martedì 7 maggio 2019

Umberto Maria Giardini - Live Covo, Bologna 04/05/2019


Mia terza presenza ad un concerto di UMG, e l'ingiustizia prosegue senza pietà. Soltanto un centinaio di presenze sabato sera al Covo, per la tappa casalinga del tour di Forma Mentis. Non è che si spera in un exploit di popolarità da parte sua, soprattutto alla luce di un disco spigoloso (si fa per dire, almeno nelle sonorità) che l'ha fatto perlomeno rinascere dopo le risacche un po' stanche di Futuro Proximo. Ma il fatto che non raccolga consensi resta inspiegabile, a mio parere.
Un po' si spiega anche con l'età media del pubblico, che direi aggirarsi fra i 35 ed i 40 anni. Di certo Umberto non fa proseliti fra i più giovani, ed il suo prezioso cantautoriato resta radicato in un auto-classicismo che difficilmente subirà cambiamenti traumatici in futuro. Ma non c'è problema, ce lo teniamo noi, e anche stretto. 
L'acustica del Covo, si sa, è il suo punto debole. Lo scuro tunnel non favorisce l'impasto di un set che è fragoroso. Tant'è che dopo il 2/3° pezzo, Umberto chiede al pubblico se il volume è troppo forte. Ha ragione, è vero, ma è troppo educato e sensibile per insistere, e nessuno si sente di ammettere e fare outing che sì, i volumi sono assordanti e forse non basterebbe neanche arretrare di 20 metri per assaporarlo meglio. Per cui il pubblico risponde NO, lui sorride e dice Va bene, allora andiamo avanti.
Il trio che lo sospinge è valido. Il chitarrista, ormai fido da diversi anni, è chirurgico e ne apprezziamo le piccole varianti. Il batterista picchia forte, forse un po' troppo, ma è altrettanto preciso. Il bassista fa il suo, l'unico appunto è dovuto alle sue espressioni facciali...
Umberto è il solito, infallibile mostro vocale, e graffia forte anche con le sue Gibson, soprattutto con la SG.  Il repertorio è recentissimo, pesca soltanto dagli ultimi 3 album (neanche un estratto dalla Dieta dell'imperatrice, peccato....), ed ha il suo top nell'energetica accoppiata di Argo e Materia Nera, di gran lunga il frangente più alto di Forma Mentis.  
Dopo un ora e mezza di set, usciamo con le orecchie un po' tramortite nella fredda serata bolognese. Il Covo resta sempre una leggenda dell'alternatività felsinea, e gli vogliamo comunque bene.

 

lunedì 6 maggio 2019

Primus ‎– Sailing The Seas Of Cheese (1991)

Dovessi scegliere il capolavoro dei Primus, propenderei per questo caseificico album. Perchè media alla perfezione le asprezze e le sfuriate degli esordi con l'approccio un po' più serioso del proseguio, riservando la dose giusta di sense of humour. Forse per questo motivo è il loro disco più beefheartiano, ovviamente declinato al funk-metal, ricco com'è di trovate sghembe e geniali, e contiene alcune fra le loro tracce più memorabili (Jerry e Tommy, sarà un caso che le storielle su personaggi fossero le vette?). L'affettività poi recita un ruolo decisivo: lo possedevo in C60 sdoppiata da cd preso in prestito da qualche amico, e su Indies il video di Tommy The Cat era una gag irresistibilissima. E non si fecero mancare niente, neanche la mini-suite progressive Fish On. Una meraviglia che regge fortissimo i suoi quasi 30 anni.

sabato 4 maggio 2019

Phantomsmasher ‎– Phantomsmasher (2002)

Un anno dopo il varo del progetto, Plotkin rilanciava anche col nome: da spacca-atomi a spacca-fantasmi, per un vortice ancor più azzardato, un punto di non ritorno che infatti segnò la fine di questo lato sardonico ed impazzito del chitarrista; di lì a poco avrebbe fondato il più grande gruppo doom della storia.
Svariate soluzioni pervadono Phantomsmasher, che si lancia con un inedito glitch-grind, un elettro-metal per androidi, abrasivo ma persino raffinato a tratti (le linee chitarristiche pulite, dal gusto vagamente avant-wave), un art-core venato di follia digitale. Dopo qualche ascolto molti punti restano irrisolti: ma dove voleva arrivare Plotkin? In un bilancio complessivo, forse un filo inferiore ad Atomsmasher, ma che coraggio...

giovedì 2 maggio 2019

M.B. - Armaghedon (1984 - 2012 Reissue)

Un'unica, colossale, immane, gigantesca allucinazione sonora di Bianchi, l'ultimo titolo prima della pausa di 13 anni complice la svolta mistico-religiosa, accreditata come colonna sonora per un fantomatico film mai realizzato dallo stesso. 47 minuti, il massimo consentito dal vinile riempito come un uovo, con la solita sforbiciata brutale al termine, sostanzialmente un fermo immagine di Phaedra dei Tangerine Dream elevato all'ennesima potenza, che si sviluppa per ondate intercalate. Lato A più astratto, lato B più organico con una vaga parvenza di ritmo nel finale, e che vede persino la comparsa della voce, seppur ovviamente manipolata e distorta. Poco da dire, è un suono che ipnotizza senza compromessi e ti cala in un vortice ineffabile, col punto a favore del fascino vintage della bassa fedeltà, una lezione che risuona ancora oggi in tutto il mondo.

martedì 30 aprile 2019

Zu93 ‎– Mirror Emperor (2018)

Un incontro necessario, per entrambe le parti. Tibet che continua a restare giovane cantore e torna alle sue stagioni del folk apocalittico, gli Zu del nuovo corso che scioperano, piaccia o non piaccia (Pupillo suona un basso doom solo in un pezzo, non odo tracce del sax di Mai neanche un attimo, ma potrei sbagliarmi), con la mediazione di Pilia, deus ex-machina musicale del disco con la sua acustica. Non è una somma delle parti, come scritto altrove, bensì un crocevia di tante esperienze diverse che collimano in un concept ininterrotto su questo Specchio Imperatore. Le anime sono sostanzialmente due, quella della ballad agreste-eterea e quella delle pulsioni elettroniche sinistroidi, con i due celli (Serrapiglio e Tilli) decisivi nel punteggiare i momenti più drammatici. Per Tibet non cambierà niente e forse non verrà neanche considerato in madrepatria, ma per gli Zu è un altro centro collaborativo, dopo quello con ESR ed un percorso autonomo incerto. Bellissimo.

domenica 28 aprile 2019

Screams From The List #82 - Various ‎– Pop & Blues Festival '70 (1970)

Davvero, non avrei dato una mezza cicca a questa compilation inerente un festival amburghese del 1970, eppure la List è servita anche a scoprire che in Germania, durante o addirittura prima del grande movimento d'avanguardia, c'è stata ottima musica anglosassone.
La testimonianza di questa rassegna, edita nello stesso anno dalla MCA, consiste in 8 pezzi per 5 gruppi; già scoperti i Thrice Mice (mediocri nel loro rivisitare la classica, qui come nel disco omonimo) e i Tomorrow's Gift (ottima conferma precedente a Goodbye Future, con una vocalist davvero originale nei 20 minuti torrenziali di Sound Of Which), la sorpresa principale consiste nei niciani/emersoniani Frumpy, presenti con due pezzi che evidenziano il funambolico organista francese Kravetz. Completano il quadro due band che non pubblicheranno null'altro in futuro; i Beautique Corporation, con ben 3 pezzi di post-beat di ottima stoffa, e i fragorosi Sphinx Tush, con un pezzo urticante di hard-rock rombante. La registrazione rende giustizia all'evento, rivelandosi molto fedele ed accurata. Musiche sempre giovani.

venerdì 26 aprile 2019

Andy Partridge & Harold Budd ‎– Through The Hill (1994)

Il bizzarro connubio fra Mister HB e Mister XTC, che la storia narra essere frutto dell'idea balzana di un promoter conoscente di entrambi. Altrimenti a chi sarebbe venuto in mente di farlo?
Ma certe volte nella musica, fra teste alte, ci si può intendere anche se si è molto distanti. Anche se non sono un fan degli XTC, riconosco qui la maestria di Partridge di saper arrangiare un insieme di 18 bozzetti dalle atmosfere più svariate, passando dal meditabondo all'allegro, dal sofisticato al giocherellone, dal grigio al giallo sole come se nulla fosse, fino a sfiorare un concetto di vaudeville-ambient. Divertente, per ciascuno, indovinare chi ha scritto cosa; ovvio che per me le tracce migliori siano quelle tendenti al buddismo più cinematico, ma è soltanto in un ascolto ininterrotto che meglio si può saggiare la gradevolezza di Through the Hill, che PS ha liquidato in una riga e con un 4/10...

mercoledì 24 aprile 2019

Sedia ‎– The Even Times (2006)

Secondo ed ultimo cd su Wallace del math-noise-trio anconetano comprendente un giovanissimo Mattia Coletti, due anni dopo l'esordio omonimo. Dissonanze incrociate, ritmi costipati, sincopi in libera successione, su 7 composizioni accuratamente incasinate. Un apparente progressione, dopo due dischi così, sarebbe stata piuttosto ardua a meno di non trasformarsi radicalmente: di fatto i Sedia diedero la stura con furia al ventaglio delle loro possibilità e poi si sciolsero, consci di non poter tornare indietro oppure inconsci, vista la giovane età. Even Times resta comunque un bell'ascolto catartico, per una categoria che era sì datata, ma ancora capace di dare belle, storte, cervellotiche vibrazioni.

lunedì 22 aprile 2019

Dead Kennedys ‎– Plastic Surgery Disasters (1982)

Un razzo lanciato ai 1000 km/h, con la maturità di sapere di essere grandi; questo il secondo album dei DK, con una crescita tangibile soprattutto in East Bay Ray, chitarrista sempre più cesellatore e meno grezzamente hardcore, ma anche nel basso di Flouride, pulsante e puntuale. Un disco meno epidermico di Fresh Fruit, ma più intenso a livello compositivo, registrato meglio e più omogeneo. Crescita che sublimerà soltanto 3 anni più tardi in Frankenchrist, il lavoro art-hardcore che spaccherà il pubblico (e forse anche loro stessi). E che trova le sue tracce migliori alla fine, con Dead End e Moon over Marin.

sabato 20 aprile 2019

Lightning Bolt ‎– Ride The Skies (2001)

Il divertente, esilarante e caotico secondo dei LB, ma in realtà il primo a farli uscire dall'anonimato ed a renderli un piccolo caso nell'underground noise americano. Davvero poca differenza dai successivi Wonderful Rainbow e Hypermagic mountain, che forse furono leggermente più elaborati: Ride the skies è pià che altro furia esecutiva, lobotomia sonora, lavaggio gastrico e schiacciasassi irresistibile. Fra i power-duo più schizoidi li metto una spanna dietro Hella e Usa Is A Monster, per una maggiore ossessività ed un minor eclettismo, ma resta certo che sono un espressione che difficilmente ci dimenticheremo.

giovedì 18 aprile 2019

Can ‎– Horrortrip In The Paperhouse (Live 1972)

Uno dei primi bootleg dei Can anni d'oro a circolare, messo in giro dalla tedesca Mind The Magic, una delle tante che nei primi anni '90 sfruttò un vuoto legislativo internazionale per lucrare su registrazioni inedite, che fossero di qualità o meno. Horrortrip documenta un live a Colonia nel febbraio del 1972, ed ha una qualità medio-bassa, certamente priva di fruscii ma quasi nulla sui toni bassi. Al netto di questo piccolo problema, è uno spettacolo quasi scontato: 10 minuti di Halleluwah, una versione completamente sfigurata di Paperhouse, Spoon dilatata fino a 12 minuti, Bring me coffee or tea portata al parossismo avant, ed un prezioso inedito, il tellurico e baldanzoso Love me tonight. Non è il free-concert coevo e tenuto sempre a Colonia documentato sul DVD del 2003, ma siamo a quei livelli d'intensità.

martedì 16 aprile 2019

King Of The Opera ‎– Nothing Outstanding (2012)

Smessi i panni di Samuel Katarro (e come dargli torto, pochi monickers furono altrettanto sciagurati, ma un errore di gioventù si perdona a tutti), Alberto Mariotti ha colto l'occasione e varato KOTO, di fatto un trio col batterista Vassallo ed il polistrumentista D'Elia, anche co-autore di una metà delle musiche. E non è stato un passaggio puramente formale; dopo quel piccolo capolavoro visionario che l'aveva innalzato rivelazione italiana di fine anni '00, Mariotti ha formalizzato un upgrade stilistico che potrei banalmente definire crescita: via i rusticani excursus post-blues, via le asperità vocali in favore di un canto lineare, trasognato e mai sopra le righe come in passato, dentro 9 pezzi ben prodotti, con arrangiamenti professionali, dentro un lirismo che faceva già parte delle pagine più emotive di The halfduck mistery ma reso più solenne, a tratti tronfio, ma nell'accezione più positiva che si possa dare. Al primo ascolto non mi era piaciuto, al secondo già la storia è cambiata: GD, Nothing outstanding, Heart of Town le vette, a base di una psichedelia che ha preso campo, che suona classica all'istante, per quanto Mariotti non inventi nulla che non sia il suo stile personale.

domenica 14 aprile 2019

Aerial M ‎– Aerial M (1997)

Un disco al quale sono molto legato affettivamente, di cui comprai il cd dal Pig verso la fine della naja. Trattasi del primo solista di David Pajo, che dopo le prodezze slintiane aveva militato precariamente nei Tortoise e nei For Carnation. Pur non inventando nulla di nuovo, Aerial M resterà la sua migliore espressione, dato che in seguito ripiegherà su un cantautorato non irresistibile per poi riprendere a saltare da un gruppo all'altro.
Il bello di Aerial M è che sembra un'auto-citazione di tutti i gruppi in cui era stato il texano, a ribadire la creatività, il peso e l'importanza. Rachmaninoff e Skrag Theme sembrano prelevate di peso da Spiderland, sintesi degli psicodrammi e delle arie rarefattissime di quell'immenso capolavoro. AASS, Dazed And Awake e Always Farewell ristabiliscono le arie austere e serene del primo Tortoise, nonostante all'epoca Pajo non fosse della partita. Il focus centrale del disco resta comunque il chitarrismo sognante, pigro ed evocativo, al di là del songwriting: era un cantautorato post-rock strumentale di gran classe, e fu un peccato non essere in grado di ripetersi.

venerdì 12 aprile 2019

Mogwai ‎– Kin Original Motion Picture Soundtrack (2018)

Non ripetono il miracolo di Les Revenants, ma non deludono neanche in questa quarta soundtracks maggiore (o esclusiva) i Mogwai; sono passati 5 anni dalla serie francese con cui realizzavano un exploit inaspettato, e da allora sono passati due album ufficiali (più che dignitosi) e l'abbandono di uno dei fondatori, il chitarrista John Cummings. Segnali che potrebbero nascondere qualche incrinatura? Può darsi, ma gli ex-ragazzi sembrano saldi e si danno alla fantascienza, per la pellicola Kin, e fanno un servizio espanso, introspettivo come loro sanno fare, con qualche pieno galattico, le linee di piano a condurre (ancora Burns motore principale) e la solita capacità magnetica di stregare e lasciare campo all'immaginazione. Non so se vedrò il film, ma questa categoria resta la mia preferita della loro fase anta-something.

mercoledì 10 aprile 2019

Swell ‎– ...Well? (1992)

Il secondo disco dei californiani, autoprodotto come l'esordio ma con una registrazione perfetta ed intelligente, alla vigilia dell'approdo su major con 41. All'epoca il gruppo era il quartetto originario, col secondo chitarrista Dettman, un elemento chiave che andrà perso con qualche rimpianto, anche se magari poteva non essere decisivo in chiave compositiva. Freel appariva invece come un anello marginale del suono, visto il suo canto sottovoce, monotono e quasi impalpabile, mentre un'altro protagonista era il batterista Kirkpatrick, uno di quelli intelligenti che calibra le progressioni con estrema ratio ma quando si libera dimostra sempre il suo valore.
In sostanza, gli Swell qui appaiono all'apice della loro parabola, impegnati in quella felice disarmonia fra recupero delle radici ed il suono dei college, un incrocio che in quegli anni in America troverà altre espressioni degne di ricordo (Grant Lee Buffalo su tutti). In Well? oltretutto le composizioni sono praticamente tutte valide, con le punte di At Long Last, Down, The Price e Suicide Machine. Avevano già la stoffa e la maturità per sfondare, e l'avrebbero meritato, canto a parte.

lunedì 8 aprile 2019

Nurse With Wound ‎– ? (2012 - Live 2010)

Cd-r venduto in occasione dei live italiani del 2012, e poi riemerso l'anno scorso con un'altra grafica come cadeaux ad un numero imprecisato di clienti. Immortala un'esibizione in quel di Londra nel Maggio 2010, in occasione di uno strano 25ennale di Current 93. Nonostante il basso profilo (e l'inconsistenza del rilievo che possa avere qualsiasi delle uscite di Stapleton degli ultimi 10 anni, ovvero da quando ha rotto ogni forma di argine), si tratta di una prova eccellente e testimonia il magnetismo palpabile che deve esser stato trasmesso al pubblico. 
Sul palco il quartetto di Stapleton, Potter, Liles e Waldron, più la guest vocalist Lynn Jackson, portatrice di un breve ma seducente cameo. Il set, della durata di quasi un'ora, tratta un'ottima ambient abstract-illusionistica tendente al grigio scuro (affine a Spiral Insana), mai minacciosa e compattissima fino ai 2/3 del percorso, quando i droni si sfaldano, un treno ritmico inizia a far tremare tutto attorno, una space-guitar si libra delirante ed il corno rinforza la sarabanda.

sabato 6 aprile 2019

Stars Of The Lid ‎– Music For Nitrous Oxide (1995)

Stelle atto primo, senza alcun compromesso. Un lavoro ad alto tasso dronico, molto distante da ciò che svilupperanno soltanto un paio d'anni dopo, dalle raffinatezze evanescenti di cui saranno capaci. Wiltzie e McBride, forse ancora influenzati dalle musiche che li circondavano / del loro giro (Labradford, Windsor For The Derby) pervenivano a questa formula chimica sulfurea in cui far distendere le loro sei corde con circospetto fragoroso. Con lunghezza già chilometrica ed infinita calma, raggiungevano depressioni abissali e risalivano celestiali, con la velocità con cui si muovono le montagne, ovvero ere geologiche. Musiche che sfidano il concetto di tempo, che sondano fondali minacciosi ma sanno anche concludere con una Goodnight in chiave positiva, quasi un preludio ai felici sviluppi della loro carriera, contraddistinta da una solenne serenità più affine alle loro corde.

giovedì 4 aprile 2019

You May Die In The Desert ‎– Co-Pilots (2005) + Patient Glaciers 7" (2017)

I due attuali estremi della risicatissima e discutibile discografia del trio di Seattle. Ai tempi della fondazione e della registrazione di Co-Pilots, Salter e Woods si arrangiavano con una drum-machine curatissima e sofisticata, ed avevano già forti attributi da mettere in mostra, dal punto di vista tecnico. Lo stile era quello un po' più giocoso e meno muscolare del LP d'esordio Bears in the yukon, sul quale confluirà la qui presente The writer's audience is fiction, piccolo gioiello explosionsiano in fast forward. L'influenza del quartetto texano è evidente per tutta la cassetta ma appariva chiaro che si trattava di un evoluzione soprattutto in chiave ritmica. Sull'eccezionale Harmonic Motion di 3 anni dopo appariranno versioni opportunamente rielaborate di In Case I Should Die e Let's have sarcasm for breakfast, che qui riescono comunque a fare la loro sporca figura prima dell'arrivo del piccolo grande drummer Mike Clarke. Un demo di gran lusso, in sostanza.
L'apparizione del 7'' Patient Glaciers, all'improvviso, due anni fa, è stata un piacere perchè significa che dopo tutto il trio è ancora vivo, e fa sorridere vederli dichiarare in un intervista non abbiamo più tanto tempo come una volta, ma siamo pieni di progetti e di idee da mettere in pratica. E' anche per questo che mi sono incredibilmente simpatici, i ragazzi: hanno pubblicato n. 25 pezzi in 14 anni, fanno qualche concerto e non sbrodolano perchè non fa parte del loro pensiero. I due pezzi sul vinile sono più o meno quello che mi potevo aspettare, il solito post-math-epic che non inventa nulla ma è di copyright inconfondibile, quel mix di forza e bellezza che mi conquista anche quando tutto il mondo si è voltato da altre parti. Forza YMD, datecene ancora un po'.

martedì 2 aprile 2019

Groundhogs ‎– Who Will Save The World? The Mighty Groundhogs (1972)

Incastonato fra il grande Split e il contrastante Hogwash, questo autoironico pezzo di vinile con tanto di art-work di fumetteria è un'altro vertice delle Marmotte di Tony McPhee, l'ultimo col batterista fondatore Pustelnik. La ricetta era sempre la solita, ma infallibile: blues-rock tipicamente british altamente evoluto, caracollante e con delle trovate semplici ma geniali. Fantastiche le progressioni di Music is the food of thought, Bog Roll Blues e Wages of peace. A giustificare il termine blues-prog col quale di solito vengono spacciati, le incursioni di flauto e mellotron sparse che sono sempre molto gradite e funzionali.
Un suono che meglio di così non poteva invecchiare.

domenica 31 marzo 2019

Xela ‎– The Dead Sea (2006)

Il terzo disco di John Twells, eccezionale anello di congiunzione fra gli esordi melo-glitch-ambientali e le scurissime escursioni che caratterizzeranno il proseguio di Xela da In bocca al lupo in poi. Come descrivono le note di copertina, 12 pezzi che il rosso prima uccide e poi ri-anima, con un evidente filo conduttore (concept marino, più o meno dichiarato): massiccia e decisiva la presenza della chitarra, a volte motore portante della composizione, altre abbellimento di supporto ad un campionario elettro-acustico che si dipana con straordinaria varietà. Un tragitto mozzafiato sul Mar Morto, un capolavoro emotivo di modernismo, e sicuramente il suo miglior episodio.

venerdì 29 marzo 2019

Scream From The List 81 - Patrick Vian ‎– Bruits Et Temps Analogues (1976)

Figlio di un jazzista / scrittore, agitatore del '68 universitario parigino come membro dei Red Noise (anch'essi presenti sulla List), Vian è un polistrumentista che realizzò soltanto questo interessante album di elettronica imbastardita, fra corrierismo cosmico, surrealismo melodico e fotogrammi jazz al microscopio, rigenerati in loops quasi demenziali. Il classico fare sornione transalpino al servizio di un suono svanito, assente e sfuggente, per 9 quadri mutevoli e senza un apparente filo conduttore. Non fu rivoluzionario, visto anche l'anno di uscita, ma Vian avrebbe meritato certamente un rilancio.

mercoledì 27 marzo 2019

Hüsker Dü ‎– New Day Rising (1985)

Un ritorno a formati più oculati, dopo la sbornia concettuale ed iper-stirata di Zen Arcade, che viene solitamente ritenuto il loro capolavoro (che a mio avviso resta sempre e comunque Warehouse). New Day Rising resta sempre hardcore, ma di quello altamente evoluto e rivelatorio del songwriting del compianto Hart, che emerge per la prima volta prepotentemente con The Girl Who Leaves on Leaves Hill e Terms of Psychick Warfare. E' sempre Mould a dominare però, e soprattutto a diversificare, senza lesinare episodi shockanti e fuori canone come la conclusiva Plans I Make, una dissonanza colossale. Per questo motivo non è nè il migliore nè il peggiore (se esiste un peggiore) degli HD, ma soltanto un felice album di passaggio, di ulteriore crescita, di scavallamento e di conquiste.

lunedì 25 marzo 2019

William Basinski ‎– Melancholia (2003)

14 Loops magnetici melanconici per piano, nastri, sax e refrigeratore, registrati nei primi anni '80. Così recitavano le laconiche note di cover di questa goccia nell'oceano diffuso da WB nei primi anni zero. Melancholia possiede una peculiarità che la distingue immediatamente dalle altre perle del grande newyorkese: è composto da ben 14 tracce anzichè la solita unica gigante o spezzata in due a causa dei limiti tecnici del supporto. Limiti perfettamente superabili in questo caso, tant'è che la Temporary Residence ne ha licenziato un edizione vinilitica nel 2014.
Musicalmente, è forse la prova più superba dal punto di vista tradizionalmente inteso: le sonorità sono come al solito nebbiose, sfumate, sabbiose, è purissima ambient più che altro per pianoforte liquido ed effetti, sono sempre i suoi loops ma posti in una sequenza ordinata, con un paio di richiami, è magia ipnotica come solo lui è in grado di generare. Da consumare a ripetizione, per abbandonarsi ad un oblio divino.

sabato 23 marzo 2019

American Music Club ‎– California (1988)

Il difficile terzo, un altro classicissimo degli AMC, appena un'anno dopo il mega capolavoro Engine, un paio d'anni prima del viscerale ed elegante Everclear. Un Mark Eitzel che intitola sinteticamente ma ha molte cose da dire, con la sua filosofia introversa e crepuscolare, assistito come sempre dal grande Vudi, con la produzione asciutta ed essenziale del batterista Mallon, e la slide campagnola a stridere un po' di Kaphan. Rispetto ai due sopracitati, l'approccio è più meditato, per non dire meditabondo, ma genera ancora pezzi memorabili, destinati a restare nel cuore non soltanto dei fans ma anche di Mark stesso, che non esiterà a reinterpretarli live 15 anni dopo.
Last Harbour, Jenny, Blue and grey shirt, Somewhere, Pale skinny girl sono le gemme più splendenti di una formula cantautoriale rimasta unica al mondo.

giovedì 21 marzo 2019

Audiac ‎– Thank You For Not Discussing The Outside World (2003)

Duo tedesco riconducibile al giro di Irmler dei Faust, produttore e proprietario dell'etichetta di competenza. Il loro caso è quantomeno curioso: dopo quest'esordio passeranno ben quattordic'anni prima di una replica, ed in entrambi i casi si è trattato di un gioiello di contaminazione moderna, al punto di richiamare idealmente la creatività dei loro padri.
Thank you suona incredibilmente fresco, nonostante l'ambizione: per gran parte sembra uno Scott Walker maturo che collabora coi Radiohead di Kid A ed Amnesiac, per l'appunto prodotti dal leggendario tastierista dei Faust. Ma ci sono anche tracce canterburyane, spunti prog nel senso più nobile ed una componente elettronica che non prepondera mai il senso delle composizioni, in alcuni casi di una bellezza clamorosa. Vien proprio da pensare "peccato che abbiano fatto solo due dischi in 15 anni."

martedì 19 marzo 2019

Braen's Machine ‎– Underground (1971)

Così come Armando Sciascia si fece il gruppo rock con quel gioiellino che fu Distortion, lo stesso fece Alessandro Alessandroni in combutta con Oronzo De Filippi, coautore di questo primo episodio a nome Braen's Machine. Ma a differenza del violinista abruzzese che mantenne l'anonimato anche degli esecutori, qui il chitarrista romano scese in campo alla testa di un quartetto di jazzisti, armato di sei-corde ultra-elettrica, in veste di guitar hero scatenato, con uno stile curiosamente affine a Michael Karoli dei Can.
Il disco manco a dirlo è una goduria, una sorta di hard-library sorniona e sgusciante, una specie di lounge-core didascalica ed esaltante, con i 3 musicisti a supporto non meno invasati di Fischio, (sezione ritmica a dir poco superba), come se il Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza si fosse messo in testa di lasciar perdere l'avanguardia e si dedicasse alla sonorizzazione pura e tradizionale. Nove temi saltellanti su cui si mormora abbia messo le mani anche Piero Umiliani, di sottofondo lussuoso ed urticante eleganza.

domenica 17 marzo 2019

Red Sparowes ‎– The Fear Is Excruciating, But Therein Lies The Answer (2010)

Quando andai a vederli a Bologna nel 2010, mi raccomandai con Greg Burns che non ci mettessero altri 4 anni per fare un disco nuovo dopo il capolavoro Every red heart... Oggi, dopo quasi un decennio di inattività, possiamo tranquillamente accettare il fatto che una delle migliori band di tutto l'epic-instru abbia cessato di esistere dignitosamente, senza riscontrare un calo di ispirazione ed output che al contrario ha pervaso tutti gli altri del filone. Con The Fear restavamo a livelli ancora alti, seppur inferiori al sopracitato ed al precedente At The Soundless Dawn. Se non altro bastavano due autentici manifesti e vertici come Hail of bombs e A swarm, che suggellavano un disco con qualche momento di stanca soprattutto nella seconda parte. Sempre meditativi e muscolari, crepuscolari ed energetici, riflessivi e fragorosi, i Red Sparowes hanno incarnato alla perfezione un punto d'incontro fra il post-rock ed il post-metal, forti di una line-up con elementi talentuosi e dalle provenienze più disparate. Erano l'evoluzione sintetica e personale di un incrocio fra gli Explosions In The Sky e gli Isis strumentali. Ce li ricorderemo a lungo.

venerdì 15 marzo 2019

Fabio Fabor ‎– Aleatoric Piano Collages (1970)

Album cult della prima library ad opera di un master della categoria (di lui ho già disquisito in occasione dell'altro pezzo forte della sua discografia, Pape Satan). Come da didascalico titolo, si tratta di una serie di schizzi pianistici dalla componente aleatoria molto marcata, più o meno equamente divisi fra piano preparato e normalmente suonato. Dodici numeri, tutti molto brevi come da manuale, di pura ed altissima classe sonorizzante: le atmosfere sono inquietanti, le interferenze fisiche sulle corde interne donano effetti spigolosi e raggelanti, interrotte da poche ma ben poste sonatine vagamente romantiche.
Un flusso magistrale che stranamente (o forse per motivi di diritti) non è stato ristampato; se dovessi indicare un modello di musica astratta, credo che nominerei questo capolavoro.

mercoledì 13 marzo 2019

Oxbow ‎– 12 Galaxies (2008)

Live acustico contenuto in un doppio cdr limitato, abbinato al debutto Fuck Fest, ad opera della Hydra Head, come limited edition release del tour europeo nel 2008. Le liner notes sono strambe ed a tratti incomprensibili: Eugene Robinson le chiude dicendo enjoy, perchè potrebbe non esserci più un concerto unplugged degli Oxbow.
Nulla di più falso, ESR; negli anni successivi questo formato troverà spazio nella discografia, anche se di nuovo sottoforma di cdr, con il Live at the Bam. Evidentemente 12 Galaxies (nome tratto dal locale di San Francisco dove si è tenuto l'evento, e presuppongo per davvero pochi intimi) deve aver aperto una certa breccia artistica. Ed è compensibile, perchè il quartetto fa faville e fa emergere il proprio lato più arty, senza elettricità e senza effetti. Ospite tal Kyle Bruckmann che di tanto in tanto starnazza in un oboe ed in un corno inglese, in via del tutto dissonante, segno di una joint venture probabilmente neanche concordata con largo anticipo.
Un trio di classici del passato e poi i piatti forti di Narcotic Story. Servono altre spiegazioni e/o delucidazioni?

lunedì 11 marzo 2019

Dinosaur Jr. ‎– Where You Been (1993)

L'avrò già scritto da qualche parte, ma il valore affettivo permette la ripetizione. Il primo Rockerilla che comprai (Gennaio 1993) recava i Dinosaur Jr in copertina, ai quali andava la massima esposizione in vista dell'uscita di Where You Been, loro quinto album, secondo su major dopo Green Mind. Perso da un po' Barlow, Mascis trovava finalmente il suo zenith professionale, giungendo alla maturità con un disco perfetto negli equilibri. Lasciati alle spalle gli enormi, influenti oceani di distorsione in cui annegavano le sue melodie, complice anche lo stile pulito al basso di Mike Johnson distante anni luce dallo strumming caotico di Lou Barlow, facilitato da una produzione assolutamente impeccabile (ascoltare in cuffia per credere; è un privilegio che non mi capita quasi mai, ma in questo caso fa davvero la differenza), con delle varianti di arrangiamento che spezzano i ritmi con sapienza come la letargica Not the same e la raffinata Goin home. Ovvio poi che il meglio stia nelle consacrazioni automatiche di Out there, Get Me (ricordo dell'epoca, il video su Indies, una mini-storia a base di noia e frustrazione tipicamente americana che esplode con l'assolo finale) e What else is new, roba da far invidia a Neil Young che in quel periodo guardava al mondo alternativo con molta attenzione.
Ah, l'intervista a J Mascis nel giornale era davvero curiosa; famoso per le sue risposte laconiche e monosillabiche, in realtà fu abbastanza loquace e simpatico, per quanto simpatico possa essere J Mascis. Soltanto che, rileggendola dopo 25 anni, ritengo che le domande non fossero molto interessanti da un punto di vista professionale...

sabato 9 marzo 2019

Silver Mt. Zion – Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything (2014)

La reunion dei Godspeed non ha fermato i SMZ; semmai ne ha soltanto rallentato l'attività produttiva, che al momento è rimasta a quest'ultimo, dal quale ormai è passato un lustro.
Il nucleo fondativo Menuck-Amar-Trudeau si è stabilizzato con la Moss ed il batterista Payant, e la coesione del quintetto ne guadagna. Al netto delle fasi pastorali, Fuck Off è un disco piuttosto tempestoso ed assordante. Potremmo definirlo Godspeed-core, oppure punk-prog; la prima metà del disco, con Fuck Off Get Free e Austerity Blues sugli scudi, è composta da lunghe digressioni tirate allo spasimo, i SMZ non sono mai stati così veloci ed aggressivi, eppure la componente epica classica del loro trademark prima o poi risorge e fa andare tutto in climax.
Non deludono mai neanche loro, come i Godspeed (anche se l'ultimo in realtà non mi ha entusiasmato..): sembra tutto ovvio e scontato, ed invece continuano ad esaltarci con la loro essenza, così umile e grandiosa al tempo stesso.

giovedì 7 marzo 2019

S.F. Seals ‎– Truth Walks In Sleepy Shadows (1995)

La californiana Barbara Manning è una cantante/chitarrista/cantautrice che negli anni '90 avrebbe potuto sfondare a livello commerciale: il suo indie-pop aveva il potenziale per attirare buone masse, anche se non aveva niente a che fare col grunge, e neanche tanto col college-rock. Peccato che abbia sprecato il suo talento cristallino con un animo evidentemente inquieto che l'ha portata a fondare e sciogliere gruppi a ripetizione.
Con S.F. Seals fece due album con la Matador, di certo cosciente di questo potenziale. Truth walks in sleepy shadows è un gioiellino di umile artigianato pop; la Manning, inquadrata in uno schema impeccabile, non spreca una nota nè una sequenza strutturale e sa dividersi fra numeri grintosi e ballad trasognate (forse il suo lato migliore, con le splendide Bold Letters e Ladies of the sea) con una disinvoltura notevole. 
Un disco perfetto per i primi tramonti autunnali.

martedì 5 marzo 2019

Pinetop Seven ‎– Pinetop Seven (1996)

Un vero peccato, che Darren Richards abbia mollato tutto per fare l'avvocato; davvero non me l'immagino a svolgere questa professione, uno con un animo musicale così discreto ed elegantemente rustico. Con i suoi P7 ha pubblicato una manciata di dischi folgoranti di cantautorato alt-country leggermente sofisticato, che non rinnegava le sue radici americane ma le innalzava ad uno stadio superiore, grazie anche ad una maestria di songwriting solitamente appannaggio dei grandi, nonchè per una ricerca sugli arrangiamenti da fine cesellatore.
Una carriera peraltro in crescendo, con il capolavoro assoluto The night's bloom in cima alla lista, ma forte anche di una tappa intermedia come Bringing home the last great strike. Ad inizio corsa, Richards guidava un quintetto comprendente il polistrumentista futuro Boxhead Ensemble Charles Kim, e autoprodusse il proprio debutto. Neanche un anno dopo i tizi tedeschi della Glitterhouse, sempre con le orecchie ben aperte, lo importavano in Europa per diffondere giustamente ai 4 venti una prova di classe immediata. E' roots music, in fondo, ma con quel sottile strato di sofisticazione e di velata malinconia che travalica le retrograde ottusità yankee a piedi pari. Forse arrivò un attimo tardi per il rinascimento post-folk; meritava molta più esposizione, almeno quanto un Grant Lee Phillips.

domenica 3 marzo 2019

Black tape for a blue girl ‎– A Chaos Of Desire (1991)

Uno dei vertici di Sam Rosenthal ed il suo gotico ambientale, appartenente alla prima fase più trasognata e solenne, priva delle componenti più dark che saprà sviluppare nelle fasi successive
Una piccola pattuglia di vocalist si alterna nel corso delle 12 tracce, con la maggioranza assegnata ad Oscar Herrera, forse non dotatissimo ma perfettamente calato nelle atmosfere, che a più riprese denunciano una certa influenza Dead Can Dance. La maestria di Rosenthal comunque si dipana immutata in un rosario caleidoscopico, sempre tendente al nero ma con aperture di grande ispirazione. Certo, le sonorità sono un po' datate, ma la perfezione formale è quasi assoluta.

venerdì 1 marzo 2019

Om – God Is Good (2009)

Abbiamo apprezzato la reunion degli Sleep ed anche il ritorno dei Grails, ma senza che neanche ce ne siamo accorti sono ormai sette anni che gli Om non fanno un disco nuovo, così il decennale è l'occasione buona per andare a ripescare il loro massimo capolavoro, quel God Is Good che avevamo potuto saggiare dal vivo pochi mesi dopo l'uscita. Primo disco con il grande Emil Amos e registrato come sempre impeccabilmente da Steve Albini, sorprese in positivo per il parco innesto di nuovi strumenti (chitarra, piano, flauto), contiene la suite definitiva del metal-mantra Thebes, rotolante ed ossessiva, la meditazione Mediation is the practice of death, la Cremation Ghat in due parti, divisa fra freddo dub bianco (con una parte di basso che non credevo Cisneros fosse in grado di elaborare) e splendida aria indiana, con un orchestrazione da brividi (e l'evidente mano di Amos, ormai uno specialista di queste creazioni). Tre anni dopo Advaitic Songs si porterà un po' più in là come ambizione, ma senza la necessaria lucidità per confermarsi a questi livelli.

mercoledì 27 febbraio 2019

Scream From The List 80 - Thirsty Moon ‎– You'll Never Come Back (1973)

Ensemble tedesco che fu più di una meteora, dato che realizzò ben 5 dischi nell'arco del decennio dorato del kraut-sound. Con il quale non aveva ovviamente nulla a che fare: il settetto infatti si sbizzarriva liberamente in un jazz-prog colorito ed esuberante metà strumentale e metà cantato, certamente poco innovativo ma dalle indubbie radici crucche; è un po' come quando per l'it-prog o l'it-jazz si tira fuori l'appellativo mediterraneo; io nei TM ci sento l'atmosfera dell'Oktober Fest più intellettuale che ci sia, a modo suo affine ai Grobschnitt, ma con meno prosopopea e più attenzione alle parti soliste. Molto in vista il sax e la sezione ritmica, impeccabili.

lunedì 25 febbraio 2019

Hawkwind ‎– Quark, Strangeness And Charm (1977)

Che fosse per forzatura o per decisione, nell'anno del punk gli Hawkwind non erano più i grandi dinosauri di Space Ritual e dintorni; Lemmy era stato licenziato dopo un arresto, Nik Turner se n'era andato, il gruppo aveva cambiato etichetta e Bob Calvert si era insediato in pianta stabile già dall'anno precedente. Nonostante gli eterni dissidi interni, il quintetto che dava alle stampe QS&C appariva ben coeso e dotato di un suono più asciutto ed essenziale, sintetizzato in modo esemplare nell'eccezionale Damnation Alley, punto d'incrocio perfetto fra il classico space-rock e la new-wave ancora in stato embrionale. In sostanza, le ingombranti (seppur gloriose) spirali spazialoidi di Dik Mik e Del Dettmar erano ormai un ricordo, sostituite dal talento cristallino dell'ex-High Tide Simon House, diviso fra tastiere e violino.
Preso nel suo complesso, QS&C non passerà come il loro miglior album ma appare un concentrato molto efficace nel saper distribuire acid-rock, pop abrasivo, suggestioni arabeggianti, ipnosi elettroniche e propulsioni ritmiche incessanti come da manuale. Cosa che nel 1977 non era per nulla scontato per dei dinosauri come loro.

sabato 23 febbraio 2019

National ‎– Sleep Well Beast (2017)

Ogni disco che esce dei National (e non accade spesso, ogni 3/4 anni, perchè sono saggi ed avveduti a mantenere la propria integrità) mi aspetto un tonfo, una caduta, un'incrinatura. E invece gli anni passano e loro non perdono un grammo della loro classe; potranno piacere o non piacere, ma non si può mettere in discussione il fatto che il loro status personale sia scolpito sulla pietra di quest'inizio millennio. Come tutti i gruppi più resistenti, la line-up è granitica e non perde un colpo (forte anche del fatto di avere due coppie di fratelli) ed il trademark è inconfondibile; al limite si potrà colpevolizzarli di avere poco coraggio, ma evidentemente al loro lavoro ci tengono e la 4AD è pur sempre un'azienda che deve far quadrare i conti. Non si può, a mio avviso, imputare ad entrambi questa mancanza, specialmente da quando la musica è gratis.
Sleep well beast quindi, solita classe, solita macchina automatica compositiva, ed ancora non ci siamo stancati. Bravo Berninger a rischiare con dei toni più alti, chè il suo tenore è bello ma ci sta anche gracchiare un po' più su; bravi i gemelli Dressner come sempre a trovare quelle melodie ariose che si incollano al cervello al primo ascolto, bravi a mischiare un po' le carte con un bell'innesto di elettronica (e bravo il batterista ad accettare umilmente di essere sostituito da un beat, immagino senza fare tante storie) e più di una trance situation che fa lievitare il disco fino alla title-track posta a fine corsa, che curiosamente ricorda i Radiohead di Kid A virati in electro-croonering.

giovedì 21 febbraio 2019

I.A.M Umbrella ‎– The Sound Of Shadows Breathing On Themselves (1995)

Terza ed ultima testimonianza discografica del duo californiano, e come nel caso del primo Nowhere, rilasciato da una label tedesca. Nel mezzo c'era stato il bellissimo Gift of roots and wings, rivelatorio di un suono davvero peculiare che con The Sound of shadows... trovò una specie di quadratura del cerchio. Un'ambient ritualistica, con delle connotazioni etniche ma fuori dagli stereotipi che il termine si tira dietro da più di 30 anni. Un insieme che unisce tribalismi ed astrattismi in un colpo solo, con un uso saggio dell'elettronica ed una varietà di ambientazioni davvero notevole. Meritavano ben altri riconoscimenti invece del dimenticatoio totale, nonostante le sonorità fossero inconfutabilmente di quell'era; erano davvero bravi.

martedì 19 febbraio 2019

Metal Hearts ‎– Socialize (2006)

Duo di neanche ventenni americani che nel 2006 se ne uscirono con questo album guadagnandosi la fama di un Blow Up, nella categoria riquadrini marroni del reparto Waves. L'entusiasta recensore di turno profetizzava un roseo futuro per i due ragazzetti, che invece fecero perdere le loro tracce nonostante la buona esposizione della indie Suicide Squeeze di Seattle.
Socialize è un disco scarno e scabro, ma dalle indubbie capacità melodiche. Rifiuto l'accostamento agli Arab Strap in toto, premetto, dovuto forse alla drum machine; semmai i due riescono in un'agile mix fra Pinback, Modest Mouse e l'indie rock della K Records di un quarto di secolo fa. In fondo in fondo, è un pop schietto ed intimista, semi-acustico e sostanzialmente maturo per quelli che erano dei teenagers; anche Pitchfork profetizzava su di loro, asserendo se non scopriranno la Playstation possono raggiungere i livelli espressivi di Cat Power in men che non si dica. Altro che la grandine....

domenica 17 febbraio 2019

Japan ‎– Quiet Life (1979)

Di fatto fu un nuovo debutto, dopo i due primi, interessanti ma ancora sostanzialmente acerbi, un po' retrogradi e non indicativi delle prodezze di cui sarebbero stati in grado, sia qui che col successivo Gentlemen. Fu l'eleganza innanzitutto a rivelare una nuova identità, con le tastiere elettroniche a disegnare scenari inquietanti, spiraliformi, a tratti di derivazione teutonica, come a denunciare quella componente mitteleuropea che invadeva l'animo di David Sylvian.
Qualche ingenuità non mancava, ma considerando l'età (all'epoca il nostro aveva soltanto 21 anni) dopotutto è perdonabile. Restano i capolavori: Despair, il capostipite della hyper-ballad pianistica tenebrosa ed ammaliante, In vogue, il disincanto sospinto mid-tempo autunnale-fantascentifico, The other side of life, la proto-sinfonia struggente anticipatoria delle meraviglie soliste. Dietro al leader, brillano tutti di luce propria esecutiva: un Karn eccezionale, un Barbieri polivalente per tutte le stagioni, un Jensen poliritmico, da rilevare perchè spesso sottovalutato.

venerdì 15 febbraio 2019

Lapse ‎– Heaven Ain't Happenin' (2000)

Secondo ed ultimo di Chris Leo e gentil donzella Yasuda, a riprova dell'animo inquieto di questo moderno cantore delle nevrosi metropolitane americane. Nessuna progressione particolare rispetto al precedente, soltanto una conferma del talento e più piacevole (all'epoca) perchè ormai si era metabolizzato lo split dei Van Pelt: seppur con dispiacere, ci si era messi il cuore in pace.
Due i principali tronconi che dividono Heaven: la sferzata elettrica saltellante e storta come da tradizione leoiana (spettacolari Buffet, S.o.s. e Basilico Basilica, con tanto di esilarante citazione partenopea) e le divagazioni ombrose memori dei Van Pelt (Aerial). Fra questi due filoni la Yasuda si inseriva da non protagonista, con la sua voce esile e felpata, contribuendo in modo determinante alle due anomalie dell'album, che poi alla fine ne costituiscono gli highlights: la suadente Fruit e la metronomica, splendida Hachi, con cantato in giapponese e progressione fra le migliori in assoluto di tutta la carriera di Leo.

mercoledì 13 febbraio 2019

Kraftwerk ‎– Ralf & Florian (1973)

Terzo e spartiacque. Innanzitutto il titolo del disco, che sembra una dichiarazione d'intenti: un paio d'anni prima c'era stato il turnover coi Neu!, inclusa la "vacanza" di Florian, auto-dimissionatosi per qualche mese. Come cambiano le cose: se non fosse tornato da Ralf, come sarebbe andata la storia?
R&F è quindi il primo disco suonato interamente dal duo, ed è la perfetta mediazione fra le escursioni dei primi due coni stradali e le progressioni autostradali che dall'anno successivo in poi li porteranno in orbita. Il pezzo simbolo è Kristallo: sbuffi meccanici metronomici fanno da sostegno ad elucubrazioni di spinetta. E poi i titoli di coda, con l'Ananas Symphonie, 14 minuti di distillato ambient. Non resterà fra i loro classici, ma quanta classe che distribuivano a piene mani.

lunedì 11 febbraio 2019

Keith Kenniff ‎– Branches (2011)

Secondo (ed ancora ultimo al momento, escluso l'EP Portraits) album di KK a proprio nome, uscito appena un'anno dopo l'eccellente soundtrack The Last Survivor. Branches invece si è trattato di un episodio a sè stante, non commissionato ed intestato a sè stesso in quanto a suo avviso non lo trovava calzante nè per Helios nè per Goldmund. Difficile dargli torto, in quanto si tratta di un disco piuttosto colorito in cui i sinfonismi si sposano con i glitches e le classiche atmosfere da soundtrack la fanno da padrone (suggestiva l'orchestra sintetica di Immersion ma soprattutto la vetta di Here e l'elegia mesta di Letters). Insomma, adattissimo ad un immaginario film drammatico ma non troppo, diciamo che lo immaginerei ben incollato ad un capolavoro come il cileno The Club, uno dei più bei film degli ultimi 10 anni a mio parere.

sabato 9 febbraio 2019

SubArachnoid Space ‎– Delicate Membrane (1996)

Primo (e migliore) album del quartetto californiano, uno di quegli acts che a metà anni '90 Scaruffi portava a conoscenza italica sulle pagine di Rockerilla, con quelle sue fredde e colorite recensioni che solleticavano il palato della curiosità più morbosa, salvo poi scoprire che i cd import costavano un'occhio della testa e ricacciare via rapidamente l'idea di essere fra i pionieri.
Dico migliore perchè a differenza del secondo (selvaggio ma casinista) e del terzo (controllato ma incompleto) Delicate Membrane è l'autentico manifesto di un genuino ed incessante Rombo lisergico, elaborato in presa diretta e parto di una psichedelia galattica che discendendo dai primi Pink Floyd scorrazzava in soluzioni avvolgenti e molto, molto drogate. Un album piuttosto lungo ma mai noioso, festival delle chitarre e con un appiglio ritmico pesante e dinamico.

giovedì 7 febbraio 2019

Grouper ‎– Grid Of Points (2018)

Quindi Ruins non era una parentesi, no. Quelle delicate e riverberate composizioni per piano e voce non erano lo sfogo di un periodo limitato, di un soggiorno in Portogallo; rappresentavano il debutto di un nuovo corso, che trova la sua sublimazione (e speriamo non il proprio termine) in Grid Of Points, spostando il baricentro di un personale massimalismo un po' più in là.
22 minuti appena, che sembrano ridursi sempre più man mano che gli ascolti si susseguono; Liz Harris è divina. Prolifica e puntuale per il suo primo decennio di carriera, questa volta ha aspettato 4 anni per realizzare 7 pezzi di stellare intimismo; durante la lavorazione si ammalò e fu costretta ad interrompere, ma non tornò sul materiale e consegnò il master alla Kranky, rifiutandosi di allungarne il contenuto. Liz Harris è saggia e le sue 7 nudissime ed estatiche songs risuonano come se provenissero dalla stanza di fianco. Sono di un calore e di un umanità che ha dell'irreale, che azzera totalmente lo stile espanso-stratificato che l'aveva fatta conoscere al mondo, e che aveva indiscutibilmente rivelato un talento fuori dal comune: con questo ritorno alla terra e ad una semplicità che più spartana non si può, Liz Harris compie una metamorfosi che forse non è piaciuta a molti. Essenziale, allo stato straordinario, per me.

martedì 5 febbraio 2019

Michael Mantler ‎– Silence (1977)

Era un vero e proprio organizzatore di eventi, il buon Mantler: un'anno dopo lo splendido Hapless Child si ripetè con la messa in musica di uno scritto del drammaturgo inglese Harold Pinter. Punto in comune col precedente, oltre alla sua signora Carla Bley, il buon Bob Wyatt che oltre a fornire una delle tre voci cantanti/recitanti si destreggiava alle percussioni dimostrando di sentirsi tutt'altro che vinto dalla paralisi. L'altra voce protagonista era nientemeno che Kevin Coyne; completavano il quadro il grande chitarrista Chris Spedding ed il bassista americano Ron McClure.
Trattandosi di un lavoro molto teatrale, l'unico difetto di Silence è l'omogeneità, quasi paradossale per un continuum tragico e drammatico (evidentemente il tipo di atmosfera preferito dall'austriaco) in cui 3 voci si alternano e dibattono senza mai sovrapporsi. Ma è soltanto il dettaglio minore, perchè i suoni sono quelli che ancora resistono all'invecchiamento ed in fondo stabilivano un superamento elegante agli stereotipi in declino del Canterburysmo. E poi un disco con Wyatt ha sempre qualcosa in più, c'è poco da fare.

domenica 3 febbraio 2019

90 Day Men ‎– To Everybody: (2002)

Ricordo un'intervista a traino di To Everybody, (in verità accolto con relativa freddezza come tutti e 3 dischi dei 90DM) in cui lo straordinario drummer Cayce Key riassumeva in una frase il senso dell'evidente mutazione del gruppo, e faceva più o meno così: sul primo disco sono stato narciso, volevo dimostrare la mia bravura a tutti i costi; adesso l'amalgama viene prima di tutto, ed è importante che tutti gli strumenti siano sullo stesso piano. Non è che su To everybody le sue grandi doti vennero meno, ma la metamorfosi fu traumatica rispetto ad un debutto che era già stato sensazione immediata: l'avanzata gerarchica di Lansangan, che costellava costantemente col suo piano elegante, contribuì alla materializzazione di uno splendido post-prog, modernissimo e luminoso, che mediava fisicità e cerebralismi, tecnicismi ed atmosfere crepuscolari con una maestria da instant classic. 6 pezzi per 38 minuti, neanche un secondo sprecato o inferiore; dovendo proprio citare i momenti migliori, andrei per il lungo mantra di Saint Theresa in ecstasy, divino esercizio di minimalismo che Mark Hollis avrebbe volentieri fatto suo, il minuetto con allucinazioni allegate We Blame Chicago, l'accorata e barocchissima Alligator ed il finale di A national car crash, che recupera parzialmente la foga del debutto, ma posseduto dalla nuova vena emotiva che lo rende oro colato. 
A 17 anni di distanza, il valore netto cresce, alla faccia di tutti quelli che li hanno ignorati.

venerdì 1 febbraio 2019

F/i ‎– Out Of Space & Out Of Time (1993)


Si sa ben poco di questo CD nel 1993: zero note interne, ma scandagliando la discografia si scopre che è un assemblaggio che pesca dall'LP Why not now? Alan e dallo split con i Boy Dirt Car del 1986, in seguito antologizzato nella ristampa australiana del 2001 che includeva anche il masterpiece Space Mantra. Insomma gran casino ma la sostanza non cambia: free-psych-freak-space-fuzz-rock in libera uscita galattica, in forma di jam ovviamente, dai toni scuri e minacciosi. La grinta lisergica asservita su strutture circolari, con una potenza anche ritmica inusuale per queste zone grigie.
D'altra parte gli F/i provenivano da una zona lontana dai centri nevralgici dell'arte americana, il nord del Wisconsin, e come in tanti altri casi analoghi si seppero ritagliare una propria forma (per quanto la dipendenza dai modelli degli anni '70 fosse evidente) ed espressione.