lunedì 30 dicembre 2019

Piano Magic ‎– Closure (2016)

Dopo vent'anni di onorata militanza indie, i Piano Magic hanno deciso di chiudere il libro e lo scrigno dei loro segreti. Fra alti e bassi, incertezze, capolavori e conferme di maturità, l'unità sempre guidata da Glen Johnson si è fatta largo in una nicchia di pubblico costante e fedele, facendo della propria britishness il punto di forza, ma ottenendo più consensi in continente che in patria. Forse non passeranno alla storia della musica, ma hanno saputo elaborare una voce personale, fuori dalle correnti, dal coro, dalle masse.
Closure non ha riservato sorprese al pubblico, dimostrando che il gruppo ormai viaggiava col pilota automatico compositore, con la formula ultra-collaudata a base di wave, maudit e gotico decadente, ma ha comunque regalato la solita manciata di perle sopraffine (Let me introduce you, Landline, I Left you twice, not once), un sorprendente ballabile di potenziale successo (Exile), mentre il resto veleggia in un ordinarietà che tale non è mai stata, neanche nei punti meno alti di una parabola che termina, indimenticata e scolpita sulla roccia della perfida Albione.

sabato 28 dicembre 2019

Screams From The List #90 - Xhol ‎– Motherfuckers GmbH & Co KG (1972)

Valeva bene la scusa del dimezzamento della ragione sociale per aggiungere un'altro nome alla List, quel volpone di Stapleton. I prodi teutonici di Electrip, indecisi fra scorie residue alla Colosseum e tentazioni avant, chiusero qui la loro carriera, con un album controverso capace di impennate superbe (Love Potion 25, 13 minuti dalle fasi strumentali reminescenti i migliori Soft Machine), dilazioni psichedeliche (Side 1 First Day), cincischiate etniche (Grille, per grilli notturni, flautino e bonghi), collage sconclusionati (Radio) e radiazioni organiche (Orgelsolo).
Love Potion 25 da sola tiene su il disco e lo chiude in bellezza, ponendo la parola fine ad una band che forse terminò la propria strada per differenze di vedute fra i membri. Avevano un grande potenziale ma restarono una sostanziale incompiuta.

giovedì 26 dicembre 2019

David Sylvian - Live 1995 Slow Fire - Hitomi Kinen Hall, Tokyo 1995.10.19

Bootleg d'annata per un DS appena smarcatosi dalla controversa joint venture con Fripp. Erano tempi carenti di ispirazione, perchè passeranno altri anni prima di un nuovo album, e nel volersi riappropriare di una nuova identità decise di fare questo tour in perfetta solitudine, del quale ebbi splendida testimonianza nella tappa del 24/10 al teatro Medica a Bologna.
Di qualche giorno prima fu quest'esibizione a Tokyo, recuperata in una qualità sonora povera ma tutto sommato ascoltabile, che mi riporta con palpabile emozione a quel tempo. Il miglior Sylvian, quello di Secrets of the Beehive, Brilliant Trees e Gone To Earth, reso nella nudità estrema della sublime voce e della chitarra acustica (o il piano in una minoranza di pezzi), ma anche quello delle varianti: Ghosts in una versione esuberante, le due superbe cover di Tim Hardin (ai tempi mi chiesi mai se le avrebbe pubblicate, senza sapere di chi fossero....), Every color you are, ed un terzetto di estratti con Fripp. E giù il cappello.

martedì 24 dicembre 2019

Caretaker ‎– Everywhere, An Empty Bliss (2019)

Con la (estenuante, direi) collana in 6 volumi di Everywhere at the end of the time, LK ha dichiaratamente posto la parola FINE alla ventennale saga del Custode. Mossa azzeccata, dato che credo non ci fosse davvero più alcuna possibilità di sorprendere, ed affermare questo mi costa tanto, visto l'affetto intrinseco che provo per l'Artista in sè.
Il percorso autoterminante, un viaggio contrastante ed eccessivo (come il personaggio in sè, che si sa non ha mai posto limiti quantitativi), non ha fatto altro che amplificare l'eco di questa morte annunciata. Everywhere, an empty bliss esce a titolo di epigrafe, a corredo ufficiale di un'installazione avvenuta in Francia la scorsa primavera col suo partner grafico Ivan Seal. Stando alle note, si tratta di un antologia di outtakes e si fa gradire per la brevità delle 17 tracce, tutte sotto i 4 minuti.
I rimandi all'intera carriera ci sono tutti, ai compassati balletti anni '20/30, alle granulose contemplazioni ambientali, ai gorghi dark, ai loop dementi. Il titolo d'altra parte è una combinazione che rievoca il suo massimo capolavoro, quella rivelazione che ce lo fece conoscere, quasi casualmente. Il glorioso filone fantasmatico è terminato, ora l'augurio è che James torni a produrre qualcosa che provenga dal suo grande cuore, un po' inaridito negli ultimi anni.

domenica 22 dicembre 2019

Locanda Delle Fate ‎– The Missing Fireflies (2012)

Operazione nostalgia della Locanda che, riunitasi quasi al completo nel 2010, ha fatto perdurare il proprio revival fino al 40ennale di Forse Le Lucciole..., per poi chiudere definitivamente la propria saga. Anche se rimasta appannaggio di un pubblico settoriale (per quanto internazionale), resta una storia piuttosto romantica, la loro, e questa reunion non ha fatto altro che aumentarne lo status, a differenza di altre che invece rimpiccioliscono il mito.
Non ha fruttato materiale nuovo, ma in compenso ha riportato il gruppo in studio per recuperare e dare nuovi natali a 3 inediti dell'epoca; l'articolata Crescendo, ricca di acrobazie ma forse un po' vanitosetta per i loro standard, la sonata impetuosa per piano Sequenza Circolare, un po' troppo seriosa. La cosa più bella di TMF è che finalmente ha avuto una sua santificazione discografica l'eccezionale La Giostra, che conoscevamo in una versione lo-fi in Live 77, e che trova la giustizia in una fedeltà degna della sua magnificenza. 
La cosa curiosa è che la registrazione (che include infine una ripresa, tutto sommato pleonastica, di Non chiudere a chiave le stelle) sembra davvero provenire dal 1977, tanto la produzione ha voluto rifarsi a quei canoni. E poi c'è da dire che il ruggente Leonardo Sasso non sembra davvero avere 35 anni in più di allora, tanto la sua voce è intatta e granitica.
Completa il cd un terzetto di estratti da un concerto d'epoca, di fedeltà piuttosto carente (nel senso che il microfono sembra posizionato nella hall, anzichè nella sala stesssa). Il peccato originale della LDF, sentita la performance ed assimilata la lontananza, è proprio questo: non essere riusciti a salvare una registrazione live all'altezza. Ma per un gruppo che in vita andò poco oltre il Piemonte, di più sinceramente non si poteva pretendere. Onore e gloria a questi signori, campioni di eleganza prog come nessun'altro nello stivale.

venerdì 20 dicembre 2019

R.E.M. ‎– Chronic Town (1982)

Il primo extended dei Rem, caratterizzato di quella splendida effervescenza giovanile ed inquietudine che sublimerà di lì a poco nel fondamentale Murmur
5 tracce, di cui soltanto l'epica Gardening At Night sarà destinata a memoria collettiva. La migliore è Wolves Lower, che contiene già i tratti compositivi della maturità, in notevole anticipo; strofa in minore che strabocca di tensione, ritornello in maggiore con apertura panoramica. Inferiori le altre 3, ma soltanto per una questione di evidenza; i Rem del 1982 avevano ancora grossi margini di crescita e dipendevano troppo da chi li gestiva e li registrava, era solo questione di tempo.

mercoledì 18 dicembre 2019

3/4HadBeenEliminated ‎– Theology (2007)

Specchi opposti. Così la storica etichetta esoteric & dintorni Soleilmoon presentava il cd Theology accoppiato col vinile The Religious experience, prodotti gemellati fra loro, da intendersi botta il primo e risposta il secondo, matrice l'uno e reinterpretazione l'altro.
Al terzo album, i 34HBE erano già patrimonio italiano nel mondo. La chiamata oltre oceano arrivò al terzo capitolo, dopo la prima autoprodotta e la seconda di marca svedese. Un percorso inesorabile verso altre dimensioni acustiche, verso corde dell'anima sconosciute, verso l'infinito oblio delle loro escursioni metafisiche.
Il misticismo artefatto dei 28 minuti di I Am Daughter può aver avuto a che fare con la religione e la teologia, certo. E i 19' di The Cradle magari ne rappresentano la medaglia oscura, forse la disillusione ed il risveglio dalle utopie. Ambarchi era già innamorato di loro e li diffondeva il più possibile in Australia.
Quel che usciva vincitore, al termine di quest'esperienza extra-sensoriale, era il complesso; smarcatisi dai (pochi, in realtà) residui post-rock del precedente, i nostri eroi creavano il loro microcosmo, inespugnabile ed inestricabile: alieni ma terreni, neutri ma non glaciali, sintetici ed organici. Impermeabili, permeati della loro stessa essenza di natura così umana, fragile ed inattaccabile. Onore e gloria a loro, sempre.

lunedì 16 dicembre 2019

Tim Buckley ‎– Blue Afternoon (1969)

Capitato fra la rivelazione totale di Happy Sad, le coeve prodezze live europee e gli sconquassi di Lorca, Blue Afternoon non ha guadagnato la fama che meritava. Colpa sicuramente anche della sua irreperibilità ai tempi del revival maggiore di TB, negli anni '90; prima dell'avvento del P2P era impossibile trovarlo, mentre gli altri erano ben scolpiti nel cervello e consumati all'ossessione.
Un peccato, perchè in dotazione non ha niente in meno; era sempre un frutto della sua fase più mirabolante, quel biennio 68/70 che l'ha consegnato alla storia. Con la stessa formazione di Happy Sad, è più meditato e raccolto e contiene 8 pezzi, di cui almeno 4 destinati a diventare classici dal vivo; Happy Time, Blue Melody, I Must Have Been Blind e Chase The Blues Away. Ma i restanti non sono inferiori per nulla; la meraviglia rarefatta di Cafe, un dolente slow-core acustico ante-litteram, la marziale imponenza di The River, il gigioneggiare sornione di So Lonely, gli 8 minuti finali di The Train, che riprendono lo stile scatenato di Gypsy Woman ed includono l'assolo chitarristico più lungo e scatenato di Lee Underwood.
Tutti dettagli da poco, quando si chiama in causa la storia della Musica. E questa fu.

sabato 14 dicembre 2019

Idles ‎– Joy As An Act Of Resistance (2018)

Per adesso, l'effetto Sleaford Mods funziona. Un'anno dopo il debutto, l'irresistibile Brutalism, il quintetto di Bristol rilancia con un disco sostanzialmente identico, ma altrettanto fatto bene, con 12 pezzi punk-wave di durata media 3/4 minuti, col cantante Talbot sugli scudi, la coppia di chitarre in stile classico e pochissime diversificazioni dal tema.
Rispetto al precedente, semmai, l'approccio sembra più amaro e disilluso, con una scaletta che spara le sue cartucce più epidermiche all'inizio e man mano che scorre si fa meno divertente, ma non per questo meno efficace.
Al prossimo episodio, staremo a vedere se riescono a centrare ancora l'obiettivo.

giovedì 12 dicembre 2019

Rollerskate Skinny ‎– Shoulder Voices (1993)

Una di quelle copertine che non si dimenticano facilmente: faccione sorridente e sdentato di uomo intorno ai 60 ed una corona sospesa a mezz'aria pochi centimetri sopra la sua testa glabra. La conosco molto bene: era nel box recensioni evidenziate in uno dei primi Rockerilla che comprai, anno domini 1993, e soprattutto il cd restò parcheggiato nel negozio del Pig, ovviamente invenduto fino alla chiusura, nel settore a sinistra della porta d'ingresso.
Il contenuto invece l'ho ascoltato solo dopo 26 anni, e sorpresa sorpresa, è buono. Con quella cover non l'avrei mai preso sul serio, e infatti non me ne interessai minimamente. Eppure, questo quartetto irlandese che annoverava il fratello di Kevin Shields dei MBV, era il perfetto contraltare europeo dei Mercury Rev (quelli iniziali di Baker), con un indie-psych bello colorito, ordinato nelle strutture ma sballato quanto bastava per schierarli fuori dalle righe. Due/tre pezzi sono clamorosi.
Un recupero che più '90 non si può, quindi con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti. Ed un altro fendente, dolcemente nostalgico, per quell'epoca così innocente e piena di entusiasmo, di risorse ed insidie.

martedì 10 dicembre 2019

Aidan Baker ‎– Book Of Nods (2008)

Di solito funziona così, per AB: ascolto 3 suoi dischi uno dopo l'altro, fra quelli più citati (ma  prendo i titoli che mi piacciono di più, confesso); i primi 2 sono da buttare, il terzo è buono.
Book Of Nods ha il suo maggior pregio nella secondarietà delle chitarre, rivelando un rovescio alternativo dello spirito estatico, per quanto leggermente naif, del canadese. E' in sostanza una ambient organica, in quanto incentrata su piano ed organo, dalle strutture minimalistiche. Love parte con dei tintinii ovattati di piano, quasi alla Charlemagne Palestine d'annata, ma con una sequenza cinematica di gran gusto. Survival è una stagnazione di organo per i primi 6/7 minuti, poi AB inizia a dare qualche colpo sparso alla batteria, per poi innescare alla chitarra un riff gothic-shoegaze che fa decollare la suite. Obsession ha una struttura similare, anche se giocata tutta sull'organo ed accentua i colpi percussivi aleatori. Good & Evil stratifica diversi bordoni e chiude con un'atmosfera stranita, quasi cosmica.
Come sempre, una durata ridotta avrebbe giovato all'insieme e non sarà certo ricordato come uno dei suoi episodi più memorabili, ma Book Of Nods funziona perchè ha uno spirito oserei dire terapeutico, che infonde serenità e leggerezza.

domenica 8 dicembre 2019

Christian Death ‎– Catastrophe Ballet (1984)

In quella storia che più travagliata non si può dell'entità Christian Death, Catastrophe Ballet rappresenta un'episodio felice a tutto tondo. Rozz Williams, a gruppo sciolto, si vide contattare da una label francese per la ristampa di Only Theatre Of Pain e per l'incoraggiamento a proseguire l'avventura. Reclutati 4 nuovi membri, insieme a loro realizza questo secondo album, che è uno stacco abbastanza netto rispetto al, pur miliare debutto. Immersa in una nebbia gotica impenetrabile, l'atmosfera generale è se possibile ancor più morbosa; le tirate punk aggressive sfumano anche se la chitarra di Valor è capace di graffiare con stile, le ritmiche sono wave-compatte ma a più riprese si spezzano per dare enfasi alle implosioni teatrali.
Esemplare la facciata A, con Sleepwalk, The Drowning e The Blue Hour. Era chiaro che i CD non inventavano un granchè (Bauhaus e Sisters Of Mercy erano attivi già da qualche anno all'epoca), ma la loro iconografia e lo stile espressivo fissavano uno standard molto peculiare.

venerdì 6 dicembre 2019

Stabscotch ‎– Uncanny Valley (2017)

Una delle sempre più rare scoperte di PS, proveniente da quello che una volta si chiamava underground ed adesso non esiste più, ma romanticamente ha ancora una consistenza perchè il disco è uscito in cassetta e di questo trio dell'Indiana non si sa praticamente nulla.
Non importa, perchè hanno abbastanza da dire nella pratica; non possiedo il supporto fisico, ma mi chiedo che tipologia di cassetta possa essere, dato che va oltre i 100 minuti di durata; nuove frontiere del glorioso supporto?
Venendo al contenuto, gli Stabscotch sono una rivelazione, c'è poco da dire. Non suonano come nessun'altra cosa mai sentita, e lo suonano come se non ci fosse un domani, con uno sforzo sovrumano ed un dispiego di idee e soluzioni impressionante, in pratica inesauribile. Il bassista / vocalist ha un'imprinting  tipicamente hardcore, con quel declamare furioso e monotono. L'asso del gruppo è il chitarrista, l'elemento più raffinato ed in grado di sfornare riffs dalle mille sfaccettature, che più volte mi ha ricordato il grandissimo Drazek dei Rope. 
E le composizioni? Indefinibili, inafferrabili, psicotiche, dei rebus inestricabili. Gli Stabscotch parlano un linguaggio dell'assurdo, sono accompagnatori verso una Zona del mistero più fitto ed inspiegabile. Un labirinto di post-hardcore, prog, art-metal, avanguardia e tanta, tanta psichedelia.
Uncanny Valley è talmente lungo e pieno di dettagli che credo occorrano 10/15 ascolti per assimilarlo al meglio, il che significa circa 24 ore. Follia totale, di questi tempi, ma gli Stabscotch sembrano non fare parte di questo mondo, ed entrare nel loro, almeno metaforicamente, è un esperienza da provare.

mercoledì 4 dicembre 2019

Stephan Micus ‎– Listen To The Rain (1983)


Incastonato in una splendida foto di copertina che ritrae una foresta confusa fra sole e nebbia, Listen To The Rain è il settimo album di Micus, distante 6 anni da quelle Implosions che avevano rivelato il talento multi-etnico del tedesco.
Il disco, al contrario dei precedenti, è molto chitarristico. La facciata A, tre pezzi lunghi improntati sulla 6 corde spagnola, sullo shakuhachi e sul flauto di bambù, il suling. Tre digressioni dolenti, d'ispirazione iberica ma con sfaccettature tutte da scoprire.
La facciata B, una prodezza vera e propria. I 20 magici minuti di For Abai And Togshan, in cui è protagonista il dilruba (sitar suonato con l'archetto), sono una struggente, commovente mini-sinfonia dal lirismo indicibile. 
Un cuore grande come tutto il mondo, quello di Micus.

lunedì 2 dicembre 2019

Tangents – New Bodies (2018)

Quintetto australiano così composto: un addetto all'elettronica, un tastierista, un chitarrista, un violoncellista ed un batterista. Provengono da Sydney, città che inevitabilmente richiama un nome gigantesco come quello dei Necks.
Il sound dei Tangents, magnificamente registrato, è uno strumentale vivace e brioso che in alcuni momenti può richiamare le fasi più inquiete dell'iper-trio A-B-S (Immersion), ma vista anche la ricca orchestrazione vira verso un post-jazz-rock zona Tortoise, suonato con parco virtuosismo e che non disdegna richiami verso epoche molto più lontane, visto lo stile elegante ed ortodosso del pianista.
Qualche fase che non convince (i 10 minuti di Gone to ground stancano), ma i momenti migliori (l'accoppiata vincente Terracotta e Arteries) rendono New Bodies un gradevole sottofondo-ma-non-troppo, cinematico e fantasioso. Per i fans dei sopradescritti, senz'altro consigliato.

sabato 30 novembre 2019

Tangerine Dream ‎– Ricochet (1975)

A suggello di una stagione magnifica per il trio, questo assemblaggio di vari live intercorsi durante il 1975 diventò una pietra miliare della loro carriera, incastonato fra gli altri capolavori in studio Phaedra e Stratosfear.
Ormai lanciati in un'opera pionieristica fantasiosa, i tre erano anche assistiti da una fortuna commerciale frutto della felice congiuntura temporale, culturale di massa. Nei 40 minuti di Ricochet sublimavano tutte le intuizioni ricavate in precedenza in studio, trasportate, secondo i ricordi dei protagonisti, con l'incoscienza totale di cosa sarebbe successo sul palco; ci si metteva d'accordo soltanto sulla tonalità, e con quella si viaggiava.
La facciata B del vinile, e soprattutto gli ultimi 10 minuti, è una delle loro vette più immagignifiche, che non a caso faceva bella mostra di sè in una delle Mental Hours.

giovedì 28 novembre 2019

Mark Lanegan & Duke Garwood ‎– With Animals (2018)

E' da tempo immemore che ho smesso di seguire Lanegan, grossomodo una quindicina d'anni, perchè ad un certo punto ho ritenuto che avesse esaurito la sua vena creativa ed il suo ventaglio di possibilità espressive. Oggi lo ritrovo per curiosità, dopo aver letto una recensione di With Animals, e non è cambiato pressochè nulla ma lo stato di forma appare più che buono ed il disco contiene degli ottimi pezzi.
Il sodale della situazione è il chitarrista inglese Duke Garwood, un erratico free-lance al secondo episodio in società col seattleiano. E' un album dolente, di quella filigrana fatalistica di cui è permeata l'aurea generica di Lanegan, quella nella quale la sua voce possente trova la miglior casa.
Garwood lo accompagna ed assiste con una chitarra mai banale seppur adesa ai canoni, con qualche coloritura di tastiere ed una scarna beat-box. Diversi pezzi sono superbi e mi hanno ricordato i primi dischi di Will Oldham in logo Palace Brothers, con le dovute differenze stilistiche. In sostanza, nulla di nuovo sotto al sole, ma soltanto una dimostrazione di stoffa pregiata.

martedì 26 novembre 2019

Screams From The List #89 - Frank Zappa ‎– Lumpy Gravy (1969)

Dopo i fasti innovativi dei primi 3 dischi, Zappa diede la stura alle sue velleità di compositore / direttore assoldando un'orchestra jazz-rock ed assegnandole una partitura sottoforma di collage dell'assurdo, alternando musica suonata canonicamente ad inserti di musica concreta ed un sacco di dialoghi.
L'influenza su NWW riguarda senz'altro quest'ultimo aspetto, che nella Side A è abbastanza marginale, mentre sulla B diventa preponderante. Confrontato con i prodotti di Zappa dell'epoca, ovviamente Lumpy Gravy finisce per fare la figura dell'esperimento parzialmente riuscito, anche se lo stesso non nascose mai la sua soddisfazione per il risultato finale, arrivando persino a dire che conteneva la sua musica preferita.
In ogni caso, ognuno potrà trovare, nei vari scampoli delle pieghe del disco, la propria parte prediletta. La mia è quella di Oh no, ad esempio, col tema guidato dal vibrafono su ritmo dispari, una vera e propria perla che trascende sia il jazz che il rock. E' chiaro che Zappa ha fatto di molto meglio, ma in certe fasi si possono ascoltare diversi anteprima di quanto riuscirà a compiere con Hot Rats.

domenica 24 novembre 2019

Luciano Cilio ‎– I Nastri Ritrovati (2018)

Eccezionale ritrovamento da parte di Feis e De Simone, due musicisti che furono vicini a Cilio in vita. La cosa potrebbe anche esser stata romanzata, romanticamente, ma non ha importanza: ci voleva, un recupero per un artista eccezionale così poco documentato.
Trattasi di materiale risalente al 75/76, quindi antecedente ai Dialoghi del presente. La qualità sonora è medio-bassa ma non inficia più di tanto sulla resa delle composizioni, in gran parte per chitarra acustica solitaria, con Cilio impegnato in un dolente fingerpicking spesso accostabile a John Fahey. Non è dato di sapere se l'artista intendesse approfondire discograficamente questa vena agreste, in ogni caso sembrano più bozze che quadri definiti, per quanto di assoluta qualità.
Le vere gemme però stanno nelle varianti: la prima traccia, un'escursione notturna fatta di clangori percussivi, increspature di fiati e risonanze elettroniche, una processione atonale di 12 minuti e mezzo. La seconda, in linea, ma di durata dimezzata, si regge su quella che sembra essere una linea di basso proto-post-rock. La chiusura, intitolata Liebeslied, è con ogni probabilità una registrazione ex-novo, vista la qualità, di Fels, che in vita era l'esecutore pianistico di fiducia di Cilio.
Selezionato da una quantità imponente di musica, I Nastri Ritrovati è importante per continuare a diffondere una voce incompresa, ignorata, che forse è avanti ancora oggi.

venerdì 22 novembre 2019

Necks ‎– Body (2018)

Un benvenuto cambio di stile, al compimento del 20esimo album in studio del super-trio australiano. Body è un lavoro che deve aver richiesto un po' di tempo, contiene una massiccia dose di overdubbing e quindi non è assolutamente riproducibile dal vivo.
Non è che fossimo stanchi della collaudatissima formula impro che aveva raggiunto vette di misticismo inedite in Vertigo e Unfold, ma la sorpresa in Body rappresenta un gesto che difficilmente ci si aspettava.
Già dall'intro si sente che la propulsione è di quelle più agitate, in un contesto che ricorda un po' il leggendario Aquatic, esattamente un quarto di secolo fa. Al 25esimo minuto però accade un esplosione che non ha precedenti; un semi-motorik incessante (manca il terzo colpo di cassa, ma l'effetto Neu! è lampante) con Buck impegnato in un lavoro di chitarra elettrica isterico, a modo suo minimalistico anch'esso, concentrato sulle note più alte del manico, mentre Abrahams e Swanton fanno un supporto ipnotico ed altrettanto chiassoso. Un paradosso, per i Necks, ma possibile in quel mondo parallelo che hanno stabilito e fissato nelle nostre orecchie.
Al termine di questa lunga fase festaiola, il rientro alla contemplazione è quanto di più fascinoso e notturno abbiano mai fatto, con lo sdoppiamento di Abrahams fra note basse e medio-alte, Buck che genera suoni percussivi dei suoi, strumma un'acustica ogni tanto e Swanton che svisa e dronizza con l'archetto.
Avremo anche finito le parole per descriverli, invece loro non hanno ancora finito di fare magie.

mercoledì 20 novembre 2019

Basil Kirchin ‎– Quantum (2003 recorded 1973)

Registrato nel 1973 ma rimasto inedito per 30 anni, Quantum fu il primo di una lunga serie di recuperi / ristampe della Trunk Records dedicati al prode Basil Kirchin, uno dei compositori britannici più coraggiosi, avventurieri e geniali scoperti grazie alla Nww List. 
Del resto, un'anno prima del secondo Worlds within worlds, l'artista doveva essere in uno stato di grazia conclamato. Il formato era quello abituale: due lati del vinile, due flussi ininterrotti di oltre 20 minuti. Il contenuto, un groviglio inestricabile a base di versi di volatili, fiati free-jazz, frasi estatiche di minimalismo, labirinti di vibrafono, leoni ruggenti sul lato A Once upon a time.
Sul lato B, Special Relativity inizia con un agghiacciante mix di voci probabilmente manipolate, poi subentra un flautino che intona una giga rasserenante. E' un collage un po' più musicale, in cui i fiati solenni e l'organo forniscono un architettura saltuaria ad un altra fantasioso assortimento di suoni disparati e di voci autistiche.
Un ascolto magnetico, sconsigliato dopo una dura giornata di stress lavorativo. Meglio a mente fresca.

lunedì 18 novembre 2019

Abu Lahab ‎– When The Face Of The Lord Is Split Asunder (2010)

Uno dei primi autoprodotti del misteriosissimo progetto marocchino che prende il nome dallo zio di Maometto, vissuto nel 6° secolo avanti Cristo. Ma di islamico in senso classico non c'è davvero nulla in questa centrifuga orrorifica.
Seriamente una delle musiche più temibili e tremebonde che abbia mai sentito, in grado di rivaleggiare con lo Gnaw Their Tongues più cruento, con l'aggravante di alternare schegge di black metal a scudisciate industriali in un tortuosissimo percorso psichiatrico senza apparente logica.
Il disco inizia alla grande con le rasoiate metalliche di What of those on the left hand?, una sequenza micidiale di power-chords in galleggiamento aritmico. Con And When I sicken, it lacerate me, continua il dominio chitarristico sempre più schizofrenico fino a raggiungere vette di allucinazione pura con Accursed are the compassionate, dove fa la sua comparsa una voce arsa e furiosa che non è neanche black metal, è semplicemente una tortura.
La seconda metà purtroppo non ripete l'intensità insostenibile della prima. Fra canti di muezzin, organi acidi e gironi danteschi, la varietà è assicurata ma la follia incontrollabile di AL fa deragliare leggermente la coesione verso un circo dell'orrore forse più visionario, ma un po' dispersivo. Sono comunqe piccoli dettagli per un capitolo di assoluto rilievo.

sabato 16 novembre 2019

Red Krayola ‎– God Bless The Red Krayola And All Who Sail With It (1968)

All'ombra gigantesca di The Parable Of Arable Land, ancora oggi il secondo album dei RK divide e lascia interrogativi. Niente più rumorismi, niente più free-form-freak-out. Venti brevi vignette sempre improntate sull'assurdo ma lucidamente ordinate e strutturate. Un nuovo, ottimo batterista (Tommy Smith) al posto del fondatore Barthelme, contribuiva a dare una spinta ritmica a quello che in fondo è stato il loro disco Dadaista.
L'irresistibile slancio melodico che aveva caratterizzato Hurricane Fighter Plane viene qui distillato in un processo di songwriting che, in quanto a giganti coevi, a tratti trova dei paralleli con Syd Barrett e Skip Spence, ma ha l'ambizione di trovare sfocio nell'avanguardia pura, con alcune tracce che danno l'impressione di essere state composte a casaccio.
Un album asciutto, senza scompensi significativi, che denotava la stessa ispirazione ma rifiutava l'effetto clamore di un anno prima. Ma non per questo meno geniale.

giovedì 14 novembre 2019

Bruce Anderson - The Inherent Beauty of Hopelessness (2009)

Sempre più condannato a vagare in un underground che ormai non esiste più da un pezzo, sempre più al di fuori dei circoli specializzati. Questo capitolo solista del grandissimo BA, ad esempio, non è nemmeno su Discogs così come diversi album degli O-Type e i Grale, l'ultimo progetto con Dale Sophiea.
Non si è mai sentito un Anderson così dimesso, così ripiegato su sè stesso come in The Inherent Beauty of Hopelessness, che tiene perfettamente fede al proprio titolo. Lontano anni luce dagli attentati dinamitardi di Brutality, il più grande chitarrista mai sentito dalla gente qui si abbandona ad un soliloquio di 40 minuti per 2 o più chitarre acustiche archtop (ovvero quelle solitamente usate nel jazz). Una suite astratta, atonale, dal passo meditabondo e costante, uno sgocciolio impeterrito di note in filigrana purissima. Al primo ascolto lascia interdetti, al secondo lancia quesiti, al terzo ci si abbandona.
Senza alcuna speranza, per l'appunto.

martedì 12 novembre 2019

Table - Table (1995)

The Noise is on the Table.
Oscurissimo trio di Chicago autore solo di questo omonimo sull'altrettanto sconosciuta Humble Records ed un paio di pezzetti di vinile precedenti, di cui uno su Homestead.
Certo nel 1995 il noise-rock quadrato era leggermente inflazionato, oppure nel suo periodo di massimo splendore, dipende dai punti di vista. I Table ne fornivano una versione sul modello primi Tar / secondi Hammerhead / Johnboy, con una chitarra affilatissima ed una batteria bella dinamica. Registrazione a metà di Steve Albini, ma curiosamente più sui toni alti della stragrande maggioranza delle sue. L'altra metà, più sul post-hardcore a cura di tal Brad Wood. Scovato sul blog I Hate The 90's.

domenica 10 novembre 2019

Nick Mason's Saucerful Of Secrets - Live 2018-09-11 Düsseldorf Germany

Fa una tenerezza indicibile, questa avventura del 75enne leggendario Nick Mason che, dopo aver atteso invano un'improbabile pace fra Gilmour e Waters, ha deciso di prendere il toro per le corna e togliersi lo sfizio di andare in giro a suonare i Pink Floyd pre-1973, assecondando il suo spirito giocoso e facendo la gioia dei PF-fans più legati alle origini, andando persino a scomodare il fantasma di Syd Barrett.
Questo bootleg tedesco è di ottima qualità sonora, considerando la sua audience-source, e vede la scaletta tipo di quel tour. Il quintetto era ancora in fase di rodaggio (imbarazzante l'errore generale a metà di See Emily Play, ma è solo l'indecisione più macroscopica), ma la qualità media è eccellente: sorprendente ed ottimo Gary Kemp degli Spandau Ballet, voce e chitarra. Il Gilmour della situazione è tal Lee Harris, sconosciuto ma molto bravo nel metterci del suo e non suonare come una fotocopia. Il tastierista Bekem fa altrettanto ed al basso c'è Pratt, già un Pink Floyd negli anni '90, uno dalla tecnica alta alta ma che si sforza di non metterla troppo in campo.
Ed il buon Mason? Sono sincero e con tutto il bene che gli si può volere.....beh, è il punto debole di questa simpatica baracca. Già nel 1994 aveva bisogno di una spalla completa. Al Live 8 del 2005, in un set di 20 minuti (!) era bolsissimo. Figuriamoci adesso, a 75 anni; all'inizio attacca Interstellar Overdrive e sembra carichissimo, ma già al secondo pezzo, Astronomy Domine, inizia a perdere colpi. Il resto del concerto lo suona sgonfio, centellinando in maniera paradossale. 
Ci pensano quindi i validi compari di palco a tirare su la situazione, impeccabili ma soprattutto generosi e dotati del cuore necessario a trattare un repertorio così storico e cristallizzato nei firmamenti.

venerdì 8 novembre 2019

Melvins ‎– Ozma (1989)

E' il trentennale di Ozma, ed una piccola celebrazione ci vuole per quello che forse fu il loro top della fase indipendente, insieme a Lysol e Bullhead. Ci sono ben poche divagazioni e/o compromessi in questo colosso, fra l'altro ristampato l'anno scorso esattamente dalla label originale, la Boner. Su 16 tracce soltanto Vile e Revulsion/We reach superano i 3 minuti, e sono gli episodi più doom, nell'accezione melvinsiana del termine; il focus maggiore è sui ritmi serrati e spezzati, sulle rasoiate di Buzzo, sulle sue vocals psicotiche e sulle sue costruzioni anfetaminiche. Al basso di turno c'era Lorax, superfluo ribadire la grandezza di Dale Crover. Asciutta anche se un po' compressa la produzione di Deutrom, di lì a qualche anno futuro bassista nella fase major.
Menzione speciale per At A Crawl, Green Honey, Raise a Paw, ed ovviamente Oven, pochissimo tempo dopo già coverizzata dagli Helmet.
Classicone.

mercoledì 6 novembre 2019

David Wenngren ‎– Sleepless Nights (2009)

Un audio-concept sull'insonnia da parte di Mr. Library Tapes in release a nome vero, sulla sua etichetta personale. Una situazione che non si ripeterà, dato che su Auetic di lì in poi usciranno soltanto i lavori di LT, mentre quelli da documento d'identità verteranno solo su collaborazioni a quattro mani, in altri lidi.
Nessuna rivoluzione significativa in Sleepless Nights; un suono più polveroso, sempre a base di piano e nastri, per 9 acquarelli tenui e nebulosi, sicuramente più austeri e minimali della media di LT. Gli archi campionati contribuiscono ad irrobustire un architettura fragile e tesa, quasi un punto d'incontro fra Basinski e Skelton.
Wenngren dimostra ancora una volta di esser diventato un nome dell'olimpo dell'ambient-chamber, anche in uscite più dimesse come questa. La prima notte che avrò problemi d'insonnia proverò ad irradiare questo pallido disco per la stanza; sono sicuro che mi accompagnerà al riposo con gentilezza e candore.

lunedì 4 novembre 2019

Steve Hillage ‎– Fish Rising (1975)

Verso il termine della sua esperienza coi Gong, SH si mise in proprio e debuttò con questo disco che comprendeva buona parte dei protagonisti di quella avventura.
Normalmente non viene ricordato come uno dei più grandi chitarristi britannici, nonostante un'indubbia tecnica che era retaggio evolutivo della gloriosa stagione rock-blues. La sua essenza artistica visse sempre in un area non precisamente definita, un po' come i Gong stessi: psychedelica certo, un po' canterburyana, e di conseguenza un filo progressiva, come le due articolatissime suite che sono la spina dorsale di Fish Rising; Aftaglid e Solar musick suite sono costruzioni pirotecniche, dominate dalla sua Strato ma con un'impianto strumentale ben completo, con delle ritmiche marcate che trovano lo sfocio perfetto negli 8' di The Salmon Song. Una versione sanguigna e disincantata dei Gong, un'alternativa meno folle, piacevole sia per i fan di Canterbury e perchè no, anche a quelli degli Hawkwind.

sabato 2 novembre 2019

Fushitsusha ‎– The Wisdom Prepared (1998)

Un tipico assalto all'arma bianca del trio Haino-Ozawa-Takahashi, registrato in studio anche se potrebbe esser stato un qualsiasi live del periodo, in formato impro.
Ed è un massacro psych-noise strumentale, un bagno nell'acido solforico, che soltanto chi ama l'arte incompromissoria di KH può apprezzare. Settantacinque minuti ininterrotti, con pochissime variazioni ritmiche, la più sensibile intorno al 52' quando la faccenda si fa quasi doom.
Il basso è un rimbombo pantagruelico, la batteria resta confinata ed un po' sommersa nel mixing, sullo sfondo. KH è KH al suo massimo livello psych-impro-noise.
Quando mi capitano suoi episodi in questo formato, di solito penso sempre: non ce la farò mai ad arrivare in fondo. Ed invece, una volta partito l'ascolto, è impossibile fermarsi dal cavalcare uno tsunami catartico che può rigenerare dopo una dura giornata ed epurare le tossine dello stress. E dopo il taglio drastico finale, il silenzio si rende necessario, almeno per qualche minuto. Oasi.

giovedì 31 ottobre 2019

Voïvod ‎– The Outer Limits (1993)

Il mio disco preferito dei canadesi, l'ultimo con il vocalist originale Snake. Fu non a caso un vero e proprio traguardo di maturità; partiti da un ormonale trash in adolescenza, pervenirono ad un hard-metal-prog-fantascentifico impeccabile e dalla loro ci fu anche l'ispirazione.
Ci arrivarono per tappe ben costruite, come testimoniato dai passaggi intermedi; Nothingface e Angel Rat avevano dimostrato che coniugare prog & psych non era una bestemmia e il loro pubblico non voltò le spalle, anzi, ne guadagnarono.
The outer limits vede il chitarrista Piggy al top della sua ispirazione, un vulcano tecnico inarrestabile, ed ottime composizioni: i 17 minuti di Jack Luminous rappresentano uno sci-fi-prog-trip formalmente impeccabile nonostante qualche passaggio un po' calcato. Splendide Moonbeam rider, Time Warp, Fix My Heart, scandite da ritmiche elastiche e progressioni armoniche emozionanti. E con una produzione più aperta (più 90 e meno 80, direi) sarebbe uscito persino meglio, a mio avviso.

martedì 29 ottobre 2019

Glide - Performance (2000)

Will Sergeant degli Echo & The Bunnymen in pieno trip solista. La chitarra lasciata a lungo nella custodia, la stura alle tastiere, il Brian Eno di fine '70 fissato bene in testa, un po' di Germania storica e la vena psichedelica impossibile da zittire.
Glide fu il suo secondo, quasi interamente dal vivo come il primo. La dimensione da palco, oltre ad esaltare le due doti di one-man-ambient-band, rende giustizia ad un suono che paga il suo tributo agli idoli di riferimento; basti confrontare con le due tracce in studio, poste a fine scaletta (Frozen Teardrop in space sfonda i 30 minuti), decisamente più levigate.
La performance ha un suo percorso avvincente: i primi 15 minuti Enoiani fino al midollo, poi sale la tensione, si attiva un beat scarno e pulsante, Sergeant tira fuori la chitarra e diffonde fendenti lisergici; l'aria si è fatta decisamente più rarefatta e ci si aggira su ambienti Ash Ra Tempel / Tangerine Dream.
In pieni tempi di reunion, il progetto Glide fu la conferma che lui era l'anima freak degli E&TB, colui che per la produzione di Heaven Up Here voleva Eno (e chissà come sarebbe uscito...).

domenica 27 ottobre 2019

Screams From The List #88 - Ron Geesin ‎– As He Stands (1973)

Conosciuto principalmente per aver dato un contributo fondamentale alla realizzazione di Atom Heart Mother, Geesin è un compositore, polistrumentista e sperimentatore avant-psichedelico scozzese che nel corso della sua lunga carriera si è anche dato alla library televisiva, oltre che a bizzarre installazioni ed eventi meta-multimediali.
Sulla List viene tirato in ballo il suo 4° album del 1973, As He Stands, un lavoro spezzettato e complesso, in cui si evince un forte sense of humour dipanato in svariate vignette psych-folk, qualche aria celtica ed alcuni spoken-word di forte sapore teatrale. Nel contesto, però, tutto sembra perfettamente incasellato come si deve, ed il valore aggiunto è costituito dalle tracce di maggior ispirazione library e da quelle più coraggiose, come Concrete Line Up, Wrap a Keyboard Round A Plant, To Roger Waters wherever you are e A cymbal and much electronic, ovvero quelle più influenti per Stapleton. Musiche dell'assurdo.

venerdì 25 ottobre 2019

Liliental ‎– Liliental (1978)


Curioso supergruppo della tarda stagione aurea teutonica, comprendente un giovane Asmus Tietchens, il mitico produttore Conny Plank (paradossalmente qui al debutto come musicista), Moebius dei Cluster, due elementi provenienti da un gruppo jazz-rock (Kraan) ed un polistrumentista olandese. Ne sfociò un disco inevitabilmente eterogeneo, ma davvero sfizioso, con qualche frangente di humor gradevolissimo (Wattwurm e Nachsaison, eleganti numeri quasi cabarettistici). Le folate di synth e punteggiature chitarristiche psichedeliche stabilivano la cifra stilistica generale con l'iniziale Stresemanstrasse, convogliata in soluzione di continuità nelle stasi sognanti di Adel. Si proseguiva con le lunghe meditazioni di Vielharmonie e Gebremster Schaum, con atmosfere positive ma mai scontate nè ammiccanti. Ripescato da Zingales nel 2007 in occasione della ristampa nippo-tedesca, fu un episodio non troppo allineato e contrassegnato da un sano spirito di divagazione.

mercoledì 23 ottobre 2019

A Minor Forest ‎– Inindependence (1998)

Secondo ed ultimo album di questo grande math-trio spentosi alla fine del millennio. Nel 2014 si riunirono per un tour coast-to-coast e sperai a lungo che tornassero a registrare qualcosa di nuovo, ma purtroppo non se ne fece nulla.
Se la schizofrenia era sembrata il loro tratto più distintivo su Flemish Altruism, su Inindipendence il quadro clinico era decisamente peggiorato, e fu il miglior segno che potessero dare, anche perchè il disco è maggiormente a fuoco, facendo risaltare anche il sardonico sense of humour portato in dote.
E la registrazione è magnifica, a firma di garanzia Brian Paulson.
E' soprattutto lo showcase del batterista Connors, un performer spettacolare che avrebbe meritato una carriera ben più lunga ed espositiva. La filiazione Slint/Codeine è ancora presente, ma solo come rampa di lancio per le elucubrazioni di The Dutch Fist, Michael Anthony e It's Salmon; le composizioni sono contorte, elaborate e spigolose, capaci di passare da un lento spiritato ad una violenta aggressione. La Top track è Look at that car, It's Full of Balloons.
Ma erano i segnali di discontinuità a rendere ottimisti per il futuro, almeno io lo ero nel 1999 quando consumavo questo cd fino a mandarlo a memoria: i 18 minuti strumentali di The Smell Of Hot, un irrisolto enigma del post-rock, autentico labirinto che travalica le loro certezze, e la coda Discoier, un dolente crepuscolare scandito dal pianoforte in punta di dita, la cosa più seria che avessero mai fatto, un involontario addio. 
Era finita, purtroppo. Ne avrei voluto molto, molto di più.

lunedì 21 ottobre 2019

Shudder To Think ‎– Funeral At The Movies & Ten Spot (1991)

Le due prime release su Dischord raccolte quasi in diretta, per una delle band più atipiche mai apparse nel rooster della label di Washington, ma forse predestinate per il vantaggio di poter giocare in casa. Non c'era proprio quasi niente di hardcore negli STT di questa fase, già evolutisi verso un power-pop-indie-progressive certamente ad alto tasso energetico, ma contrassegnato da un cantante troppo particolare per farli aderire ad un filone ben preciso. Non avevano da spartire nè col grunge nè con la scena dei college, e di lì ad un paio d'anni finirono persino su major, ma non ebbero mai successo commerciale e terminarono la loro corsa entro la decade.
Costipata ed acrobatica ma mai troppo ostica e soprattutto sempre improntata sulle melodie, la musica del quartetto era perfettamente incastrata senza mai ostentare vanità. In un certo senso erano emo, ma nell'accezione più innocente possibile, così come il falsetto di Wedren tradiva uno spirito post-adolescenziale candido ed incontaminato, come un Michael Stipe asciugato dalla follia latente. Fra i due dischi, meglio il mini Funeral at the movies, più rifinito e meglio prodotto e contenente un paio di pezzi memorabili (Lies About The Sky, Red House), del concitato Ten Spot, ugualmente valido ma penalizzato da una produzione troppo asettica.
Da riscoprire fra i segreti meglio nascosti dei Novanta.

sabato 19 ottobre 2019

Various ‎– Exercises In Obscurism (2008)


Compilation ad opera di una cd-r label, la Second Sun Recordings, attiva a fine decennio scorso quasi esclusivamente al fine di diffondere le registrazioni dei solisti statunitensi Brian Grainger (elettronico, dalla South Carolina, di professione sonorizzatore di videogames, un ammasso ridicolo di pubblicazioni a suo nome) e David Tagg (chitarrista, newyorkese, appena più contenuto). Un esempio lampante dei nostri tempi, dei dischi a costo quasi zero, della mancanza di freni inibitori, delle collaborazioni a distanza, delle diffusioni come se non ci fosse un domani.
Eppure non è per niente male. Siamo nell'area dell'ambient-elettroacustica, e gli artisti sono a me oscuri a parte Caretaker, qui presente con un imponente dark-ambient in stile Deleted Scenes Forgotten Dreams, ed il buon Adam Pacione, con una quietissima e placida contemplazione.
Niente male anche i due padroni di casa. Grainger sfoggia un minimale spudoratamente basinskiano ma davvero ottimo, Tagg uno spoken-android-industrial spiritato; insieme fanno VCV con una polverosa Improvisation for organ and guitar . Bravi anche Heptangular (organi saturati), Eluder (sottopelle industriale) e White Star Line (tempesta elettromagnetica). Il narcisismo abbonda, ma manca ogni compromesso.

giovedì 17 ottobre 2019

Pussy Galore – Dial 'M' For Motherfucker (1989)

La giusta palestra per Jon Spencer, prima di trovare la sua vera ed esaltante incarnazione nella Blues Explosion. C'erano troppi galli nel pollaio Pussy Galore: lui, lo scalpitante Neil Hagerty, e pure la sua ragazza Martinez che smaniava velleità soliste ed infatti se ne andò alla vigilia di questo Dial M.
E pensare che la sporchissima coerenza di questo album resta intatta, col senno di poi: al netto di qualche riempitivo, è un'essenza noise-blues-punk dritta in faccia, beefheartiana quanto basta ma non cubista. Epidermico ma non tellurico, rumoroso ma non dissonante, ironico e beffardo, la perfetta anticamera delle prodezze di lì a poco.
Rimando comunque all'analisi ben più corposa di Vlad Tepes.

martedì 15 ottobre 2019

Spokane – Leisure & Other Songs (2000)

Un campo inclinato, immacolato di neve, con alcuni grandi alberi spogli sullo sfondo. Questa è la copertina programmatica del primo Spokane, l'esordio del futuro regista Rick Alverson, cantante / compositore celato dietro la sigla cittadina, coadiuvato da un pugno di collaboratori più o meno stabili, che solcherà buona parte del decennio zero con altri album di assoluto rilievo.
Che forse sono stati più rifiniti e meglio prodotti, ma come è accaduto spesso per questo tipo di autori, il primo resta possessore di un aurea magica e predestinata. Leisure contiene 8 pezzi a bassissimo tasso di bpm, che si assomigliano, ma tutti superbi ed ispirati. Alverson era arrivato forse tardi per attirare le attenzioni di un genere che aveva già fatto gridare con i suoi pezzi grossi, ed infatti non è stato celebrato come si doveva. Per chi ama il rumore dell'anima più vicino al silenzio, Leisure & Other Songs è un piccolo cimelio da custodire gelosamente.

domenica 13 ottobre 2019

CCCP Fedeli Alla Linea ‎– Canzoni Preghiere Danze Del II Millennio - Sezione Europa (1989)

Uno dei dischi meno ricordati dei CCCP, perchè trovatosi in una terra di mezzo; non più tagliente e rasoiato come gli inizi, non ancora mistico ed ultrasensoriale come l'ultimo album, con la formazione ante-CSI, Canzoni Preghiere Danze vive di contraddizioni interne difficilmente spiegabili. Perchè si apre con una meraviglia assoluta come Svegliami, dal climax emotivo insuperabile e con uno dei testi più brillanti di Ferretti; prosegue con l'irresistibile ironia mid-punk di Huligani Dangereux, poi scade in un'orribile lounge senza nerbo (B.b.b.), un mediocre power-pop (Fedele alla lira), si riprende con l'iberico anfetaminico di Roco Rosso ed il pregevolissimo strumentale barocco-mediorientale La qualità della danza. L'illogica disomogeneità prosegue senza sosta nel lato B, col synth-pop rustico di E' vero, la tensione minimalistica di Palestina, il lussureggiante mantra cattolico di Madre, un ultimo guizzo punk con Conviene, persino uno scadente reggae con And the radio plays e la chiosa di Vota Fatur, un puro riempitivo cabaret-synth per una fantomatica campagna elettorale del performer da palco che animava i loro concerti.
Morale: un disco talmente confusionario ed accozzato che non è possibile non apprezzare, proprio per la sua assurdità. Erano stati in grado di non svendersi, di continuare a sbeffeggiare tutto e tutti, persino su major, persino raffinando le proprie capacità di arrangiamento.

venerdì 11 ottobre 2019

Three Mile Pilot ‎– Starcontrol Out EP (1995) + Three Mile Pilot EP (1997)

Un'accoppiata di 12'' negli anni di maggiore attività dei 3MP, forse più per fans terminali / completisti che per reale valore intrinseco. Starcontrol Out, vinile a singola faccia, raccoglieva 3 pezzi già inclusi in The chief assassin to the sinister (ma occorre dire, scelti molto bene), la sonata impetuosa Piano Titanic ed un esercizio in rumoristica Inside the wash house.
Più interessante e pregno l'omonimo EP, in quanto le tracce non sono state raccolte nella fantastica antologia Songs from an old town once we knew. Il motivo è che probabilmente i ragazzi lo considerarono un album a sè stante, oppure la Gravity ne mantenne i diritti esclusivi (fu la loro unica pubblicazione sulla label, nonostante le numerose connessioni). Lo stile è a metà strada fra il cupissimo di Chief (Wahn, Tokyo Static) e il magniloquente art-pop di Another Desert another sea (On a ship to Bangladesh, Worry), col curioso intermezzo di By this river, cover di Brian Eno eseguita da Jenkins e Nathaniel in solitudine, ovvero prove generali ed anticamera dei Black Heart Procession.

mercoledì 9 ottobre 2019

Pavement ‎– Crooked Rain, Crooked Rain (1994)

Ricordato quest'anno per il 25ennale, il secondo album dei tanto celebrati Pavement, che all'epoca ignorai e che tutt'ora ritengo non meritevoli di tutta questa gloria tributata loro dalla stampa. Se non altro occorre riconoscere a CR, CR una produzione eccellente e qualche ottimo pezzo, da prendere come underground-hits senza troppe pretese se non come intrattenimento che funzionava alla grande (Cut Your Hair e Gold Soundz). L'influenza dei Sonic Youth era prominente a quella molto più battuta dei Fall, e nel suo complesso il disco appare omogeneo e coerente ancora oggi, ragion per cui nel 1994 trovava giustificazione la beatificazione immediata da parte di una stampa che aveva già abbattuto il grunge ed aveva voglia di tornare al pop mascherato da alternative-rock. Che di fatto i Pavement incarnavano alla grande.

lunedì 7 ottobre 2019

Lucky Pierre - Singles 2000-2005

Sei piccoli formati nei primi anni di Lucky Pierre, all'insegna di una relativa indecisione sulle direzioni da intraprendere (sempre che ad Aidan importasse qualcosa). Almeno 4 sono di altissimo livello e sublimano l'arte collagistica del barbuto, in pieni anni Arab Strap.

2000 Pierre's Final Thought - Two Songs By Lucky Pierre 7'': Primissimo solco autoprodotto. A dir poco splendido, con l'elettro-folk di Chloe e l'operistica digitale di Sometimes i feel like a motherless child. Poesia pura.
2000 Blank For Your Own Message EP: E subito dopo nuova magia per una mini suite di 17 minuti in 3 parti. Prima parte estatica con pattern di piano, beat soffuso e folate galattiche. Seconda parte ancor più melliflua con violoncello e organo vellutato. Terza ed ultima in loop notturno, con chitarre eleganti e chiose evocative. Superlativo.
2002 Angels On Your Body-Bogey On My Six 7'': la title track la conoscevamo come opening track di Hypnogogia, qui rallentata. Magnifico il retro, lo strascicato trip-honky- folk-hop di Bogey on my six.
2003 Humbug! (For John) - Darth Bastard 7'' Aidan si butta in pista, letteralmente, non so con quanta serietà. Episodio da dimenticare, tamarritudine house a palla, una specie di carpenterianesimo con la pompa-cassa e tronfismo a go-go.
2003 Lucky Pierre Vs. Minotaur Shock Vs. Pedro 7'': Glitch-acoustic-library di buona fattura, manca forse l'ispirazione impennata (o la ruberia indovinata che gli si compete). D'altra parte i remix non sono suoi.
2005 Lucky Pierre & Notes - 2005 I Hate T-shirts That Say 1977 EP. La title-track vede un rapper in azione, ad importunare in parte un motivo assolutamente memorabile, di quelle ruberie sinfoniche su ritmo up-tempo irresistibile. Biblebash è un altro centro pieno, una specie di Anonimo Veneziano sotto anfetamina. Completa Black Disco Vista, che è un allucinogeno pompa-cassa da incubo.

sabato 5 ottobre 2019

Low ‎– The Curtain Hits The Cast (1996)

Completa la trilogia iniziale del trio di Duluth, seguito del primo prezioso e del secondo, essenziale. Poco da aggiungere, se non la felicissima reiterazione di una formula impareggiabile nel suo essere disarmato, disarmante, arrendevole ed arresa. Il calore del focolare invernale contro l'austerità, la liturgia e l'ascetica, la levitazione di quelle voci coniugate e coniuganti. Spiccano l'aerea Coattails, la progressione redhousepaintersiana Standby, la rarefazione sospesa di Laugh, il quarto d'ora di Do you know how to waltz?, con la novità di una stratificazione chitarristica ambient-core che ipnotizza e mette scompiglio, pur nella sua compostezza formale. Un disco lunghissimo, indissolubile e da amare per il resto della propria vita. Come i due sopracitati, all'epoca me lo persi e resta un rimpianto personale difficilmente colmabile, perchè potrò ascoltarlo altre mille volte ma non lo sentirò mai mio come altri.

giovedì 3 ottobre 2019

Duster – Contemporary Movement (2000)

Trio californiano in attività a fine anni '90 sulla Up Records che passò assolutamente inosservato, che di recente è tornato alla ribalta perchè la Numero Group ha pubblicato una delle sue cofane retrospettive integrali. Un trattamento riservato in passato ai grandi, e perchè non provarci anche con i nomi di serie B? Magari riscopriamo qualcosa che ci era sfuggito, o rivalutiamo cose snobbate in fretta o ascoltate senza la giusta predisposizione.
Sgombro il campo; i Duster non erano dei fenomeni, ma avevano un buon potenziale. Peccato che i due album realizzati non abbiano beneficiato di una produzione dignitosa, lasciando intentato un piccolo talento per l'indie-song letargica e semi-rurale. L'influenza più evidente era quella dei mastri Bedhead, da cui i Duster mutuavano l'indolenza vocale, i cicalecci chitarristici e le composizioni circolari. Su Contemporary Movement si sfiora quasi il plagio in certuni titoli, ma gli amanti e i nostalgici di queste sonorità potranno ancora trarre godimento da altri in cui le atmosfere autunnali prendono il sopravvento e rivelano un gusto tutto americano per gli arrovellamenti pigri e lenti delle chitarre, per quelle voci così stonate ed arrendevoli, per quella sottilissima inquietudine.

martedì 1 ottobre 2019

Samla Mammas Manna ‎– Måltid (1973)

Il secondo disco di questi folli geni svedesi, immersi in un'area grigia fra prog, jazz e sketches tecnico-surreali, questi ultimi ancora abbastanza minoritari in favore di un'epica di fondo non troppo seriosa ma comunque importante. Almeno fino a quando il pianista Hollmer, da sempre indicato come il leader, non tira fuori un innocente e stridulo falsetto.
A grandi passi verso il capolavoro di questo versante (consigliata la visione dell'unico filmato disponibile di quegli anni), i SMM erano già una cosa unica al mondo. Maltid è un labirinto di cui è impossibile stancarsi all'ascolto, con le sorprese mai scontate sempre dietro l'angolo.

domenica 29 settembre 2019

Jo Passed ‎– Their Prime (2018)

Interessante quartetto canadese al debutto nientemeno che su Sub Pop, che eredita senz'altro qualcosa dalla più gloriosa stagione dei college, partendo dai Pixies (qualche pezzo tirato con gli scarti ritmici tipici), e arrivando a giorni più recenti passando dai Death Cab For Cutie (la voce, talune inflessioni melanconiche), dai Deerhunter (le commistioni psichedeliche), arrivando fino ai Cloud Nothings (il trasporto emotivo).
Come capita sempre in generi così abusati, è la personalità e le trovate melodiche che fanno la differenza, ed in Their Prime ce n'è un buon numero: le ballad impressionistiche di Left, Repair e Places Please sono l'eccellenza, e fanno ipotizzare che dietro il tasso ormonale che agita quasi tutto il resto del disco si nasconda un giovane songwriter di razza, questo Jo, dal potenziale che ce lo farà tenere d'occhio nel seguito.
 

venerdì 27 settembre 2019

Screams From The List #87 - Arbete & Fritid ‎– Håll Andan (1979)

Eccentrici svedesi, e paurosamente eterogenei in questo capitolo di fine carriera, un epitaffio in grado di infilare il meglio ed il peggio di una decade intera, che attraversarono da capo a piedi, senza tuttavia trovare fortuna oltre i patri confini.
Håll Andan disorienta in tutti i versi: un'inizio pacchiano, Harmageddon Boogie, ma si intende che è una beffa per preparare a dovere il pezzo forte, gli 11 minuti di Kalvdans, una selvaggia escursione nell'avant-free dei Faust, davvero mozzafiato. Come la seguente Jag Foddes En Dag, stomp acidissimo a tutta velocità che sfuma in una foschissima pseudo-ambient-library.
Il resto purtroppo non viaggia a queste coordinate, perchè il gruppo sbanda con la (seppur gradevole) ballad neilyounghiana Kopparna Ba Bordet e poi si rilassa con una giga celtica, un raga indiano ed una psych-jam minimalista. Ma se consideriamo i due pezzi forti, resta comunque un disco degno di nota.

mercoledì 25 settembre 2019

Mad Season ‎– Above (1995)

Sono molto legato affettivamente a questo disco, per quanto oggi ne riconosca il sostanziale valore artistico non certo eccelso, nel panorama post-grunge di quei mid-nineties così contrastanti ma eccitanti. La splendida traccia di apertura, Wake Up, resta indissolubilmente associata ad un flash emozionante della mia tarda adolescenza e la porterò nel cuore per tutta la vita. Si tratta di una ballad riflessiva e meditativa, scandita dalle preziose vibes, incendiata da un impennata elettrica centrale, ed infine ripiegata su sè stessa. Nulla per cui gettarsi a terra, dopo un quarto di secolo, questo è certo; Mad Season restò una specie di Temple Of The Dog mancato, vuoi per il minor successo guadagnato, vuoi per la statura inferiore dei componenti. Layne Staley aveva il suo charme vocale unico ma da lui a Cornell c'erano anni luce, Mike McReady era pur sempre la spalla di Gossard nei Pearl Jam, Barrett Martin era il batterista degli Screaming Trees, bravo ma comunque qualche spanna sotto Cameron.
Detto questo, Above contiene qualche pezzo eccellente oltre la sopracitata Wake Up, come la zeppeliniana Lifeless Dead, la stasi finale di All Alone, il lussuoso lounge desertico con cameo di Lanegan Long Gone Day; la produzione restava in linea con il top-major-grunge dell'epoca, quasi mainstream per quanto pulita, e nel complesso il disco finiva per suonare esattamente come un incrocio fra i gruppi di provenienza, alle prese con una raccolta di scarti ripresi, rilavorati ed abbelliti per l'occasione (i pezzi non citati dopotutto erano piuttosto passabili). Per questo, non resterà un capitolo memorabile, forse destinato ad essere ricordato quasi esclusivamente dagli amanti dei gruppi correlati. Ma oggi avevo voglia di tornare ai miei 19 anni, ed è stato un viaggio a ritroso davvero degno di essere compiuto.