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Sono un loro fan dal 1994, amai alla follia i loro ultimi 3 dischi. Poi lo split inevitabilmente me li fece cadere un po' nel dimenticatoio, e alla lettura della notizia della rimpatriata non è che fossi rimasto così colpito. Invece...bam!, ed ecco qua un disco da botta assoluta. Ne scrivo anche perchè ho letto solo stroncature, e mi sono sembrate molto affrettate e poco analitiche.
L'unica cosa obiettiva è che i Polvo sono rientrati ed è cambiato poco o nulla. Ma di fronte ad una dimostrazione di freschezza tale, ne siamo assolutamente contenti. C'è un nuovo batterista, Quast, ed è un ingresso che giova parecchio, in quanto potente e più versatile dell'originario, il che si riflette sulla qualità del sound d'insieme. Ci sono ancora le grandi songs, ovviamente i caleidoscopi infiniti delle chitarre di Bowie e Brylawski, le strutture intricate e i controtempi immersi in deliziosi pentoloni melodici.
Già l'attacco è da cardiopalma: la massiccissima Right the relation mette in mostra un gruppo divinamente ispirato e galvanizzato da una ritmica poliedrica come non mai. Come se i pezzi fossero stati scritti nel 1998 e lasciati ad invecchiare in botti di rovere come un vino esclusivo, il songwriting mantiene intatta la magia dei Polvo: è un mix di melodie a presa diretta, d'impatto da canticchio ma con gli scarti melanconici, gli squarci panoramici e le parentesi rilassate.
Come in D.C. Trails, tranquilla digressione in multi-umore. L'accostamento al prog che si faceva su di loro trova sempre il proprio fondamento, per la complessità degli schemi. Beggar's bowl è infuocato e drammatico psych-hardcore. City Birds ritrova la quiete grazie agli influssi orientali, rendendosi protagonista di un indian-indie dalla catarifrangenza accecante.
Ci si aspetta che il disco perda di tono ed intensità dopo la metà, ed invece arrivano le cartucce migliori. Lucia è forse il pezzo più bello che abbiano scritto in assoluto, prototipo di artigianato finissimo sotto tutti gli aspetti, la perfetta pop-song deviata che ti si incolla dentro, inserti noise compresi. E le emozioni continuano con Dream residue work, complicata elaborazione perlopiù strumentale nella cui magia è impossibile non perdersi. The pedlar sembra un outtakes di Exploded Drawing, non fosse per quel synth che punteggia il chorus. E il finale di A link in the chain è ancora un panorama da elicottero sul grand canyon, raggi chitarristici che rendono la temperatura rovente ma con zero umidità.
Continuano ad essere unici al mondo e ci auguriamo che non ci facciano aspettare altri 12 anni per un altro episodio di polverizzazione.
E' ancora il 1996 e ne siamo molto contenti.
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