasi la trasposizione ai giorni nostri del trionfale disco dal vivo che negli anni '70 santificava e portava in gloria la carriera dei grandi gruppi rock, se non che la perfetta esecuzione, ai limiti dell'asetticità, lo fa sembrare un live in studio. Poco da dire sul materiale, con The light in your name e Island Song in vetta al resto, apici del loro art-reed-rock qui giunto alla fine di un ciclo. Nel bis un paio di estratti dal (non apprezzato da me) precedente + un ottimo inedito, Spitting Stars.  Isolati su un inevitabile piedistallo.

martedì 14 marzo 2023

Paradise Motel – Left Over Life To Kill (1997)

Gradevolissima scoperta per merito di Opium Hum, che ogni tanto tira fuori lavori del passato di estrema nicchia ma davvero interessanti. I Paradise Motel erano un popoloso collettivo australiano (anzi tasmaniano, per la precisione!) attivo nella fine degli anni '90, durante la quale tentarono anche un ambizioso salto di qualità trasferendosi a Londra, finendo invece per sciogliersi. Il loro secondo lavoro Left Over Life To Kill, una specie di antologia che comprendeva pezzi dell'esordio dell'anno precedente, ascoltato oggi appare come un prodotto squisitamente nineties, ma di alta qualità. Esemplare come sempre la definizione sintetica di Dear_Spirit: dark, dreamy rock over glacial noir-Americana. Facevano essenzialmente ballads elettrificate con uno spirito crooner latente (Tindersticks, qualcosa di Nick Cave), umili inserti dream-pop e la particolarità di una cantante dal timbro suadente ma tutt'altro che impeccabile tecnicamente (anzi, spesso stonata ed incerta), caratteristica che rendeva la loro musica di un'umanità quasi commovente, grazie anche ad una manciata di pezzi davvero belli (Bad Light, Dead Skin, Stones su tutti). Molto più che funzionali gli interventi degli archi, ottima la produzione. Se l'avessi ascoltato all'epoca, sarebbe diventato una pietra miliare personale.
 

venerdì 10 marzo 2023

Cigno – Morte E Pianto Rituale (2022)


Un esordio italico molto interessante dell'anno scorso, ad opera di un cantautore romano di nome Diego Cignitti che valica diversi steccati con Morte E Pianto Rituale, un album molto piacevole per quanto la sua non sia una musica esattamente accomodante. Il suo è una specie di cantautorato post-industriale, a tratti molto spigoloso, ad altri più disteso: potrei azzardare la definizione di esoterismo mediterraneo, a voler cercare una sintesi estrema, che ha diversi punti in comune con il più recente Iosonouncane (Protestanti). Altri paragoni possibili sono le processioni funeree dei Father Murphy (Mare Nero, La Terra Del Rimorso), antiche memorie post-punk (Postcapitalismo è un palese tributo ai CCCP, e spesso il vocalismo di Cignitti indugia in declamazioni alla Ferretti), ma io segnalerei anche alcune finezze strumentali che musicalmente alzano la media generale del disco: l'iniziale Colobraro, un valzer acido con una splendida intro pianistica che fa pensare ad un Satie sotto anfetamina, l'ipercinetica chitarra acustica di Pietra Sprecata e la finale Kabul, una contemplazione desertica di finissimo pregio. Non sarà destinato a cambiare la storia della musica italiana, ma Cignitti potrebbe avere un ottimo futuro.

lunedì 6 marzo 2023

Deutsch Amerikanische Freundschaft – Alles Ist Gut (1981)


Il terzo album dei D.A.F., definitivamente ridotti a duo, approdati su Virgin, trasferiti a Londra e con le spalle belle larghe. Erano passati soltanto due anni dal bruciante Produkt Der... ed uno dall'ibrido Die Kleinen und Die Bosen, e la metamorfosi era completata. Quella contenuta in Alles ist gut è vera e propria Electronic Body Music, monolitica e minimale, disidratata da qualsiasi effetto, proveniente da un bunker senza finestre, ma con una varietà di soluzioni ricchissima. Si svaria dalla danza spastica (Sato-Sato, Rote Lippen, Mein Herz macht Bum) all'anthem da pista da ballo alternative (Der Mussolini, Als war's das letzte Mahl), alla citazione del fondamentale retaggio Kraftwerk (Der Rauber und der Prinz), alla meccanica industriale (Ich und die Wirklichkeit), al gotico robotico (Verlier nicht den Kopf), all'electro-punk (Alle gegen alle). Un menu senza tregua, senza orpelli e con una visione lucida e spietata.

giovedì 2 marzo 2023

Lino Capra Vaccina – Sincretico modale (2022)


La terza età dorata di Vaccina, che ormai settantenne continua regolarmente ad uscire con nuove pubblicazioni, la maggior parte delle quali in collaborazione con altri più o meno illustri. Sono i suoi episodi in solitudine però ad attirare la mia attenzione: Sincretico Modale esce a 5 anni di distanza dallo splendido Metafisiche del suono, e ne persegue il concetto di ambientale riflessiva, in buona parte incentrata sull'immortale sgocciolìo del Grand Piano. Il pezzo d'apertura Armonie della mente si dipana sospeso come un bozzolo di farfalla, dalle coloriture vagamente Buddiane. La sottilissima tensione di Riflessi lontani vede l'unico ospite esterno, l'oboe di Camillo Mozzoni in distensione armonica. Una maggiore stratificazione di suoni concentrici (cimbali e vibrafono) caratterizza Percezione dell'essere, mentre il protagonista della nebulosa Persistenza della memoria è un dolente harmonium. Il piano torna principe ed estatico negli undici minuti della conclusiva title-track, di nuovo reminescente Budd.

Un album di pura contemplazione ed abbandono come ci si può aspettare da questo grande vecchio, anche se nel complesso leggermente inferiore al precedente.

domenica 26 febbraio 2023

Captain Beefheart – Clear Spot (1972)


Anche se occasionale, è sempre un sottile piacere (quasi veniale, come se fosse un peccato) ripescare un Capitano della fase di mezzo, quella diciamo normalizzata, che va dalla doppietta del 1972 al 1974, alla doppietta inglese da tutti ferocemente stroncata. E' anche un mezzo perspicace per rendersi conto di un postulato abbastanza ovvio: essendo stato uno dei più grandi di sempre, anche nei suoi episodi meno acclamati non può essere mai stato deludente, ed infatti non lo fu. Per Clear Spot basta anche una riflessione incontrovertibile: nei micidiali concerti della sua ultima fase, fra il 1980 ed il 1981, in scaletta erano presenti estratti come la licantropica Nowadays A Woman's Gotta Hit A Man, le melliflua Her Eyes Are A Blue Million Miles e la vulcanica Big Eyed Beans From Venus, spesso posta come gran finale.

DVV doveva avere una buona considerazione generale di Clear Spot. E dagli torto. Non manca quasi nulla del suo stile, con le decostruzioni cubiste diluite e dilavate in un ispido e dinoccolato meta-blues, certamente più accessibile alle masse e fatto su misura per il suo canto impeccabilmente modulato (ma ci stancheremo mai di notare che razza di vocalist fosse?). Prendiamo la ultra-melodica My Head Is My Only House Unless It Rains o il soul puro di Too Much Time come estremi da una parte e la sanguigna Circumstances o la spezzettata title-track dall'altro capo. Con tutto ciò che ci sta nel mezzo, l'omogeneità di Clear Spot resta uno di quei misteri che nemmeno il tempo riesce a districare. Troppa classe, dai.

mercoledì 22 febbraio 2023

Lingua Ignota – Caligula (2019)


Fin dall'incipit, dalle polifonie gotiche di Faithful Servant Friend Of Christ, un affresco non distante da certe pagine Dead Can Dance, si è capito che il difficile terzo album di Kristin Hayter sarebbe stato naturalmente evolutivo rispetto ai due miliari precedenti. Un disco sfaccettato e composito, lunghissimo, che ha richiesto più attenzione e concentrazione per essere assimilato. L'effetto finale, per quanto l'impressione continui a restare altissima, è che l'immediatezza sia stata sacrificata in nome di una maggiore cura dei dettagli. Spicca infatti il coinvolgimento di diversi musicisti a sostegno (cello e violino, batteria e percussioni sparse, qualche sgocciolìo di elettronica) delle 11 composizioni, che raramente vedono la Megachurch Mom in perfetta solitudine come in passato.

La base di partenza resta la dolente sonata piano/voce, per mezzo della quale si dipanano le sfuriate harsh, le mazzate doom (Day of tears and mourning ricorda vagamente i Locrian), le orchestrazioni a pieni giri (Spite alone holds me aloft, I Am The Beast), in un labirinto difficilmente estricabile. Se si trattasse del disco di una esordiente i toni sarebbero forse più entusiastici; l'impressione generale è che si sia trattato di un episodio di transizione. Ma è la transizione di una fuoriclasse, ed è inevitabile renderle omaggio, ancora una volta.

sabato 18 febbraio 2023

Bel Canto – White-Out Conditions (1987)


Trio norvegese tutt'ora in attività, anche se l'ultimo disco risale a ben vent'anni fa, che in questo debutto concretizzava un particolare ibrido fra Dead Can Dance e Cocteau Twins, col surplus del loro dna scandinavo (provengono da una cittadina situata al Circolo Polare Artico) che infonde imponenza e magniloquenza. Sotto i riflettori la voce della Drecker, cantante dotata di un timbro fascinoso e calzante per le ottime composizioni, indugianti in un gotico etereo con influssi etnici disparati e poliritmiche ai limiti del synth-wave. Un complesso abbastanza ambizioso, variegato e ben riuscito, che oggi è invecchiato un po' maluccio soltanto per le sonorità troppo '80 e le relative tastiere, verso le quali ho un rigetto che probabilmente non mi passerà mai. Ma certi pezzi sono davvero molto belli.

martedì 14 febbraio 2023

Zelienople – Hold You Up (2020)


Vale più o meno lo stesso discorso, con le dovute differenze, che ho fatto tempo fa per Holy Sons; ci starebbe una pausa di un paio di settimane per fermarsi ed ascoltare in sequenza tutta la discografia, che consta di una ventina di titoli, con ogni probabilità mai meno che buoni. Per adesso conosco il debutto del 2002, forse leggermente acido ed acerbo in prospettiva, lo splendido mediano Give It Up del 2009, oggi è il turno del più recente del lotto, Hold You Up, che non può fare altro che confermare il mio apprezzamento per il loro polveroso e spiritato ambient-rock. Immancabilmente il motore della situazione è sempre Matt Christensen, ma non sarebbe una cosa di gruppo senza Weis e Harding, essenziali nel fornire un corredo che diventa l'essenza stessa dello Zelienople sound.

Una verve ritmica maggiore nell'iniziale Safer e nella finale America fanno da zavorre per il poker centrale di escursioni svanite e di durata potenzialmente infinita, da ascoltare e riascoltare e riascoltare senza stancarsi. Menzione speciale per la title-track e You Have It, ma è solo una questione di gusti. Abbandono totale; ce l'hai o non ce l'hai.

venerdì 10 febbraio 2023

Ant-Bee – Pure Electric Honey (1990)


Uno di quegli artisti americani che soltanto PS poteva introdurre all'Europa, Billy James, originalmente un batterista ma poi reinventatosi cantautore ultra-psichedelico negli anni '90. Il suo debutto Pure Electric Honey è un campionario totale di svanimento, grazie a delicate composizioni che si calavano direttamente dagli anni '60 in un atmosfera a dir poco ovattata, ed anche di stordimento, per quanto riguarda i debordanti spazi collagistici, quasi d'avanguardia. Un manifesto dello sballo, che mutua qualcosa dai primi Pink Floyd ma anche dal primo Frank Zappa (non a caso vi suonano alcuni reduci delle Mothers). Un'esperienza sensoriale che necessita di molta attenzione e non sempre fila liscia, ma davvero impressionante nel saper pennellare il concetto di espansione dell'anima.

lunedì 6 febbraio 2023

Mako Sica / Hamid Drake Featuring Tatsu Aoki & Thymme Jones – Ourania (2021)


Sempre più similari ad un unità jazz mobile che fa spots e featurings, i Mako Sica affinano le loro escursioni con orgoglio e senso di comunità. Perso il polistrumentista Newell, Drazek & Fuscaldo conservano Drake e per Ourania alzano l'età media con nientemeno che il venerando Thymme Jones (tastiere e tromba) ed il jazzista giapponese Tatsu Aoki (liuto shamisen e contrabbasso). Prende forma così un quintetto sorprendentemente coeso che genera 5 lunghe passeggiate riflettenti, incentrate su una trance misticheggiante sterminata in cui ciascun personaggio sembra fare a gara con gli altri ad apparire più quieto e meno invasivo possibile. Una sfida molto dura sulla carta, ma che sfodera il senso intero dell'operazione: jazz psichedelico lunare, intriso di umiltà e umanità.

giovedì 2 febbraio 2023

Damon Edge – The Wind Is Talking (1985)


Da un po' di tempo sono in una seria fase di rivalutazione dei Chrome post-split 1983, ovvero quelli di Damon Edge, un periodo che forse non ho mai veramente preso sul serio, un po' per l'enorme considerazione che ho di Helios Creed ed un po' per il sovraffollamento di dischi che DE fece uscire fra il 1985 ed il 1988, sdoppiati fra intestati ai Chrome e altri a suo nome (differenziati sostanzialmente dalla differenza di grafica, sempre a classica mano i primi e a caratteri stampati i secondi). Detto di un primo un po' altalenante, il secondo The Wind Is Talking fu già meglio. Ovviamente siamo nella solita area, un gothic-cyber-space-post-sci-fi-punk lascivo, minaccioso e melmoso, incrocio fra Hawkwind e Sisters Of Mercy declinato alla maniera personale di DE, acida ed ossessiva. I Don't Know Why, We're Down the road, Circle Of Time i migliori. Tutt'altro che il diavolo.

domenica 29 gennaio 2023

Julia Kent – Asperities (2015)


Nove struggenti e melodrammatici affreschi di vario impatto nel quarto album della pregiatissima cellista canadese, sulla scia del bel precedente ma con una propensione più cinematica e panoramica. Non solo il superbo arco a farla da padrone, ma anche lievi bordoni tastieristici di sottofondo ed in un caso persino un glaciale beat elettronico (la mediana Terrain, davvero straniante nel contesto). Un manifesto di austerità ma anche di un cuore grande così, sia declinato in sterminate contemplazioni che in cavalcate tempestose, con tutte le varianti che possono esserci nel mezzo. Nemmeno una caduta di tono, per un lotto da consumare senza interruzioni talmente coeso che si potrebbe definire un concept.

mercoledì 25 gennaio 2023

Muffins – Manna/Mirage (1978)

Eccellente jazz-rock strumentale di estrazione della più nobile matrice softmachiniana, ma con un tocco di personalità che fa sensazione tutt'oggi. Protagonista un'anomalia americana, questo quartetto di Washington che nel proprio essere isolato creò un caso unico. Come ha memorabilmente scritto PS, condussero un'esistenza misera e solitaria ed infatti non furono filati da nessuno fino a quando, negli anni '90, furono rivalutati un po' da tutto il mondo del settore. Ma c'è da dire che se fossero stati europei,  Manna/Mirage, il loro debutto, risalterebbe ancora oggi come un bellissimo disco di tecnica applicata alla fantasia ed all'immaginazione, componente che li fa inquadrare anche nel tag progressive (allo stesso modo dei Soft Machine o dei Colosseum, cioè molto grossolanamente). Poco vanesio e concentrato sulle elaborate strutture compositive, Manna/Mirage è imperniato su due pezzi molto lunghi, Amelia Earhart e The Adventures of Captain Boomerang, che sviluppano decine di tessiture in rapidissima successione con protagonisti gli ispiratissimi fiati e le tastiere, ma anche con una sezione ritmica spettacolare, forse alla fine della fiera l'elemento più interessante. Mai troppo tardi per scoprire questi atipici yankees.

sabato 21 gennaio 2023

Screams From The List #113 - David Cunningham – Grey Scale (1977)


Di Cunningham principalmente si sa della sua carriera di produttore e di band-leader nei Flying Lizards, una breve avventura nell'electro-art-pop-wave capace di almeno un disco notevole. Prima di tutto questo, però, il compositore irlandese esordì poco più che ventenne con questa prova d'avanguardia surreale e straniante, in cui suona in maggioranza da solo, chitarre, tastiere, violino, percussioni, con qualche contributo esterno. E' una prova che testimoniava già un notevole eclettismo: si passa da litanie semi-demenziali ad arie austere e minacciose, da precarie deambulazioni a minimalismi intenzionalmente falliti, da sketches cabarettistici a suoni acquatici (nel vero senso della parola). Necessita di qualche ascolto per essere capito, ma per l'età dell'autore era un passo piuttosto audace e maturo.

martedì 17 gennaio 2023

Fontaines D.C. – Skinty Fia (2022)


Stavo per tirare un bestemmione anglicano quando ho riflettuto un po' sull'essenza di Skinty Fia, il terzo disco dei battutissimi ed ormai celeberrimi irlandesi. Al primo ascolto non mi ha entusiasmato; innanzutitto parte male con una litania emo-indie dal titolo impronunciabile in lingua, e fatica a carburare almeno fino a metà. Qualche diversivo per fisarmonica, un semi-plagio dei Whipping Boy, un paio di cantilene un po' monotone alla Protomartyr, ed ero pronto alla stroncatura. Ma ad un certo punto arrivano le chicche, Roman Holiday, I Love you, Nabokov, la title-track, ed il livello si alza notevolmente.

Rispetto al precedente, più wave e meno punk, meno grinta e più perdizione. Ciò che resta e salva questo disco dal mio totale dimenticatoio resta l'impressione di personalità, di espressione orgogliosamente francobollata agli stereotipi storici, ma comunque vada sarà un successo (molto è merito del cantante, occorre dire, più per il timbro e l'espressività che per doti tecniche). Ma resta anche il presentimento che dal prossimo disco sarà quasi impossibile confermarsi, a meno di piccole rivoluzioni. Sarà difficile, presumo.

venerdì 13 gennaio 2023

Colin Newman – Not To (1982)


Terzo album in rapida successione per CN in meno di 2 anni, terzo centro. Una media paurosa, umanamente destinata a non perdurare, ma certo da incorniciare. Prima il fulminante A-Z a prendersi la reale eredità Wire, poi la pausa dada-sperimentale con Singing Fish (sul serio, sottovalutatissimo), e poi Not To a tornare rapidamente alla forma canzone, alle melodie spesso orecchiabili ma senza mai lesinare sulle trovate surreali, sui micro-inserti dissonanti, sulle puntine rumoriste. Disco segnato a livello produttivo dall'assenza del (fino a prima) fido produttore Mike Thorne, per una registrazione leggermente compressa ma che esaltava forse un po' di più le armonie chitarristiche (a tratti sublimi, come in Lorries, nella title-track, Remove for improvement, in Truculent Yet). E' un Newman al suo vertice artistico-espressivo, quasi da pilota automatico creativo, che però non disdegnava l'inserimento in scaletta di un tris di pezzi di fatto outtakes di Wire, in quanto co-firmati da Lewis, Gilbert e Gotobed. Si avverte comunque l'aria di fine ciclo, a posteriori facile da asserire.

lunedì 9 gennaio 2023

Harlassen – The Neckar Blues (2015)


Harlassen atto secondo, postumo. Registrato originalmente nel 2008 come seguito dell'eccellente A Way Now (sul serio, uno dei 3-4 migliori di tutta la saga Skelton), venne messo in un cassetto per essere poi rispolverato nel 2015 e rielaborato per la collana Archivial Series, una serie di recuperi vari effettuati durante una fase di stanca produttiva di Riccardo Cuor di Leone. 

Certo, chiamare queste 3 sezioni blues suona piuttosto paradossale, considerando che si tratta di preziose ipnosi droniche nella migliore scia del primo Skelton, in quel periodo in uno stato torrenziale di creazione di questo tipo di paesaggi. Fra striature di violino, bordoni galattici, tonfi percussivi, i Neckar Blues sono una seduta di musico-terapia da mettere in loop, nè emotivi come A Broken Consort e Landings, nè romantici come Carousell; semplicemente Harlassen, una meteora luminosissima della galassia Skelton, forse più lucente proprio per la sua fugace apparizione. Un recupero più che doveroso.


giovedì 5 gennaio 2023

Primus – Tales From The Punchbowl (1995)


Chiamati a confermare un successo sempre più ampio col loro quinto album, i Primus riuscirono a tenere la barra dritta e chiusero il loro glorioso ciclo iniziale. Tales fu l'ultimo disco col trio originale, a seguito del quale il batterista Alexander se ne andrà, e per forza di cose da lì in poi non saranno mai più le stesse. Il tour a seguito li portò in tour anche da noi e nell'autunno di quell'anno assistetti ad uno dei primissimi concerti della mia vita, di sicuro il primo grande concerto serio. Non ne ho un ricordo molto nitido, complice la lontananza dal palco. Però so che il mio apprezzamento nei confronti dei Primus col passare degli anni è cresciuto, e Tales non fa eccezione. Un lavoro composito, ricco di sfumature, complesso e giocoso, scuro e virtuoso, con le acrobazie e le pirotecnie sempre una goduria per stimolare chi ama la tecnica applicata agli strumenti. Ed il gusto per l'avanguardia, per il nonsense, per il paradosso, per il Capitano, per i Residents, per il teatro dell'assurdo, per la possenza di un suono tremebondo che non perde mai il proprio impatto. Eterni.

domenica 1 gennaio 2023

Smile – A Light For Attracting Attention (2022)


Signorine e signorini, a 6 anni di distanza da A moon shaped pool, ecco il nuovo dei Radiohead. Ed è il migliore da circa una ventina d'anni a questa parte.

Perchè così suona, e sfido a sindacare. Ci sono Yorke e J.Greenwood, che da sempre ne sono stati i protagonisti principali e lampanti legati da un vincolo granitico. A light for attracing attention ha le sembianze di uno schiaffo in piena faccia agli altri 3, con tutto il rispetto e la stima possibile. Prove tecniche di separazione? I tempi sarebbero stati ampiamente maturi per un ritorno della premiatissima azienda, ed invece è andata così. I due mastermind hanno preso freschezza a piene mani, il metronomico batterista Tom Skinner (bravissimo, suona come una macchina umana, nella migliore tradizione jakiliebezeitiana) e 13 pezzi che rappresentano un'autentica immersione nel classicismo radioheadiano senza dare la minima impressione di essere nè scarti nè operazioni di auto-riciclaggio.

L'operazione intera ha sapore di spontaneità, di libertà di espressione e di entusiasmo epidermico, quasi il contrario di ciò che è stato da In rainbows in poi. Innanzitutto il disco è suonato ed organico, c'è ben poca elettronica, molti archi e c'è ciò che fino ad Hail to the thief veniva loro meglio. Ci sono le languide ed ombrose ballad stracolme di spleen (Pana-Vision, Speech Bubbles, Open the floodgates, Waving a white flag, Skrting the surface), c'è il math-pop spigoloso ed arzigogolato (The opposite, The smoke, Thin Thing, A Hairdryer), ci sono le sfuriate alla 2+2=5 (You will never work on television again, We don't know what tomorrow brings), c'è persino uno squisito spaccato alla Neil Young (Free the knowledge). C'è la produzione chirurgica di Godrich, uno strumento invisibile che se non ci fosse crollerebbe tutto in polvere. Yorke vocalizza alla sua maniera migliore, Greenwood architetta con consumata esperienza e candido mestiere. Se le premesse sono queste, lunga vita a Smile; Radiohead ha dato, il re è nudo.

giovedì 29 dicembre 2022

Blue Cheer – Outsideinside (1968)

Oltrepassato il mezzo secolo di età, il 1968 dei Blue Cheer mantiene tutta la sua possenza granitica e la sua lungimiranza come un totem della musica dura di tutto il proprio futuro. In gennaio, l'ultra-ottundente Vincebus Eruptum aveva sconvolto tutti con la propria violenza. Sei mesi, Outsideinside rilanciava il fuoco ma con un'ottica appena appena più strutturata: l'opening Feathers from your tree, impreziosita da un bel pianoforte, un'armonia ariosa e degli scarti ritmici, gettava addirittura un ponte acerbo verso il progressive, ma fu soltanto un'anomalia. Il pirotecnico hard-stoner trovava nuovi inni in Just a little bit, Come and get it, Magnolia caboose babyfinger, nella cover a tutta velocità di Satisfaction. Spettacolare la performance del batterista Whaley, un tornado decisivo nell'economia di un sound fra i più compatti del proprio decennio. Subito dopo l'uscita del disco, l'abbandono del chitarrista Stephens ed il probabile ostracismo di chi non amava i loro volumi portarono il gruppo ad una svolta netta ed un declino immediato, ma la storia l'avevano già marchiata.

lunedì 26 dicembre 2022

Fucked Up – Year Of The Horse (2021)


Una decina d'anni fa ascoltai il pluri-premiato David Comes To Life e non mi piacque. Forse sarebbe servito qualche ascolto in più, ma non gli diedi la possibilità. Trovai un po' irritante il ruggito monocorde del corpulento cantante, che era l'anello di congiunzione con le origini hardcore di un gruppo che comunque si era evoluto parecchio e faceva sforzi titanici per suonare originale ed andare un po' oltre i propri limiti.

Una decina d'anni dopo, Year of the horse fa decisamente un altro effetto. Le sfuriate hardcore ci sono ed il ruggito monocorde le accompagna con la dovuta devozione, ma ormai sono solo un 30% del mastodontico output (4 pezzi per quasi un'ora e mezza). I canadesi sono cresciuti insieme alle loro ambizioni, dimostrando che la tenacia può essere costruttiva anche in mancanza di altri fattori di talento.

Quanti gruppi suonano su questo disco? Che carrellata di generi, stili e scenari scorrono? Durante l'ascolto ho perso il conto, e i Fucked Up sono degli incoscienti. Quanti rischi può accollarsi un gruppo come in questo caso, in cui si può passare da una stentorea litania piano/voce femminile ad un'aria western-plagio-morriconiana, da una minisinfonia per quartetto d'archi ad una marcetta vaudeville, da un sinuoso alt-funk ad un'escursione etno-folk, da un requiem per trombe e voci femminili ad un eccetera eccetera eccetera.

Non ho concesso neppure a Year of the horse il numero di ascolti che si meritava, ma è andata decisamente meglio di David. Il coraggio e l'ambizione vanno sempre stimati, ed anche se non ascolterò mai più i Fucked Up, ricorderò questo tomo come un episodio talmente folle da sembrare costruito con un algoritmo. 🤔​