giovedì 1 luglio 2010

Polvo - In Prism (2009)

A volte è veramente difficile resistere alle tentazioni e questa volta ho ceduto. Fino ad oggi pomeriggio l'intenzione era di scrivere qualcosa su Cor-crane secret, il loro primo del 92. Alchè l'ho messo su, ho sentito un gruppo con grandi idee ma ancora acerbo e con una batteria un po' debole, e ho detto No! Voglio parlare del clamoroso rientro dell'anno scorso, voglio scrivere di ciò che ho ascoltato di più negli ultimi 12 mesi.
Sono un loro fan dal 1994, amai alla follia i loro ultimi 3 dischi. Poi lo split inevitabilmente me li fece cadere un po' nel dimenticatoio, e alla lettura della notizia della rimpatriata non è che fossi rimasto così colpito. Invece...bam!, ed ecco qua un disco da botta assoluta. Ne scrivo anche perchè ho letto solo stroncature, e mi sono sembrate molto affrettate e poco analitiche.
L'unica cosa obiettiva è che i Polvo sono rientrati ed è cambiato poco o nulla. Ma di fronte ad una dimostrazione di freschezza tale, ne siamo assolutamente contenti. C'è un nuovo batterista, Quast, ed è un ingresso che giova parecchio, in quanto potente e più versatile dell'originario, il che si riflette sulla qualità del sound d'insieme. Ci sono ancora le grandi songs, ovviamente i caleidoscopi infiniti delle chitarre di Bowie e Brylawski, le strutture intricate e i controtempi immersi in deliziosi pentoloni melodici.
Già l'attacco è da cardiopalma: la massiccissima Right the relation mette in mostra un gruppo divinamente ispirato e galvanizzato da una ritmica poliedrica come non mai. Come se i pezzi fossero stati scritti nel 1998 e lasciati ad invecchiare in botti di rovere come un vino esclusivo, il songwriting mantiene intatta la magia dei Polvo: è un mix di melodie a presa diretta, d'impatto da canticchio ma con gli scarti melanconici, gli squarci panoramici e le parentesi rilassate.
Come in D.C. Trails, tranquilla digressione in multi-umore. L'accostamento al prog che si faceva su di loro trova sempre il proprio fondamento, per la complessità degli schemi. Beggar's bowl è infuocato e drammatico psych-hardcore. City Birds ritrova la quiete grazie agli influssi orientali, rendendosi protagonista di un indian-indie dalla catarifrangenza accecante.
Ci si aspetta che il disco perda di tono ed intensità dopo la metà, ed invece arrivano le cartucce migliori. Lucia è forse il pezzo più bello che abbiano scritto in assoluto, prototipo di artigianato finissimo sotto tutti gli aspetti, la perfetta pop-song deviata che ti si incolla dentro, inserti noise compresi. E le emozioni continuano con Dream residue work, complicata elaborazione perlopiù strumentale nella cui magia è impossibile non perdersi. The pedlar sembra un outtakes di Exploded Drawing, non fosse per quel synth che punteggia il chorus. E il finale di A link in the chain è ancora un panorama da elicottero sul grand canyon, raggi chitarristici che rendono la temperatura rovente ma con zero umidità.
Continuano ad essere unici al mondo e ci auguriamo che non ci facciano aspettare altri 12 anni per un altro episodio di polverizzazione.
E' ancora il 1996 e ne siamo molto contenti.

(originalmente pubblicato il 17/02/2010)

Nessun commento:

Posta un commento