domenica 29 gennaio 2023

Julia Kent – Asperities (2015)


Nove struggenti e melodrammatici affreschi di vario impatto nel quarto album della pregiatissima cellista canadese, sulla scia del bel precedente ma con una propensione più cinematica e panoramica. Non solo il superbo arco a farla da padrone, ma anche lievi bordoni tastieristici di sottofondo ed in un caso persino un glaciale beat elettronico (la mediana Terrain, davvero straniante nel contesto). Un manifesto di austerità ma anche di un cuore grande così, sia declinato in sterminate contemplazioni che in cavalcate tempestose, con tutte le varianti che possono esserci nel mezzo. Nemmeno una caduta di tono, per un lotto da consumare senza interruzioni talmente coeso che si potrebbe definire un concept.

mercoledì 25 gennaio 2023

Muffins – Manna/Mirage (1978)

Eccellente jazz-rock strumentale di estrazione della più nobile matrice softmachiniana, ma con un tocco di personalità che fa sensazione tutt'oggi. Protagonista un'anomalia americana, questo quartetto di Washington che nel proprio essere isolato creò un caso unico. Come ha memorabilmente scritto PS, condussero un'esistenza misera e solitaria ed infatti non furono filati da nessuno fino a quando, negli anni '90, furono rivalutati un po' da tutto il mondo del settore. Ma c'è da dire che se fossero stati europei,  Manna/Mirage, il loro debutto, risalterebbe ancora oggi come un bellissimo disco di tecnica applicata alla fantasia ed all'immaginazione, componente che li fa inquadrare anche nel tag progressive (allo stesso modo dei Soft Machine o dei Colosseum, cioè molto grossolanamente). Poco vanesio e concentrato sulle elaborate strutture compositive, Manna/Mirage è imperniato su due pezzi molto lunghi, Amelia Earhart e The Adventures of Captain Boomerang, che sviluppano decine di tessiture in rapidissima successione con protagonisti gli ispiratissimi fiati e le tastiere, ma anche con una sezione ritmica spettacolare, forse alla fine della fiera l'elemento più interessante. Mai troppo tardi per scoprire questi atipici yankees.

sabato 21 gennaio 2023

Screams From The List #113 - David Cunningham – Grey Scale (1977)


Di Cunningham principalmente si sa della sua carriera di produttore e di band-leader nei Flying Lizards, una breve avventura nell'electro-art-pop-wave capace di almeno un disco notevole. Prima di tutto questo, però, il compositore irlandese esordì poco più che ventenne con questa prova d'avanguardia surreale e straniante, in cui suona in maggioranza da solo, chitarre, tastiere, violino, percussioni, con qualche contributo esterno. E' una prova che testimoniava già un notevole eclettismo: si passa da litanie semi-demenziali ad arie austere e minacciose, da precarie deambulazioni a minimalismi intenzionalmente falliti, da sketches cabarettistici a suoni acquatici (nel vero senso della parola). Necessita di qualche ascolto per essere capito, ma per l'età dell'autore era un passo piuttosto audace e maturo.

martedì 17 gennaio 2023

Fontaines D.C. – Skinty Fia (2022)


Stavo per tirare un bestemmione anglicano quando ho riflettuto un po' sull'essenza di Skinty Fia, il terzo disco dei battutissimi ed ormai celeberrimi irlandesi. Al primo ascolto non mi ha entusiasmato; innanzutitto parte male con una litania emo-indie dal titolo impronunciabile in lingua, e fatica a carburare almeno fino a metà. Qualche diversivo per fisarmonica, un semi-plagio dei Whipping Boy, un paio di cantilene un po' monotone alla Protomartyr, ed ero pronto alla stroncatura. Ma ad un certo punto arrivano le chicche, Roman Holiday, I Love you, Nabokov, la title-track, ed il livello si alza notevolmente.

Rispetto al precedente, più wave e meno punk, meno grinta e più perdizione. Ciò che resta e salva questo disco dal mio totale dimenticatoio resta l'impressione di personalità, di espressione orgogliosamente francobollata agli stereotipi storici, ma comunque vada sarà un successo (molto è merito del cantante, occorre dire, più per il timbro e l'espressività che per doti tecniche). Ma resta anche il presentimento che dal prossimo disco sarà quasi impossibile confermarsi, a meno di piccole rivoluzioni. Sarà difficile, presumo.

venerdì 13 gennaio 2023

Colin Newman – Not To (1982)


Terzo album in rapida successione per CN in meno di 2 anni, terzo centro. Una media paurosa, umanamente destinata a non perdurare, ma certo da incorniciare. Prima il fulminante A-Z a prendersi la reale eredità Wire, poi la pausa dada-sperimentale con Singing Fish (sul serio, sottovalutatissimo), e poi Not To a tornare rapidamente alla forma canzone, alle melodie spesso orecchiabili ma senza mai lesinare sulle trovate surreali, sui micro-inserti dissonanti, sulle puntine rumoriste. Disco segnato a livello produttivo dall'assenza del (fino a prima) fido produttore Mike Thorne, per una registrazione leggermente compressa ma che esaltava forse un po' di più le armonie chitarristiche (a tratti sublimi, come in Lorries, nella title-track, Remove for improvement, in Truculent Yet). E' un Newman al suo vertice artistico-espressivo, quasi da pilota automatico creativo, che però non disdegnava l'inserimento in scaletta di un tris di pezzi di fatto outtakes di Wire, in quanto co-firmati da Lewis, Gilbert e Gotobed. Si avverte comunque l'aria di fine ciclo, a posteriori facile da asserire.

lunedì 9 gennaio 2023

Harlassen – The Neckar Blues (2015)


Harlassen atto secondo, postumo. Registrato originalmente nel 2008 come seguito dell'eccellente A Way Now (sul serio, uno dei 3-4 migliori di tutta la saga Skelton), venne messo in un cassetto per essere poi rispolverato nel 2015 e rielaborato per la collana Archivial Series, una serie di recuperi vari effettuati durante una fase di stanca produttiva di Riccardo Cuor di Leone. 

Certo, chiamare queste 3 sezioni blues suona piuttosto paradossale, considerando che si tratta di preziose ipnosi droniche nella migliore scia del primo Skelton, in quel periodo in uno stato torrenziale di creazione di questo tipo di paesaggi. Fra striature di violino, bordoni galattici, tonfi percussivi, i Neckar Blues sono una seduta di musico-terapia da mettere in loop, nè emotivi come A Broken Consort e Landings, nè romantici come Carousell; semplicemente Harlassen, una meteora luminosissima della galassia Skelton, forse più lucente proprio per la sua fugace apparizione. Un recupero più che doveroso.


giovedì 5 gennaio 2023

Primus – Tales From The Punchbowl (1995)


Chiamati a confermare un successo sempre più ampio col loro quinto album, i Primus riuscirono a tenere la barra dritta e chiusero il loro glorioso ciclo iniziale. Tales fu l'ultimo disco col trio originale, a seguito del quale il batterista Alexander se ne andrà, e per forza di cose da lì in poi non saranno mai più le stesse. Il tour a seguito li portò in tour anche da noi e nell'autunno di quell'anno assistetti ad uno dei primissimi concerti della mia vita, di sicuro il primo grande concerto serio. Non ne ho un ricordo molto nitido, complice la lontananza dal palco. Però so che il mio apprezzamento nei confronti dei Primus col passare degli anni è cresciuto, e Tales non fa eccezione. Un lavoro composito, ricco di sfumature, complesso e giocoso, scuro e virtuoso, con le acrobazie e le pirotecnie sempre una goduria per stimolare chi ama la tecnica applicata agli strumenti. Ed il gusto per l'avanguardia, per il nonsense, per il paradosso, per il Capitano, per i Residents, per il teatro dell'assurdo, per la possenza di un suono tremebondo che non perde mai il proprio impatto. Eterni.

domenica 1 gennaio 2023

Smile – A Light For Attracting Attention (2022)


Signorine e signorini, a 6 anni di distanza da A moon shaped pool, ecco il nuovo dei Radiohead. Ed è il migliore da circa una ventina d'anni a questa parte.

Perchè così suona, e sfido a sindacare. Ci sono Yorke e J.Greenwood, che da sempre ne sono stati i protagonisti principali e lampanti legati da un vincolo granitico. A light for attracing attention ha le sembianze di uno schiaffo in piena faccia agli altri 3, con tutto il rispetto e la stima possibile. Prove tecniche di separazione? I tempi sarebbero stati ampiamente maturi per un ritorno della premiatissima azienda, ed invece è andata così. I due mastermind hanno preso freschezza a piene mani, il metronomico batterista Tom Skinner (bravissimo, suona come una macchina umana, nella migliore tradizione jakiliebezeitiana) e 13 pezzi che rappresentano un'autentica immersione nel classicismo radioheadiano senza dare la minima impressione di essere nè scarti nè operazioni di auto-riciclaggio.

L'operazione intera ha sapore di spontaneità, di libertà di espressione e di entusiasmo epidermico, quasi il contrario di ciò che è stato da In rainbows in poi. Innanzitutto il disco è suonato ed organico, c'è ben poca elettronica, molti archi e c'è ciò che fino ad Hail to the thief veniva loro meglio. Ci sono le languide ed ombrose ballad stracolme di spleen (Pana-Vision, Speech Bubbles, Open the floodgates, Waving a white flag, Skrting the surface), c'è il math-pop spigoloso ed arzigogolato (The opposite, The smoke, Thin Thing, A Hairdryer), ci sono le sfuriate alla 2+2=5 (You will never work on television again, We don't know what tomorrow brings), c'è persino uno squisito spaccato alla Neil Young (Free the knowledge). C'è la produzione chirurgica di Godrich, uno strumento invisibile che se non ci fosse crollerebbe tutto in polvere. Yorke vocalizza alla sua maniera migliore, Greenwood architetta con consumata esperienza e candido mestiere. Se le premesse sono queste, lunga vita a Smile; Radiohead ha dato, il re è nudo.

giovedì 29 dicembre 2022

Blue Cheer – Outsideinside (1968)

Oltrepassato il mezzo secolo di età, il 1968 dei Blue Cheer mantiene tutta la sua possenza granitica e la sua lungimiranza come un totem della musica dura di tutto il proprio futuro. In gennaio, l'ultra-ottundente Vincebus Eruptum aveva sconvolto tutti con la propria violenza. Sei mesi, Outsideinside rilanciava il fuoco ma con un'ottica appena appena più strutturata: l'opening Feathers from your tree, impreziosita da un bel pianoforte, un'armonia ariosa e degli scarti ritmici, gettava addirittura un ponte acerbo verso il progressive, ma fu soltanto un'anomalia. Il pirotecnico hard-stoner trovava nuovi inni in Just a little bit, Come and get it, Magnolia caboose babyfinger, nella cover a tutta velocità di Satisfaction. Spettacolare la performance del batterista Whaley, un tornado decisivo nell'economia di un sound fra i più compatti del proprio decennio. Subito dopo l'uscita del disco, l'abbandono del chitarrista Stephens ed il probabile ostracismo di chi non amava i loro volumi portarono il gruppo ad una svolta netta ed un declino immediato, ma la storia l'avevano già marchiata.

lunedì 26 dicembre 2022

Fucked Up – Year Of The Horse (2021)


Una decina d'anni fa ascoltai il pluri-premiato David Comes To Life e non mi piacque. Forse sarebbe servito qualche ascolto in più, ma non gli diedi la possibilità. Trovai un po' irritante il ruggito monocorde del corpulento cantante, che era l'anello di congiunzione con le origini hardcore di un gruppo che comunque si era evoluto parecchio e faceva sforzi titanici per suonare originale ed andare un po' oltre i propri limiti.

Una decina d'anni dopo, Year of the horse fa decisamente un altro effetto. Le sfuriate hardcore ci sono ed il ruggito monocorde le accompagna con la dovuta devozione, ma ormai sono solo un 30% del mastodontico output (4 pezzi per quasi un'ora e mezza). I canadesi sono cresciuti insieme alle loro ambizioni, dimostrando che la tenacia può essere costruttiva anche in mancanza di altri fattori di talento.

Quanti gruppi suonano su questo disco? Che carrellata di generi, stili e scenari scorrono? Durante l'ascolto ho perso il conto, e i Fucked Up sono degli incoscienti. Quanti rischi può accollarsi un gruppo come in questo caso, in cui si può passare da una stentorea litania piano/voce femminile ad un'aria western-plagio-morriconiana, da una minisinfonia per quartetto d'archi ad una marcetta vaudeville, da un sinuoso alt-funk ad un'escursione etno-folk, da un requiem per trombe e voci femminili ad un eccetera eccetera eccetera.

Non ho concesso neppure a Year of the horse il numero di ascolti che si meritava, ma è andata decisamente meglio di David. Il coraggio e l'ambizione vanno sempre stimati, ed anche se non ascolterò mai più i Fucked Up, ricorderò questo tomo come un episodio talmente folle da sembrare costruito con un algoritmo. 🤔​

venerdì 23 dicembre 2022

Swell – Swell (1990)


Quest'anno è venuto a mancare David Freel, cantante, chitarrista e compositore degli Swell. Il gruppo era dissolto da ormai 15 anni, ed anche lui era fermo discograficamente da quasi un decennio. Oggi entrambi i nomi sono caduti in un dimenticatoio senza speranza, e neppure questa scomparsa può riattivare l'interesse postumo attorno ad una band che nei primi '90 era stata una delle più interessanti del panorama americano indie e dintorni, ed era riuscita persino ad approdare ad una major, seppur per un solo disco.

Swell, il debutto, denotava un grande potenziale nonostante l'indecisione di fondo sulla strada da intraprendere. Lo sferzante stile roots-oriented-core che caratterizzerà le pagine migliori del futuro appare già con tutta la sua visceralità (Get High, Dan A son of god, Wooden Hippie Nice). Uno spiccato ammiccamento indie-pop quasi alla Pixies permea Stop e Ready, che mostrano tutta la validità di una registrazione per nulla scontata nell'anno 1990, già in tutto e per tutto immersa nei nineties, col suono sanguigno delle elettriche, il giusto risalto alla batteria di Kirkpatrick (sempre stato il vero protagonista del sound) e per giunta in totale autoproduzione. Accanto a questi, però, apparivano anche delle anomalie destinate a restare irripetute nel loro repertorio, come le spettrali scansioni di A town, la quadratura quasi wave di Love you all, la spiritata litania di Yes and no e soprattutto lo strumentale gothic-dark Sick half of a church, davvero straniante. Paradossalmente, chissà cosa sarebbe successo se Freel avesse perseverato nei filoni di queste anomalie, cosa ne sarebbe stato della carriera degli Swell. Non c'era da dargli torto per aver scelto la strada post-roots, ma la curiosità resterà sempre.

martedì 20 dicembre 2022

Explosions In The Sky – Big Bend (An Original Soundtrack For Public Television) (2021)


Negli ultimi 15 anni, 2 albums e 4 colonne sonore. Questo ormai sembra essere il fatale destino degli EITS, con le seconde destinate a prendere il sopravvento, vuoi per incapacità di reinventarsi, vuoi per uno sbarco del lunario confortevole, un po' come la loro musica su Big Bend. Se i Mogwai, altri assidui soundtrackers, continuano a battagliare per non perdere il filo degli albums originali, costi quel che costi, i miei adorati texani invece sembrano essersi un po' rassegnati ad essere diventati dei sonorizzatori, di gran lusso per intenderci, ma sempre servitori di una causa altrui.

Se si affronta Big Bend (neanche un film, bensì un documentario naturalistico sul Texas) come una tappezzeria qualsiasi, è di una razza pregiatissima. Al primo ascolto mi ha un po' deluso, al secondo mi ha catturato un po' di più, al terzo ho capito; è davvero importante che ci siano ancora, che ci facciano sentire a casa, che ci avvolgano con le loro buone maniere e la loro evocatività, perchè se l'alternativa fosse stato un mondo senza gli Explosions, avremmo tutti perso qualcosina. I grandi devono andare avanti, a condizione di non sputtanarsi troppo. Loro, i Mogwai, i Godspeed, ed altri, sono ancora con noi perchè lo sanno, che non devono abbandonarci al nostro destino sempre più incerto e cupo.

Big Bend non offre nessuna novità, questo potevamo immaginarcelo ancor prima di metterlo su. Ci sono momenti di grande ariosità, ci sono interlocuzioni un po' funzionali, ci sono 2-3 stucchevolezze forse ancor più funzionali, pazienza. Non ci si può ribellare al tempo che passa. Per il seguito dello spento The Wilderness non c'è fretta. Non l'hanno mai avuta, quei quattro ex-ragazzi.

sabato 17 dicembre 2022

Tripping Daisy – I Am An Elastic Firecracker (1995)


Un recupero nineties più legato al fattore mnemonico che a quello prettamente artistico. La copertina di I Am An Elastic Firecracker, con l'artista surrealista italiano Cavellini auto-dipinto di rosso, è un ricordo indelebile perchè il cd è uno di quelli che stazionarono nel negozio del Pig dall'anno di uscita fino alla chiusura. I Tripping Daisy furono un quartetto texano attivo per tutti gli anni '90 e come tanti altri della loro generazione furono candidati da una major (la Island, una delle meno peggio) ad essere lanciati su grande scala, alla ricerca di una nuova epifania commerciale. Non andò esattamente così, nonostante il potenziale fosse notevole, ma il gruppo fu tutt'altro che una meteora e terminò la propria corsa nel 2000, soltanto a seguito della morte del chitarrista, che era già tornato indie.

IAAEF ebbe tutti i numeri in canna per sfondare, col suo alternative-rock spesso ammiccante al pop, al punk melodico ed al grunge, con la produzione di grido, un buon cantante dal timbro simile a quello di Perry Farrell e qualche chicca di melodismo non distante dai Flaming Lips epoca Hit To Death in the future head (Motivation su tutte, ma anche Bang, Trip Along, Step Behind, Noose). Di certo non viene ricordato come uno dei capisaldi dell'epoca (un po' troppo lungo, 4/5 tracce mediocri si potevano scartare tranquillamente) ma ascoltarlo oggi dopo quasi 30 anni è una immersione a 5 sensi nell'aria frizzante dei nineties.

mercoledì 14 dicembre 2022

Coconuts - 2 (2022)

Senza alcun presagio, senza alcuna attesa, ecco riemergere dalla nebbia neyworkese i fantasmatici Coconuts su Bandcamp con il laconico 2, a ben 12 anni di distanza da quell'omonimo che mi aveva fatto saltare sulla sedia. Più volte, durante questa dozzina, mi ero chiesto che fine avessero fatto; più volte avevo riascoltato quel disco ed avevo concluso che no, non poteva esserci un seguito e pertanto era giusto che fosse finita lì. Invece rieccoli con un'altra mezz'ora del loro vagabondaggio zombie e di arrendevoli litanie acide, senza alcuna nota informativa se non le indicazioni tecniche di registrazione.

Il contenuto fa salire un chiaro sospetto: che la provenienza sia la stessa di Untitled. Stesso suono puntuto ed ispido di chitarra, stesso suono pastoso del basso, stessa ottundenza delle percussioni, stessa voce catatonica. Difficile pensare che siano riusciti a replicare esattamente tutti questi elementi con tale fedeltà, anche se non ho le competenze tecniche per affermarlo scientemente. Un'altra ipotesi che lo suffragherebbe è quella del buon senso: forse sarebbe stato un po' troppo, pubblicare oltre un'ora di questi mattoni in una botta sola, e così si decise di spezzarla in due, soltanto che Untitled ebbe un riscontro così risibile che Evans, Redaelli e Mitha si sciolsero e lasciarono 2 in un cassetto. Fanta-musica, di quella che mi piace tanto fare. 

Comunque sia andata, è stato giusto diseppellire queste 5 tracce. I Coconuts sono (erano?) un'espressione unica, inaudita ed incompromissoria dei nostri giorni, e probabilmente resteranno del tutto incompresi e non replicabili da nessun'altro. Io continuerò a stimarli e, ogni tanto, lasciarmi andare all'abbandono acido delle loro zombie-ballads.


domenica 11 dicembre 2022

Aphex Twin – Digeridoo + Xylem Tube E.P. (1992)


Due EP della prima ora di Richard James, per un trentennale del tutto casuale ma gradito come qualsiasi recupero storico dell'irlandese. Dopo essersi rivelato l'anno prima con i primi due Analogue Bubblebath, il 1992 fu quello della rivelazione internazionale, della sensazione europea. A Gennaio uscì Digeridoo, che fra l'altro istigò immediata curiosità: quello che si sentiva nella title-track era realmente un didgeridoo? Ma prima di tutto, per me, che cos'era un didgeridoo? In epoche pre-internet, in mancanza di informazioni reperibili su un enciclopedia, certe domande potevano restare irrisolte a lunghissimo. In realtà non c'era nessun campionamento di quello strumento etnico, era soltanto frutto della maestria di RJ alle macchine nel saperlo replicare. L'EP è ascrivibile alla categoria aphex-core, molto meccanico e serrato, quasi del tutto atonale. Era il manifesto corrente di una scia dura e pura che poi sfocierà soprattutto in Polygon Window.

Sei mesi dopo, lo Xylem Tube EP concedeva qualche panorama decisamente più tonale e di ispirazione cosmica, come nelle reminescenze Tangerine Dream dell'iniziale Polynomial-C o nelle sincopi psico-sinfoniche di Dodeccaheedron. Nel mezzo, due panzer bitorzoluti, Tamphex e Phlange Phace, danzano storti, metallici ed indecifrabili. A volte giudicare un EP è difficile perchè ci si misura con lunghezze differenti, ma questi 22/23 minuti, presi nel suo insieme fumigante, sono fra le cose migliori in assoluto mai fatte da RJ; una sintesi magistrale della sua arte scostante, fisica e cerebrale.

sabato 10 dicembre 2022

15 Anni di TM


In un sabato sera invernale, alle 23.00, (rievocando così simbologicamente gli appuntamenti di un trentennio fa delle Mental Hours) celebro con un paio di righe il quindicennale di TM. Una vita ed un attimo, il tempo di girare le spalle e poi tornare di fronte, al fronte della montagna da scalare di cui non si vede ancora la vetta, e forse non la si vedrà mai, ma finchè ci sono energie ci si inerpica. Per i molteplici significati che TM riveste nella mia vita, la voglia di scrivere non è ancora tramontata. Finchè c'è musica, c'è ottimismo e sapore dell'esistenza. Ed un saluto a chi passa di qua, casuale o causale.

giovedì 8 dicembre 2022

Current 93 – If A City Is Set Upon A Hill (2022)


Il ritorno a 4 anni di distanza da The light is leaving us all, inframezzato dai soliti capitoletti più o meno minori e sperimentali, che a sua volta era stato preceduto da I am the last of all the field, inframezzato a sua volta dai soliti capitoletti minori e sperimentali. Forse non riuscirò mai ad analizzare a fondo la discografia di David Tibet come essa meriterebbe, ma sono sicuro che concetti come la ciclicità e la ricorrenza sono di grande impatto e rilievo. If a city is set upon a hill intanto se ne sta lì estatico e bucolico a confermare che C93 sta continuando ad invecchiare bene, benissimo, e sforna dischi a fuoco, omogenei e preziosi. Squadra che convince si cambia pochissimo: ancora dentro il raffinato pianista Van Houdt, il chitarrista Roberts, il polistrumentista Liles, il ghirondista Brown, la violinista Boada. Di nuovo nessuna percussione, si lavora più per sottrazioni, si costruiscono docili e fragili impalcature, il focus è questa forma immortale di art-folk da camera che Tibet evolve ormai da tanti anni, il risultato finale è sempre subordinato ai collaboratori di turno e l'eccellenza è servita e perseverata. If A City...., Clouds At Teatime e ...Is set upon a hill, gli estremi ed il centro esatto della scaletta gli episodi da incorniciare. Ecco un altro concetto che scommetterei essere cruciale: la simmetria. Lunga vecchiaia a Tibet.

lunedì 5 dicembre 2022

Codeine - Frigid Stars (1990) (2012 Reissue)


Compie 10 anni il cofanetto tombale When I See The Sun, che celebrò la reunion dal vivo per chiudere definitivamente un'esperienza che non avrebbe potuto generare altra musica, come ben declamarono in un intervista di qualche anno prima. Una delle cose che mi ha incuriosito di più dell'operazione è stata scoprire che tutto il loro repertorio è stato integralmente composto da Immerwahr; Engle non ha mai scritto neanche una nota, e neanche Brokaw, che fra l'altro nel corso della sua carriera poi è stato anche un chitarrista. Era evidente che il bassista fosse l'anima fisica della band, ma non pensavo fino al punto di esserne l'unico compositore.

Il mio recupero del cofanetto si focalizza sul debutto Frigid Stars, un disco che fece rumore e diede i natali allo slow-core. Per quanto abbiano ridotto la questione alla necessità di inserire un elemento ottundente nella loro musica, l'importanza di questo disco è incalcolabile; forse gli Slint non lo ascoltarono, ma Spiderland incluse rallentamenti ed esplosioni chitarristiche che qui provocano brividoni su Cigarette Machine, a mio parere il vero manifesto dell'album.

Gli ho sempre preferito The White Birch, per una serie di fattori: su Frigid Stars la produzione non è eccelsa, soprattutto sulla batteria, troppo riverberata, che non rende giustizia alla performance calzante di Brokaw. Il songwriting di Immerwahr è un po' debitore di Neil Young, e per quanto la questione BPM compia la rivoluzione, a volte le melodie sono leggermente stucchevoli. La loro arte della lentezza necessitava di evolversi, e non avrebbe tardato molto a spiccare il volo con la betulla bianca.

Ben 10 i bonus allegati alla reissue, e non poco contrastanti; uno dei top assoluti del repertorio, Castle, fu lasciato inspiegabilmente fuori. Skeletons, lanciato a velocità supersonica, è uno stomp che fa la figura dell'intruso, ma è gradevole. Corner Stone è un plagio neilyounghiano, Summer Dress e Kitchen due rilassate ballad acustiche che non c'entrano molto col contesto. Il resto sono versioni demo di pezzi in scaletta, a volte interessanti e a volte meno. In sostanza, un'operazione chirurgica che andava assolutamente effettuata, perchè nel bene e nel male i Codeine restano un pezzo di storia americana che non va mai dimenticata.

venerdì 2 dicembre 2022

Screams From The List #112 - Henri Chopin – Audiopoems (1971)


A questo non avrei dato neanche un centesimo. Già il titolo non lasciava presagire nulla di buono, Audiopoems, faceva pensare a quei dischi di spoken word che fanno addormentare dopo neanche un minuto. Ed invece. Chopin, ardìto sperimentatore parigino del dopoguerra, più che un poeta un iconoclasta, un impavido manipolatore della parola e del suono. Armato di microfono, registratore e forse qualche effetto (un peccato che non ci sia una lista delle apparecchiature utilizzate, sempre che ce ne siano state!), porta qui in scena un crudissimo recitato, fra il surreale ed il tenebroso, il concretismo ed il teatrale, con punte quasi di power electronics ante-litteram (New Departure). 50 minuti di follia pura, interessante anche se non si conosce il francese, che può incuriosire ed affascinare anche chi ama il Demetrio Stratos solista per la ricerca pura del suono attraverso le corde vocali. Ristampato in Cd-r dall'attentissima Creel Pone nel 2010.

martedì 29 novembre 2022

Barzin – Voyeurs In The Dark (2022)


Ogni tanto pensavo chissà che fine ha fatto Barzin, forse avrà messo su famiglia, si sarà trovato un lavoro regolare ed avrà smesso di fare la fame e di restare un perfetto sconosciuto, così ordinario e fuori dai circuiti, così classico ed obsoleto. Sono passati ben 8 anni da To Live alone in that long summer, in cui il canadese ha fatto una colonna sonora (nel 2020, sinceramente me la sono persa) e null'altro, ma chi apprezza il suo finissimo artigianato sa che il nostro ha bisogno di tempo e di estrema calma per concepire le sue trasognate ed autunnali ballads. Voyeurs in the dark non fa altro che ripetere questo piccolo miracolo, a dimostrazione che questa magica matrice deve soltanto far decantare ciò che produce. Un disco che peraltro non lesina sulla qualità degli arrangiamenti, a volte persino esuberanti per il suo standard. Se devono passare così tanti anni fra un album e l'altro, ben venga il lavorare con lentezza.

sabato 26 novembre 2022

Church ‎– Priest = Aura (1992)


Smaltita la sbornia del successo di Under the milky way, i Church si ritrovarono a maggior agio in una situazione di minor pressione e minori aspettative da parte dell'industria. Priest = Aura viene definito da Steve Kilbey il loro indiscusso capolavoro, io non la penso altrettanto ma siamo da podio. Gli anni '90 furono sicuramente il loro habitat naturale più congeniale; una produzione più aperta, più panoramica favorì lo sbocciare dei loro impasti chitarristici e del songwriting. Ripple, Lustre, Paradox, The Disillusionist, Old Flame, Film denotavano uno stato mentale (molto oppiaceo, a detta delle bios) introspettivo ed espanso, che mai e poi mai avrebbe rinunciato alle loro essenziali melodie imbevute di spleen, mai così vicine ai contemporanei Cure. Manifesto della maturità espressiva; tagliando 3-4 pezzi superflui ed inferiori sì, probabilmente sarebbe stato il loro capolavoro.

mercoledì 23 novembre 2022

All Sides – Dedalus (2007)


Disco oscurissimo scoperto su Opium Hum, che a volte col suo gusto per la estrema sintesi riesce ad essere più attrattivo di qualsiasi approfondita recensione. Trattasi di Nina Kernicke, una chitarrista tedesca attiva soprattutto nella seconda metà del decennio Zero e poi molto più sporadicamente (l'ultimo prodotto risale al 2016). Dedalus è uno strumentale di gelido magnetismo e fascino notturno, fra elettronica scabra, gotico intimorente e post-psichedelia (più volte sembra affiorare la lezione dei grandi mastri d'inizio Kranky, Labradford in primis, ma anche le derive isolazioniste dei primi Main). La riuscita generale del disco sta nella varietà di proposte dei singoli pezzi, a volte insistentemente ritmati ed altre tangenti l'ambient statica, ma senza mai eccedere in una direzione. Davvero interessante, e pazienza se mi sono occorse così tante parole. In fondo potevo citare OH e sarebbe stato sufficiente.....

domenica 20 novembre 2022

Motörhead – Orgasmatron (1986)


Il disco preferito di PS dei Motörhead, nonostante tutto. Nonostante la line-up non fosse più quella storica degli inizi (leggere la cronistoria dei cambi diventa quasi divertente, dal punto di vista di Lemmy), nonostante il periodo storico particolare, nonostante il fattore ripetizione fosse ormai una certezza e trovare differenze iniziasse a diventare una questione maniacale. Tutte questioni di pelo nell'uovo che con i Motörhead non hanno molto senso. Orgasmatron fu il settimo irresistibile treno in corsa, irrefrenabile, con le due chitarre in sincrono, la batteria pestona, Lemmy a fare Lemmy e qualche pezzo memorabile (Nothing up my sleeve, Built for speed, Doctor Rock, Ridin with the driver) sugli altri, con la paludosa title-track a fare da diversivo in chiusura. Serviva altro? Direi proprio di no.

giovedì 17 novembre 2022

Duster – Duster (2019)

Non è che mi sia stracciato le vesti alla notizia del ritorno dei Duster, a 19 anni di distanza da quello che si era rivelato il loro canto del cigno. Immagino che la cofana retrospettiva della Numero Group d'inizio 2019 abbia giocato un ruolo chiave nella rifondazione del trio californiano, che ha fruttato poi verso fine anno quest'omonimo, sorprendentemente buono; nulla di rivoluzionario, anzi, forse funziona per la propria integrità ed attaccamento ai modelli originali (meno Bedhead, decisamente più Acetone ed in certi casi persino vicini ai primi Calla), ricalcati con fedeltà come se il tempo non fosse passato ma con un una dote compositiva davvero buona (Lomo, Chocolate and mint, Letting Go i migliori). Qualche divagazione ai limiti dello space-noise, qualche accelerata sparsa ed il tag slow-core che sguscia come un'anguilla nel calderone, pazienza. I Duster oggi hanno ancora un senso; restano un nome minore ma per gli appassionati sono come una coperta di Linus a cui attaccarsi in certi frangenti della vita.

lunedì 14 novembre 2022

Liars – The Apple Drop (2021)


I segnali di buona forma per Angus Andrew c'erano già stati con l'atto primo post-divorzio con Aaron Hemphill, quel TFCF con cui sembrava tirare le somme di una carriera importante in chiave sardonica, beffardo come sempre ed autocitazionista come pochi. Un album più che buono ma era chiaro che per il futuro sarebbe servito qualcos'altro, e quattr'anni dopo eccolo materializzarsi con The Apple Drop, uno dei dischi complessivamente più riusciti dell'intera saga Liars.

Ecco anche il motivo per cui (a parte eventuali contrattualistici, la sigla resta sempre su Mute) Andrew di fatto ha ricostituito un gruppo, con il batterista dei Pivot ed il chitarrista Deyell, in pratica due mestieranti che hanno dovuto umanizzare ciò che aveva concepito in solitudine. Sistemato l'aspetto tecnico-produttivo, resta la sostanza: TAD è il disco di un personaggio che si è guardato allo specchio dopo diverse sbornie, si è scoperto un po' invecchiato ed ha deciso di fare sul serio, virando sul "classico" e lasciando molto meno spazio del solito agli aspetti surreali del proprio output.

Prendiamo i pezzi migliori del lotto: Slow And Turn Inward, Big Appetite, From What The Never Was, sono carichi di uno spleen esistenziale che farà felici gli orfani dei migliori Radiohead, poco da dire. Quando le atmosfere si fanno più opprimenti, si scorge una scorza quasi gotica in Acid Crop, My Pulse To Ponder, Star Search, Sekwar, con l'elettronica relegata a cornice e non più alluvionale come in passato, fino a quasi far perdere i connotati originari dell'australiano. E verso il finale, una chicca vintage-pop come King of the crooks che avrà fatto morire d'invidia Bradford Cox. Una scaletta costruita con sapienza, con la giusta alternanza di stili ed umori, che sa di classicone a lungo termine, di big swindle: Andrew non ha mai inventato nulla e mai inventerà altro che il proprio personaggio, in apparenza un po' cazzone ma tremendamente serio in fatto di scelte.

venerdì 11 novembre 2022

Black Heart Procession – 1 (1998) (2017 Edition)


Una ristampa autoprodotta, in edizione limitatissima, in vista del ventennale di un disco che ancora oggi come allora mi commuove e mi strugge l'animo. Breve cronistoria: nel 1997 Jenkins e Nathaniel uscivano con l'ultimo 3MP, venivano lasciati dalle rispettive ragazze e presi da una infinita tristezza si mettevano a comporre canzoni funeree e straboccanti di cuore. La Headhunter li supportò e fece uscire One, registrato con il supporto del batterista Mario Rubalcaba, un concittadino proveniente dalla scena post-hardcore Gravity e dintorni. 

One è qualcosa che all'epoca non si era mai sentito, nel panorama alternative. Poteva ricordare Nick Cave o Tom Waits, ma suonato con un'arrendevolezza ed un'umanità che non aveva precedenti. E metteva in mostra i talenti cristallini che la animavano: la voce atipica ed emotiva di Jenkins e soprattutto le doti strumentistiche di Nathaniel, creatore di splendide armonie al piano ed all'organo. The Waiter, Release My Heart, Bluewater/Black Heart, Square Heart, In A Tin Flask, le gemme più sopraffine.

La ristampa ha portato alla luce due outtakes rimaste nel cassetto, ed incluse forse più per dovere di cronaca e per ingolosire i fans, perchè effettivamente non c'entrano un granchè col mood generale del disco. The Look in my eyes e Lower infatti sono due tracce ritmate ed atmosferiche, con un basso molto profondo, quasi ai confini col dub. Tuttavia, nonostante l'evidente stato di work in progress, rappresentano un filone mai approfondito ma assai interessante.


martedì 8 novembre 2022

Matt Christensen – I Know What The Fight Is (2017)

Per quanto rappresenti un modello vintage nel suono e nello stile, MC è perfettamente in linea con i tempi e con i modi degli artisti più fieramente liberi da ogni condizionamento e dagli schemi del panorama musicale; la sua discografia Bandcamp lievita mese dopo mese ad un ritmo irrefrenabile, e la lista supera ormai le 150 unità. E' chiaro che pubblica qualsiasi cosa registri. Allora tanto vale, come regola comune, basarsi sulle uscite fisiche, perchè con ogni probabilità avranno come minimo una cura sopra la media di quelle solo digitali. Almeno, in teoria.

I know what the fight is segue di un anno il divino Honeymoons, ed indugia su quel modello a dispetto di una registrazione meno limpida: strutture pigre, l'illuminata chitarra dal sapore desertico, le minimali e strascicate nenie vocali, il supporto ritmico di qualcosa che somiglia ad un double bass e percussioni spartane, col santino degli ultimi Talk Talk sull'ampli ed il flusso di coscienza che scorre come acqua fresca, senza alcun limite che non sia il proprio animo e la propria dimensione.

Il disco ha 7 tracce, non molto dissimili fra di loro, alcune terminano in fade out perchè potrebbero non avere fine. Il consiglio, se ci si vuole avvicinare al mondo di Matt Christensen, è di lasciarsi andare completamente e di prenderlo quasi come un sottofondo. E' fra i più immacolati e polverosi allo stesso tempo che possano capitarci fra le orecchie.

sabato 5 novembre 2022

Jethro Tull – Benefit (1970)


Il perfetto/imperfetto disco di transizione, fra le indecisioni di Stand Up e le rivelazioni di Aqualung, con il decisivo ingresso di John Evan a colorire con eleganza il songwriting di Ian Anderson che si faceva adulto fin dall'inizio con la splendida With you there to help me e con il vertice Nothing to say, il pezzo più sensibile e serioso del lotto, probabile seme decisivo per le pagine più memorabili degli anni a venire. Martin Barre si ritagliava qualche faretto isolato, ma non per questo meno incisivo e brillante. Fra le melodie più ariose, irresistibili For Micheal Collins, Jeffrey and me, A time for everything, Play in time. 

Non tutto il disco gira a meraviglia, va detto; alcune composizioni mostrano la corda, indugiando in un modello troppo legato alla stagione del folk inglese e procurando un po' di tedio. La ristampa in cd di una ventina d'anni fa includeva anche 4 bonus tracks, anch'esse pallidine a parte la grintosa Teacher, che fu pubblicata come singolo per una probabile marchetta al mercato hard-rock, ma si fa apprezzare ugualmente.

mercoledì 2 novembre 2022

MX-80 Sound – Hougher House (2021)

 

La morte di Bruce Anderson nel gennaio scorso ha gettato un'ombra sinistra su Hougher House, nonchè lo sconforto (mio) per quella che presumo significhi la fine di questa band a dir poco storica. Davvero improbabile l'ipotesi che Stim e Sophiea proseguano la loro magnifica avventura senza questo fenomenale chitarrista che ha marchiato come una cometa l'espressione di una band criminalmente ignorata, e citata soltanto da pochi protagonisti di fama mondiale (Steve Albini su tutti, ma anche Sonic Youth e Swans).

A 6 anni da So Funny, un curioso episodio che indugiava su atmosferiche venature electro-pop, gli MX-80 (i 3 fondatori + il chitarrista collaboratore di lunga data Hrabetin + il figlio di Sophiea alla batteria) sono andati nella stratosfera con Hougher House, una suite di 38 minuti in due versioni: The Story, dominata da un monologo di Stim, e The Music, ovvero lo strumentale, un capolavoro sulfureo che suona come un lungo, tempestoso, requiem elettrico. Articolato su alcuni temi che si riprendono ciclicamente, è un immancabile showcase di un Anderson (senza però dimenticare il prezioso supporto delle altre due chitarre di Hrabetin e Stim) concentrato più sull'arpeggio e sugli accordi, limitandosi ad un paio di brevi assoli. 

E suona quasi come una metafora della vita, come fosse l'ultima, fulminea impennata vitale che precede la morte.

martedì 1 novembre 2022

The Cure - Live Unipol Arena, 31/10/2022






A distanza di 26 anni il mio fratellone ed io ci siamo recati a vedere i Cure, e l'emozione non è stata di certo inferiore a quella dell'epoca. C'è poco da dire, l'equazione Professionalità + Voglia = fa sempre grande spettacolo, a favore di un pubblico (in un Unipol murato di gente, leggo che può arrivare a contenere 20.000 persone) la cui età media suggerisce la riflessione che non c'è stato un ricambio generazionale nella legione dei fans. E ti pare; se non fai un disco da 15 anni, vivi di concerti e ristampe e te ne freghi di tutto il resto, è chiaro che vivi di rendita, per quanto dorata sia. Anche noi (legionari) dopotutto ce ne freghiamo e se la vita ce lo consente, ci gustiamo lo spettacolo.

Arriviamo presto, sul biglietto c'è scritto che inizia alle 19.00 e puntuali arrivano gli scozzesi Twilight Sad. Il primo pezzo mi sembra interessante, ma già al secondo mi sovviene un parere impietoso: sono terribilmente mediocri, con l'aggravante di un cantante in possesso di uno stile che io chiamo arrotondato, tutta enfasi e poco talento. Mi fermo qui perchè non sarebbe giusto infierire. Ce ne andiamo a bere una birra e aspettiamo che finiscano.

Alle 20.15 i Cure entrano alla spicciolata. Sapevo già del rientro di Bamonte, che se ne starà immobile nell'angolo sinistro per tutto il tempo, in gran parte ad una chitarra difficilmente percettibile, ogni tanto ad una tastierina ancor meno. Un po' di ruggine da togliersi addosso, o una necessità di riprendersi il palco con gradualità? Bentornato. Gabrels, maglietta nera e occhialini tondi scuri, farà spesso il gigione, con l'aria di divertirsi da morire e di fare la sua cosetta con fare vagamente annoiato. Gallup, capello da rockabilly, motore perpetuo a fare il solco da una parte all'altra, a 62 anni con le ginocchia d'acciaio inossidabile, e a perpetrare il suo stile immortale. O'Donnell, ormai vicino ai 70 anni, imperturbabile ma forse il più divertito di tutti, a fare le frasine, lanciare le mani in aria e lanciare occhiate scherzose a Gabrels. Cooper, rialzato di un metro abbondante, a fare il metronomo infallibile. Devo dire che l'ho rivalutato parecchio, curiosamente perchè in un paio di pezzi (Burn e Push, forse i più impegnativi) sul maxischermo alle loro spalle venivano proiettate le immagini prima di fronte e poi alle sue spalle da una camera ravvicinata, e ho dovuto ammettere che il suo stile è davvero potente e solido. Vedi cosa vuol dire l'esposizione diretta.

Per ultimo Robert Smith, che si fa una bella passerella osannato, mano sul cuore, trasudante la proverbiale umiltà che l'ha reso una leggenda vivente. Stupisce la brillantezza vocale che a 63 anni non è più così scontata, ma è evidente che si trova in grande forma (mi sembra anche dimagrito rispetto a qualche anno). La stessa passerella se la farà a fine concerto, dopo due bis, ma un po' più lunga per ringraziare il pubblico, passandosi una mano sull'occhio, non si sa se per nascondere una lacrimuccia di commozione o altro. See you again, ecco la chiave di tutto: la voglia di performare ed emozionare la legione ha sempre il sopravvento su qualsiasi altro fattore. La voglia di divertirsi, di fare un po' di quelle pantomime appena abbozzate che lo rendono irresistibile, di snocciolare quelle risatine mai sforzate, senza mai e poi mai sembrare spocchioso o superficiale. E pazienza se quando parla (non lo fa spesso) non si capisce niente. Qualcuno ride, noi ci guardiamo con un pizzico di rimpianto, allarghiamo le braccia e pensiamo sia una battuta divertente.

Il concerto dura due ore e mezzo, le maratone di un tempo forse non è più il caso di farle. Ci sono i 4 inediti del fantomatico nuovo disco (che si preannuncia molto dark....) che sono già stati ampiamente diffusi online, e lo sostengo in tutta franchezza: non sono irresistibili. A parte la buona I could never say goodbye, retta da un giro impressionistico di O'Donnell, sembrano dei lunghi (anche troppo) flussi di coscienza ipnotici e circolari che chissà, magari nel disco funzioneranno meglio. Presi così, fra una colonna e l'altra, non fanno una gran figura. Mi hanno ricordato quella cassetta che fecero nel 1992, Lost Wishes, che conteneva una manciata di strumentali che non andavano da nessuna parte. Speriamo. Per il resto, è sicuramente una scaletta che non riserva sorprese, pagando un buon dazio alla trilogia: 3 pezzi da Seventeen Seconds (monumentale la resa di At night, per me il top della serata), 2 da Faith, 3 da Pornography. Da Disintegration soltanto le 3 hits, grande spazio a The Head On The Door. Zero assoluto post-2000, soltanto 2 pezzi dal 1993 ad oggi. Un set molto poppy, ma suonato con energia inesauribile, con un pezzo dietro l'altro, pause fulminee, con Cooper che spesso batte il 4 mentre Smith e Gabrels si stanno ancora cambiando le chitarre.

Pecca della serata, un grave problema tecnico che è affiorato a più riprese, un'insopportabile saturazione dei bassi che è rimbombata da metà concerto fino a raggiungere l'apoteosi durante l'esecuzione di Faith, rovinata al punto da far esitare Smith nel canto. E' stato davvero deprecabile vedere questo tecnico che si infilava nel palco un paio di volte con fare compassato, dribblava i musicisti e brancolava fra ampli e strumenti alla ricerca del problema. E per fortuna che il problema è stato disinnescato, ma davvero voto zero a chi ha avuto la responsabilità, una cosa del genere a questi livelli non può mai accadere.

Un aficionado posizionato in prima fila nel parterre ha ripreso integralmente l'evento e l'ha già postato stamattina, per cui sarebbe inutile che mettessi qualche nostro video. E' una ripresa con una prospettiva inevitabilmente limitata, ma il suono è di buona qualità. Si trova qui. E davvero, speriamo di see you again.

domenica 30 ottobre 2022

Fishmans ‎– Uchu Nippon Setagaya (1997)


No, non mi illudevo di trovare qualcosa di simile al diamante Long Season, perchè la scheda di PS è stata fin troppo chiara: i Fishmans erano un gruppo pop a tutti gli effetti, cresciuto per cercare il successo e compiacere il pubblico di casa. La storia racconta che non ci arrivarono e furono brutalmente costretti al finecorsa per via della prematura morte del cantante, ma questo è un altro discorso. Intanto il successore di Long Season tornava a modelli compositivi più standardizzati, ma metteva comunque sul palco una band che, pur confinata in una produzione molto mainstream, riusciva a coniugare il proprio spirito libero e rilassato con composizioni genuine e accattivanti senza essere troppo zuccherose come il j-pop più canonico. La ragione è semplice: erano ottimi musicisti e trovavano soluzioni armoniche ricercate. Dream-pop, trip-hop, funk, dub-reggae, soul, pop sinfonico, quello dei Fishmans era un citazionismo-situazionismo brillante e sofisticato. Vien quasi da ipotizzare che ci sia stato un motivo per cui non sfondarono presso il grande pubblico trasversale: a pensarci bene, questa è musica adulta anche per noi occidentali.

giovedì 27 ottobre 2022

Part Chimp ‎– Thriller (2009)


I possenti PC al terzo album, degnissima chisura di un trittico micidiale prima di un lungo iato che li vedrà tornare soltanto nel 2017. Il precedente I Am Come li aveva rivelati come i campioni britannici di un noise-rock monolitico e bruciante; Thriller rallentava i ritmi, andando spesso a sfiorare un passo doom, in un ottica quasi melvinsiana, ma senza l'ombra di una minima ironia. E' un disco concettualmente melmoso e cattivo, ma con una cura del suono impressionante; le chitarre sparano granito puro, l'ottimo batterista si erge protagonista con uno stile non dissimile da quello di Dale Crover, i pezzi si susseguono con omogeneità creando muri di tensione velenosa: Sweet T, Tomorrow Midnite, Starpiss i più avvincenti. Se il loro percorso si fosse concluso qui, non li avrei comunque dimenticati.

lunedì 24 ottobre 2022

Bay – Alison Rae (1995)


Secondo ed ultimo album del duo Jason Taylor-Aidan Moffat, con quest'ultimo immortalato in una foto che forse a rivederla lo imbarazzerebbe un pochettino. Rispetto all'esordio dell'anno precedente non era cambiato un granchè, al limite un miglioramento nella produzione, qualche chitarra fragorosa in più e qualche impennata ritmica (che dimostrava anche il progresso di Aidan alla batteria). Il cantautorato di Taylor, per quanto derivativo fosse, era comunque in buona forma e i numeri di livello non mancano in scaletta: Ruptured, Dutch, Siamese, A Great Red Shark, In Lisa's Living Room, denotavano uno slow-core di indubitabile derivazione RHP, sotto tutti i punti di vista, e quindi riservato agli strettissimi amanti del genere. A riascoltarlo oggi, dopo tanti anni, non nascondo che la sua qualità mi ha sorpreso, a dispetto anche della durata (insieme ad Alison Rae è presente un secondo CD per voce e chitarra acustica, niente male anch'esso); Jason Taylor avrebbe meritato un proseguio anche se non se lo sarebbe filato nessuno, ed invece finì per rosicare nei confronti di Moffat, a suo dire colpevole di avere esportato lo stile Bay negli Arab Strap. Bah....

venerdì 21 ottobre 2022

Radiohead - Kid Amnesiae (2021)


Vent'anni sono un lasso di tempo adeguato per voltarsi ed analizzare la doppietta con cui i Radiohead sconvolsero il mondo, critico e non. Il mio parere è che restano due grandi, ottimi dischi, ma sostanzialmente sopravvalutati in chiave storica; il quintetto di Oxford non inventò nulla di nuovo se non esso stesso, con una buona dose di coraggio ma anche una visione mirabile, degna di ricevere il massimo riguardo. Il box set ad essa dedicata, pur in assenza di rimasterizzazione (e diciamocelo, non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, vista la qualità produttiva, praticamente impossibile da migliorare), ci dona un extra-cd chiamato Kid Amnesiae, il vero centro focale dell'operazione. Di fatto un album di remix incentrato su un drappello di estratti, ma fatto dannatamente bene ed in affascinante soluzione di continuità: Like Spinning Plates, Morning Bell, Fast Track, How To Disappear from strings, in versioni notevolmente differente rispetto agli originali, ne escono con un figurone. Gli inediti sono contrastanti: le 3 Untitled sono brevi cuscinetti di raccordo, seppur ottime. Mediocre Follow Me Around, una ballad appartenente più alla genetica pre-Ok computer, mentre sbaraglia tutto il resto If You Say The Word, giustamente lanciata come singolo: un pezzo ombroso, fosco e dolente (oserei dire i Can in purgatorio....) nel miglior trademark che non c'avrebbe azzeccato un granchè inserito nei due album, ed infatti il suo destino è stato quello di finire sotto le luci della ribalta dopo un ventennio. Meglio tardi che mai per qualcosa che finisce dritto dritto nel best of  personale.