sabato 31 luglio 2010

Danse Society - Heaven is waiting (1983)

Non tanto per inventiva, ma quanto per eleganza e ottime doti di songwriting, questo quintetto inglese avrebbe meritato senz'altro una maggior visibilità e perchè no, anche successo. E pensare che questo disco uscì su major; pare che la loro breve carriera sia stata contrassegnata da litigi continui con tutte le etichette con cui ebbero a che fare, che storicamente sono mazzate assassine sulle teste delle bands. Il filone era quello in piena voga del wave-dark tastierato ed epico, e i DS erano molto bravi nell'equilibrare le varie componenti senza essere ruffiani come invece furono i Mission, nè troppo lubugri nè minimamente pacchiani.
Il cantante Rawlings modulava con le classiche inflessioni scure del genere, ma aveva un timbro abbastanza alto per distinguersi. Il tastierista Scarfe aveva la maggior visibilità ed un ottimo gusto per le tessiture, nonchè sulle parti pianistiche, elementari quanto incisive. Arie maledette fin dall'iniziale Come inside, fatalismo che si taglia col coltello. Wake up però vira verso un ballabile funk solare col chitarrista Nash in bella evidenza, con susseguente contraltare inquietante in Angel. Letteralmente incantevole la pastorale Where are you now, elegiaca orchestrazione per frase chitarristica, piano e fiati splendidamente arrangiati.
Ossessioni pulsanti in The seduction, scalini rollanti nella title-track e in The hurt. Unico neo del disco, l'inutile cover dei Rolling Stones, forse una spinta della label, chi può dirlo. Erano abbastanza vicini ai Modern English, seppur più soft. Qualche reminescenza degli ultimi Bauhaus o dei contemporanei Echo & The Bunnymen si sente, ma questi ragazzi avevano un gran bel gusto e lavoravano molto bene sulle partiture.

Current 93 - Nature unveiled (1984)

Potrebbe essere davvero molto scontato, ma lo storico debutto in proprio di Tibet è quanto di più vicino si possa identificare con una concezione sonora di inferno, oltre che tematicamente vicino ai rituali pagani ed occultistica varia. Certo è che fu il prime-mover della scena industrial a sperimentare pesantemente a livello vocale, supportato quasi sempre da Stapleton e altri artisti del giro inglese che lo aiutavano anche nelle prime, ultra-carbonare esibizioni dal vivo (e posso immaginare le reazioni di un pubblico preso alla sprovvista...).
Nature unveiled fu stampato in 1000 copie e conteneva un movimento a lato. Ach Golgotha è un impressionante collage per ugole sataniche deformate, effetti percussivi sparsi di lastre di metallo, bleeps trivellanti e cadute continue nel vuoto. Mystical body of christ in chorazim stempera le tensioni assurde del primo lato privilegiando una dispersione di pulviscolo sinfonico buio pesto, eccetto il finale intarsiato da un suono simile alla sega a nastro.
La ristampa Durtro di una decina d'anni dopo incluse qualche frattaglia da 7" e cassette del periodo, e sono episodi più surreali e misurati come The burial of the sardine equilibrata collaborazione con NWW e la tribale Lashtal + Salt, ipnotica digressione più verso la luce.
Poi le preziose registrazioni di due live: Amsterdam dicembre 1984, in quintetto, dieci minuti di reale orrore con Maldoror rising. Brighton, qualche mese prima, ancora più caustico e vocalmente deformato, col solo supporto di un batterista.
Attenzione, carboni ardenti....

venerdì 30 luglio 2010

Cure - Bloodflowers (2000)

Ciò che difficilmente perdonerò a Ciccio è l'aver svilito l'entità meglio definita come "il mito della mia prima adolescenza" con i due ultimi, orribili dischi. Anzi, a voler essere cattivelli si potrebbe dire che è da una ventina d'anni che artisticamente i Cure sono morti e si ripetono con stanchezza e prevedibilità estreme. Wish era rosso infuocato, Wild Mood Swings sbandava in manierismo e faciloneria, (ma alla fine c'erano sempre quelle 2-3 perle memorabili a testa...) degli ultimi due obbrobri ho già detto. Nel mezzo ci sta questo qua, che per me rappresenta l'istantanea, il prototipo della maturità di Ciccio (nel caso in cui esistesse una specie di questo concetto per lui, che invece sembra passare dall'infanzia alla senilità con la capriola di una formica). In Bloodflowers c'è un uomo conscio dei propri limiti, della perdita di ogni tipo di inventiva che non vada oltre alle sicurezze stampigliate in lungo e in largo. C'è un uomo tranquillo ma sempre in preda alle proprie inquietudini personali ed inter.
C'è un compositore composto ed equilibrato che azzecca grandi songs per metà abbondante del disco, nonostante le novità stiano a zero. Strumentalmente i ritmi sono lenti e il ritorno di O'Donnell si fa sentire con belle prove di pianoforte e tessiture nebbiose di synth.
Ciò che fa pendere il pollice verso l'alto di Bloodflowers sono una manciata di pezzi degni di entrare in un ipotetico canzoniere definitivo di Ciccio: il maelstrom ossessivo di Watching me fall, undici minuti di saliscendi emotivi tiratissimi (a memoria, un modello precedentemente inutilizzato). La serenità malinconica del motivo caracollante di Where the birds always sing è di una cristallinità rigenerante, doppiata felicemente dall'altrettanto splendida The last day of summer e da quell'Out of this world che disincantata apre elegantemente il lotto.
Un segnale inedito a livello commerciale fu che si decise di non rilasciare singoli pro-classifica. E la cosa ancora più paradossale è che il potenziale candidato sarebbe stato senz'altro Maybe someday, che così diventa il miglior hit mancato della carriera; è il perfetto equilibrio fra pop, non ruffiano, grinta e classico Cure-style, ed ha nella progressione finale uno dei classici momenti spleen da pelle d'oca che si dissolvono quando vorresti che continuassero per altri 10 minuti.
Se la seconda metà fosse stata come la prima, saremmo stati quasi da top5. Ma non è così e purtroppo la sordina ci assale inesorabilmente. Dopo due pezzi davvero insipidi (There is no if e Loudest song), 39 vorrebbe essere il punto gotico-sinfonico ma gira senza lasciare troppe tracce. Alla title-track tocca sigillare tutto con 7,5 minuti di grande enfasi che forse nella testa di Ciccio si ispiravano ai modelli finali dei bei tempi andati (Pornography, specialmente nel finale). Peccato che sia un evanescente buco nell'acqua, così ci accontentiamo di quanto di buono ci è stato propinato prima, e ne facciamo tesoro.
Tanto Ciccio andrà avanti per altri 20-30 anni e non speriamo neanche che ci faccia un regalino ogni tanto.

giovedì 29 luglio 2010

Cromagnon - Orgasm/Cave Rock (1969)

Come mancanza di ortodossia, i Red Crayola di Parable of arable land al confronto sono dei fraticelli cappuccini. A 40 anni di distanza, però, occorre ammettere che la ESP Records era veramente il prototipo dell'etichetta coraggiosa e sprezzante di ogni giudizio, chè non oso pensare come sia stato accolto un prodotto del genere.
L'unico brano che abbia una parvenza musicale canonica è l'iniziale Caledonia, che, dopo un intro per samples di banda e fischi di audio generator, è una sarabanda per tamburi, cornamuse e voci gutturali incarognite (e già siamo ben fuori dai generis). Per il resto Orgasm è praticamente il reality show audio di una tribù di primitivi, che uno ad immaginarselo non si avvicina minimamente a quello che è il disco.
A fronte di questo, occorre ammettere che i Cromagnon furono decisamente avanti. Urla belluine, percussioni di qualunque tipo, danze tribali, versi animali, suoni concreti, etc. Ad eccezione del synth di Fantasy, del proto-industrial di Toth Scribe And I e delle masturbazioni chitarristiche di First world of bronze, uniche testimonianze del fatto che si era nel dopoguerra anche se immerse nel solito contesto triviale/da evoluzione naturale.
Non ci fu un seguito, ed è facile immaginare anche il perchè. In quanto al rapporto osticità/periodo, Orgasm è stato uno degli esperimenti più radicali di sempre.

Crescent - By The Roads And The Fields (2003)

Punto di partenza, la lezione dei Talk Talk di Laughing Stock. Se i Bark Psychosis di Hex ne avevano generato una versione gentile e romantica, i Crescent di questo capolavoro hanno realizzato una variante ancora più free, slegata da qualsiasi dogma o corrente di tendenze del decennio appena trascorso.
A modo suo, il leader Jones si inventa una collezione sottilmente lo-fi, quasi pigra nello svolgimento, all'apparenza fragilissima e con qualche inflessione jazzata, in grado di affascinare anche dopo ripetuti ascolti, che oltre alle songs ha il suo punto di forza nella strumentazione ricca e pennellata con creatività. La sua voce è un tremito incerto e appena soffiato sul microfono.
Nonostante il primo titolo in scaletta sia la splendida Spring, il clima sembra parecchio autunnale, se non da camino in sala. Sembra proprio che sia stato registrato in una piccola stanza, con strumenti da 4 soldi (chitarrine, organetti, bonghi e percussioni di fortuna) quando non subentra un bel contrabbasso nobile (la divina Straight Line), o un bel paio di fiati fantasiosi che fanno tanto slow-jazz fumoso in coppia con la batteria spazzolata, nella chiusura stellare di Structure and form.
Fountains è il pezzo più completo ed arrangiato, al punto che sembra una festicciola al confronto delle scarne elucubrazioni di New leaves e Mimosa. C'è qualche punto di contatto con i contemporanei Cerberus Shoal, specialmente per qualche tratteggio etnico, ma laddove gli americani peccavano di eccessiva dispersione, qui i bristoliani sguazzano nella fresca rugiada di un sound avvolgente, degnissimi eredi delle ultime concessioni di talento infinito di Mark Hollis (che se per caso avrà ascoltato, sono sicuro avrà apprezzato).
Una splendida passeggiata.

lunedì 26 luglio 2010

Helios Creed - Superior Catholic Finger (1988)

Come scriveva un illuminatissimo Piero sulla sua scheda dei Chrome, senza il freno controllore di Damon Edge, il folle HC è pericoloso tanto quanto Fidel Castro che tiene un discorso a Cuba.
Ebbene, dopo il debutto grezzo e monotono di X-rated fairy tales il chitarrista perveniva al suo capolavoro, un disco concentratissimo (neanche 30 minuti di durata, e quindi ancora più pregno di sensazioni), febbricitante e torrenziale espansione di anima violenta e percossa da scosse sismiche lisergiche.
L'intro di Monster Lust è un collage psicotico di rumori industriali e nastri al contrario di chitarre acustiche (notabile la ripresa della title-track del disco precedente), di fascino e magnetismo assoluto. Almeno fino a quando Creed non parte col suo suono noise-cyber inconfondibile e la ritmica compatta e compressa, compresa la seguente Mustard dog, a salmodiare l'acid-punk di cui è stato inconfutabile inventore negli anni d'oro dei Chrome.
Il lento cingolato robotico della title-track è una diabolica emissione sulfurea; quando Creed parte con i suoi deliri solisti è sempre una liquefazione spaziale. Ancora space-punk con Too-bad e la violentissima Weekends, le scorie industrial-mediorientali (?) di The bridge, il dark sintetizzato di Who Cares, il capolavoro sperimentale di The cookie jar con le sue digressioni pseudo-funk, gli atolli di flanger e le saturazioni di nastro.
Seguiranno tanti altri dischi, in cui Creed faticherà non poco ad eguagliare i risultati incredibili di questo, ma con il classico ed unico trademark su cui ha costruito la propria iconica carriera.

domenica 25 luglio 2010

Cranioclast - Iconclastar (1992)

Duo tedesco che prende (prendeva? come al solito info inesistenti in rete...) il suo inquietante nome da un anacronistico attrezzo chirurgico, in attività prevalentemente negli '80 e i primi '90, realizzatore di lavori cupissimi e siderali. Questo disco usciva per l'italiana ultra-underground MMM, ed è davvero un viaggio nell'ignoto. Seppur le similitudini coi corrieri connazionali siano inesistenti, trattasi effettivamente di ambient cosmica ma rigettata nei bassifondi, ritualistica e con rumorismi industriali assortiti. A parte le propulsioni sfigurate di techno-meccanica di Leather Jacket, Iconclastar è improntato su drones profondi ed innestati su bui satelliti in viaggio verso nuove galassie. Notevolissimi in tal senso gli 11 minuti di Astronaut. Solarium movimenta le acque stagne con un riff minimale di synth-bass mentre in sottofondo succede di tutto. Particolarmente spiccata la propensione ad inserire bleeps con frequenze molto alte sui bordoni, in modo da creare una discrepanza sonora che mette curiosità costante.
Spettrali.

giovedì 22 luglio 2010

Cop Shoot Cop - Release (1994)

Dai gloriosissimi nineties nella grande Mela, un'altra grande band indimenticata e vittima delle avide majors (nella fattispecie la terribile Interscope) che posero troppe pressioni sui nostri beniamini, fra i massimi espositori dell'invivibile metropoli e delle sue follie.
Del quintetto capitanato dal bassista/vocalist Ashley restano comunque un poker secco di album in progressione, a partire dal primo rovinosissimo Consumer Revolt, con una crescita musicale (non mi piacerebbe proprio definirla concessione ad un accessibilità maggiore) che li portò a questo signor disco che è stato Release.Chiaro che il fattore noise puro e duro veniva smussato e la produzione era davvero eccellente, ma la cattiveria di fondo restava. I CSC erano diventati un gruppo di blues efferatissimo, quasi un aggiornamento dei Birthday Party, e a tratti somiglianti ad un altro fenomeno contemporaneo come i Girls Against Boys. Avevano aggiunto un chitarrista (McMillen, comunque abbastanza defilato) al quartetto classico con doppio basso (Ashley+Natz) batteria eclettica (Puleo) e samplers (Coleman).
Un poliziesco irresistibile con tanto di fiati come Last Legs ricorda parecchio il primo Cave, così come la malsana fosca Ambulance Song e la tesissima The divorce. Gran parte del disco si concentra comunque sui massicci granitici in mid-timing di Interference, It only hurts when I breathe, Turning inside out, Suckerpunch con punte di accessibilità in Two at a time, Any Day now. Il blues-metal di Slackjaw avrebbe fatto un figurone sul contemporaneo Betty degli Helmet. C'è solo una pausa di riflessione, non a caso Lullaby, la si direbbe una ballad disperata per via del piano soffuso, salvo il fatto che la ritmica pesta come un elefante in cristalleria.
Ashley proverà a battere lo stesso ferro caldo con i Firewater, ma ottenendo risultati inferiori.

mercoledì 21 luglio 2010

Contrastate & Tiger Lilies - Goodbye great nation (1997)

Un connubio alla Mission It's Possible, fra due progetti distanti come il sole e la luna, ma dal risultato a dir poco eclatante. Un EP di 20 minuti per questa London-Connection fra i grandi e dimenticati Contrastate (puntatine precedenti) e i Tiger Lilies, band che non ho mai sentito in proprio ma viene definita di dark cabaret o anarchic castrato blues.
Dunque, blues non mi sembra proprio (siamo sul folk europeo, piuttosto), anarchic lo si capisce fin dalle foto, castrato perchè il loro vocalist Jacques è in possesso di un tono vocale acuto al punto che fino ad oggi ero convinto che fosse una donna!
Goodbye great nation è un melting pot dei due stili, separati o sovrapposti che siano, e l'effetto è assolutamente qualcosa di inedito e spiazzante. E' una free-suite in cui le escursioni termiche sono altissime, da colpo secco. L'argomentazione è una presa in giro colossale alla famiglia reale inglese, casualmente proprio all'inizio dell'anno che vedrà la morte di Lady D. Questa la sua cronistoria:
1) Si parte con un drone catacombale di Meixner & Co., col recitato di Grieve e i vocalizzi fonetici squadrati di Jacques 2) Frase di 3 accordi scarni di chitarra e violino bassissimo, il vocalist sempre in evidenza con i suoi gorgheggi quasi operistici 3) Brevissima fase di terrore, con schizzi di urla e campanoni 4) bordone da navicella spaziale, brevi interventi dei TL 5) loop di montaggio industriale, effetti inquietanti di dubbia natura fino allo spegnimento della macchina 6) i TL partono alla grande con una ballad frizzante dall'ampio respiro, di sapore sixties-vaudeville.
7) la voce di Jacques auto-campionata in loop ripresa da un paio di episodi precedenti 8) tornano le disturbate frequenze elettromagnetiche dei Contrastate, mentre sotto il vocalist gagliardamente si accompagna con l'acustica alle prese con un'altra ballad accennata.
9) Latrare di cani in lontananza, fade out. Fine.
Filed under cosa, una roba così?

Paolo Conte - Un gelato al limon (1979)

Rientra nella schiera di quei personaggi "che vorrei approfondire ma non ne ho mai trovato il tempo", ah, la mancanza di quelle 50 ore al giorno che dedicherei ad ascoltare musica mi consuma e mi esenta dal trovare perle persino in generi che non uso masticare come il Conte, che pur essendo famosissimo si è sempre distinto per classe e signorilità.
Il classico caso di artista che si fregia di uno stile così personale ed unico da potersi permettere di fare sempre le stesse cose vita natural durante. E non a caso è amatissimo anche all'estero.
A 40 anni suonati faceva il terzo album e non era ancora al suo apice di successo ma già realizzava classici irresistibili come Bartali o la title-track. Arrangiamenti asciutti di gran classe già vintage ai tempi e strumentisti raffinati alla base, Conte si ritaglia una figura unica: la voce non eccelsa tecnicamente, bensì teatrale e interpretata con quell'indolenza magnetica che fulmina e cattura l'attenzione. Per non parlare dei testi eccezionali, rime geniali e pillole di filosofia spicciola quotidiana. Da questa decina di pezzi estraggo come highlights, oltre ai due sopracitati, la rarefatta apertura di La donna d'inverno con i suoi accordi sospesi di piano e la sommessa Uomo camion.Il mio preferito è lo splendido Angiolino, dalla doppia faccia melanconica / sorniona nel cambio da strofa a chorus, con tanto di assolo di bouzouki e gran bel suono viscido di basso, ed un testo di surreale inno all'amicizia da incorniciare.
Naturalmente, in stile.

martedì 20 luglio 2010

Compulsion - Comforter (1994)

Discreto gruppo irlandese attivo nella prima metà degli anni '90. Diciamo che se i Pegboy erano nella serie A del punk melodico, questi erano cadetti ma candidati alla promozione.
Lo stile era estremamente semplice ma per nulla ruffiano, non avevano quasi nulla da spartire col marciume pop-punk che stava esplodendo in tutto il mondo. Non erano molto dissimili dai conterranei Therapy? che proprio in quell'anno ammorbidivano notevolmente il loro sound con Troublegum, ma avevano un punto debole nel vocalist Josephmary, davvero poco dotato. L'iniziale Rapejacket è uno dei loro anthem migliori, con ritmica serrata e disperazione di fondo a rendere onesta l'espressione, ripetuta da Accident ahead. Della più immediata Mall monarchy ricordo un video scarno su MTV, sarebbe potuta diventare un hit, soltanto che erano su One Little Indian, che seppur rispettabile era sempre un indie-label.
Peccato anche che non si siano concentrati sugli aspetti alternativi al punk, che su Comforter costituiscono le vette espressive. Le fragorose digressioni indie-rock di Ariadne e I'm John Brain potevano quasi rivaleggiare con i Catherine Wheel.
Ma curiosamente alla fine le perle sono quelle che i 4 inserirono quasi come divertissment, ovvero due strumentali: Late again è un compassato ed azzeccatissimo jingle, letteralmente irresistibile. Dick, Dale, Rick and Ricky è un surf-western avvincente e passionato, e già la combinazione dice tutto.
Due piccoli capolavori che da soli fanno meritare una nicchia di memoria per questi mediani irlandesi.

lunedì 19 luglio 2010

Coil - Horse rotorvator (1988)

Il disco più popolare del duo inglese, forse, in cui non trovo poco o niente di industriale, anzi, non capisco veramente perchè siano sempre stati inquadrati in quel filone. Forse per la militanza di Christopherson nei Throbbing Gristle o per le costanti partecipazioni di Balance a Current 93, perlomeno negli anni '80. Ciò che odo qui è un elettro-dark movimentato e variopinto, ricco di soluzioni anche se non sempre ispirate al 100%. I synth e i ritmi meccanici sono protagonisti dell'iniziale, marziale Anal Staircase, nonchè della beffarda Slur. Per l'appunto, certe sonorità riconducibili all'industriale affiorano in quà e in là, ma è comunque lo svolgimento abbastanza lineare dei pezzi che rendono il prodotto più accessibile.
Quando ci si formalizza sull'esotico, però, vengono fuori le cose più interessanti, come la lussureggiante Ostia (death of Pasolini), ricca di violini e harpsicord, piccolo gioiello di barocchismo mitteleuropeo, doppiato da Who by fire e The first five minutes after death.Ma non si esimevano certo dallo sfoderare le zampate acide di zolfo: le chitarre abbrutite e il ritmo da catena di montaggio di Penetralia, punteggiate da fiati dissacranti. Le grotte robotiche di Ravenous, i cabaret grandguignoliani di Circles of mania e Blood from the air, tese a creare atmosfere surreali e per nulla rassicuranti nonostante un certo appeal melodico che non faticava a galleggiare in superficie.
Lussuriosi e dannati.

domenica 18 luglio 2010

Coconuts - Coconuts (2010)

Per gli stomaci forti e ben foderati al riparo da ogni tipo di ulcera sonica, le noci di cocco in questione sono una delle novità più originali ed estremiste di questa prima metà del 2010.
Trattasi di un weakness-trio di australiani trapiantati a New York, evidentemente l'unico luogo al mondo che possa sopportare (?) le loro litanie angoscianti e acide. All'ascolto iniziale l'artista che mi era venuto in mente era il primissimo Sun Araw, ma dopo diverse analisi mi sono reso conto che questo sound malatissimo d'oltretomba ha una peculiarità tutta sua, non facilmente rintracciabile (almeno alle mie orecchie) in qualche altra formazione passata.
E' un incubo sotterraneo performato da zombies. E' un suono totalmente privo di globuli rossi, ma non è inumano per niente. C'è una chitarra acidula in perenne delirio sull'orlo di feedbak e gorgoglii impietosi. C'è un basso fuzzato e ultra-minimale, poi ci sono un tom e un timpano, uniche forme di percussione e fautrici di ritmi anemici e moviolati.
Non c'è traccia di violenza nei Coconuts: infatti la voce è un lamento anemico a tono, quasi un timbro soffice che stride con l'assurdità del suono. Tutto irrimediabilmente riverberato, proprio a dare l'idea della profondità, di un sound che sembra provenire da sottoterra. Tutto con greve sentore di debolezza, di arrendevole abbandono, di spettri dalle forme indefinibili.
Saremo in 4 o 5 a filarceli, perchè chiunque si avventurerà in questi cunicoli si affretterà ad indietreggiare verso l'entrata, ripugnato.
Senza speranza.

Cloudland Canyon - Silver Tongued Sisyphus (2007)

Non male queste due facce, e curioso il background: un chitarrista tedesco militante in una band stoner-rock e un fiatista americano facente parte della sezione di un combo rhythm'n'blues, incontratisi per caso, davano vita ad un progetto di estremo tributo ai classici galattici tedeschi degli anni '70, con il patrocinio della Kranky.
Silver è un EP di trenta minuti, due tracce di uguale durata. L'unico aggiornamento con meno di 30 anni può essere la messe di glitches e manipolazioni di tapes che infestano l'inizio di Dambala, statico insieme di drone galattici per la prima metà. Quando tutta la nebbia si dissolve arrivano le note di un piano minimalistico a cui ben presto si aggiungono stratificazioni di synth bucolico. Se non è un outtake dei Tangerine Dream di Alpha Centauri, poco ci manca.
Peccato che siano passati quasi 40 anni. Si spera in qualche news nella title-track, perlomeno per l'arrivo della batteria. Intro ambient per moog e piano rhodes, molto suggestiva, poi la ritmica in loop, una chitarra distorta in sottofondo, coro solenne quasi baritono (si direbbe abbassato al mixer), Silver Tongued Sisyphus è un escursione space-rock non particolarmente memorabile.
Merce esclusivamente riservata ai fanatici del genere, vista la ben poca presenza di interventi personalizzati.

venerdì 16 luglio 2010

Clouddead - Clouddead (2001)

Anche questo nasce dalla curiosità di svangare nella classifica dei best del decennio di Blow Up: almeno 5-6 firme hanno inserito questo disco e allora ho pensato, bè lo snobbai per prevenzione quando erano pompatissimi e perchè non sentirlo ora?
Prevenzione perchè io ho sempre detestato il rap, o hip-hop o come lo si voglia chiamare. Sono allergico a quella che definisco, più che musicale, una forma di intrattenimento messa in atto da poseur che snocciolano rime all'infinito, senza pressochè alcuna velleità letteraria e/o artistica.
Se poi mi vengono in mente i rapper italiani, poi, la pelle d'oca è quasi istantanea.
Comunque, questo trio americano ebbe la sua bella riconoscenza all'uscita del primo omonimo, che poi consisteva in una raccolta di 6 singoli tutti usciti in precedenza. Blow Up, come detto, impazzì per loro e io l'ho sentito solo adesso. Le sonorità sono davvero affascinanti e ci sono dei momenti molto alti: Apt. A (2), I promise never to get paint...(2), Bike (2), Jimmy Breeze (1), su tutti. E' un disco colorito e vario, in cui si mette in scena una sorta di rap cosmico e dopato oltre misura, costituito essenzialmente di beat-boxes, synth e samples come di rigore, con ritmiche lente e strascicate, ottimi momenti di ambient pura (Clouddead number five 1+2), trafigurazioni e paradossi surreali. Certo, il rappato non manca e per la mia allergia non è un gran bene, ma non inficia la qualità strumentale di fondo di questo bel dischetto. A detta di tutti, molto innovativo. Io sono troppo limitato per poterlo giudicare.

mercoledì 14 luglio 2010

Circle X - Live in Dijon 1979 (2009)

Un chiaro segno dell'importanza che continua ad esercitare questo oscurissimo combo di Louisville è costituito dalle ristampe indie degli ultimi 2-3 anni. Prima l'etichetta di Grubbs ridava al mondo il fenomenale Prehistory, poi l'anno scorso questo documento live recuperato dagli archivi di Letendre che riproduce il primo concerto tenuto dai Circle X appena trasferitisi in Francia, all'università di Digione nel 1979.
Nella loro prima fase, come ben definito sull'EP d'esordio, erano dediti ad un art-hardcore-post-punk che anticipava certo noise-rock degli anni '80. Da questo vengono estratte le schegge art-metal di Tender, Onward Christian Soldiers e Albeit living. I mezzi tecnici erano prossimi allo zero ma il dna sperimentatore già alto: Pinotti si sgola con le sue grida sconsiderate e l'echo fisso al microfono, le chitarre di Wietsiepe e Letendre fautrici di muro elettrico minimale e compatto, l'altro Letendre sembrava fosse batterista da pochi giorni tanta era la semplicità delle parti.
Immagino l'impatto devastante sugli studenti. Beyond standard finirà su Prehistory, ma qui era ipervelocizzata e bruciante e presente in due versioni: la seconda presumibilmente proviene da un'altra sede ed è rovinosa oltre misura. C'è anche un inedito, Look at the people, che spinge ancor più il pedale rumoristico, con tanto di assolo dissonante di Wietsiepe.
Sì è approfittato dello spazio per infilare dentro anche due out-takes strumentali di Celestial, per cui si salta a piè pari al 1994 con la sbilenca e rarefatta Machine, nonchè la straniante e barocca bozza di Sweet song. Puro completismo giusto per svuotare i cassetti.
Si dice abbiano influenzato anche i Sonic Youth....

martedì 13 luglio 2010

Cindytalk - Camouflage heart (1984)


Nel 1984 l'ondata era ormai alla fine della sua golden age, ma qualche brillante ritardatario veniva fuori comunque. Che poi Sharp e Clancy erano già in giro da qualche anno con una band precedente di post-punk (i Freeze, mai sentiti), ma il passo fatto con la mutazione in Cindytalk fu davvero radicale. Dare una definizione del loro sound è difficile: se i Virgin Prunes erano dei decadenti in purgatorio, questi temibili scozzesi erano localizzati proprio nel più profondo e punito dei gironi infernali.
Ci sarebbe voluto ben più di un esorcista per tranquillizzare Sharp, vocalist irrimediabilmente posseduto da un agonia angosciante e terrorizzata (curiosamente, nelle foto, appare quasi sempre vestito da donna). Clancy invece si occupava delle parti musicali, ovvero chitarre corrosive, bordoni inquietanti di synth e elettronicità sempre tendenti al nero pece. Il primo brano in elenco, It's luxury, è il più convenzionale del lotto, con una drum machine sincopata a sostenere un proto-industrial da Batcave che fra l'altro ebbe un certo successo commerciale. Saranno ben pochi i pezzi con supporto ritmico: fra questi il capolavoro del disco, Memories of skin and snow, è un'ossessione a base di feedback e bassi pesantissimi. Quasi tutto il resto è il grido lancinante di un dannato perenne: su rimbombi sordi di tom, le siderali galassie dark-ambient di Istinct fanno veramente paura. Di grande effetto anche il melanconico The spirit behind the circus dream, il marziale drumless di A second breath, il tragico corrierismo cosmico di Everybody's christ.Chiude la solenne Disintegrate, per piano, synth immobile ed una voce femminile glaciale (non identificata), una catarsi contro la tensione opprimente di un grande disco di sperimentazione gotica.
Orrorifici.

lunedì 12 luglio 2010

Chillum - Plus (1971)

Se la spassavano allegramente, questi Chillum dal nome già programmatico, immortalati in cover intenti a rollare sigarette truccate.
Ma nonostante l'immagine di hippies, in realtà suonavano con grande vigore ed energia un hard-prog soltanto marginalmente intriso di psichedelia. La See For Miles è un etichetta tipicamente esperta in recuperi '60-'70, e di questo quartetto si trovano quasi zero info, se non che provenissero da un'altra band chiamata Second Hand. Dò per scontato che fossero inglesi, e il contenuto di questo Plus sembra essere un antologia ma ripeto, non si trovano praticamente bios da nessuna parte.
Brain Strain è un mattone sconclusionato di 22 minuti, pura improvvisazione dadaista con protagonisti l'organista e il bassista a svisare con decisione. Un po' una rottura di palle dal decimo minuto in poi. Poi succede un po' di tutto: sognanti ballad per piano e mellotron (Land of a thousand dreams, This is not romance), assoli di batteria e percussioni (Too many bananas), scatenati hard-prog alla Nice (Yes we have no pajamas, Celebration), soffice bossanova (Promenade des anglais), accademia alla Arthur Brown (Fairy Tale).Davvero troppo deconcentrati e distratti, per attirare attenzioni o restare nella memoria di chi non è collezionista o fanatico del periodo/genere. E fu un peccato, perchè le doti tecnico /strumentali erano davvero invidiabili.
Un Chillum troppo carico...

sabato 10 luglio 2010

Cerberus Shoal - Crash my moon yacht (2000)

A metà esatta del loro decennale percorso, i CS erano in splendida forma e in piena fase di transizione e sperimentazione, definendo un sound unico e forse irripetibile.
Stilisticamente era una progressione con forme strutturali ancora abbastanza legate alla composizione tout-court, ma che incarnava sempre più elementi etnici (i componenti d'altra parte erano praticamente tutti immigrati trovatisi nello stesso posto) e svolgimenti complessi.
Crash è un disco molto rilassante, con atmosfere disincantate e poche impennate di movimento rilevante, con toni spesso solari, molto distante dalle suite oscure del magico Element.
Breathing machine possiede l'unico fraseggio di chitarra distorta su un ritmo sferragliante, salvo poi tramutarsi in un evocativissima navigazione; ritmo in levare, fiati che salgono a punteggiare, bassi profondi. Non è progressive e non è propriamente psichedelia, ma un mix affascinante ed originale. L'oziosa Elle besh è un lasciarsi andare al relax più totale, come una panoramica all'equatore. Splendida Long winded, con intro di percussioni, piatti e flautino; entrano chitarra limpida e basso leggero, e i fiati si ergono a delicati protagonisti.
Gli ultimi due brani sono gli unici cantati. Yes Sir No Sir è un meltin pot corale di magia assoluta, un ascensione verso la libertà multietnica. Chiude l'acustica Asphodel con mandolino e atmosfere vagamente balcaniche.
Globali e magnetici.

venerdì 9 luglio 2010

Weimar Gesang - Anthology

Pre-premessa:
Questo post è un post sperimentale, un po' tipo quei programmi trasmessi in contemporanea su Rai e Mediaset, o il discorso a reti unificate del Presidente della Repubblica - ma l'ho promesso così a lungo al mio amico Webbatici che ho "dovuto" darlo anche a lui - poi me lo pubblico anche qui... :)

Premessa:
Il titolare del blog qui, tale Webbatici, mi ha schifato per mesi i dischi dei Weimar Gesang, che gli avevo caldamente raccomandato come migliore esempio della new-wave italiana di metà anni '80.
Probabilmente a causa dell'indurimento dei muscoli uditivi ed emozionali causati dall'ascolto troppo prolungato di rock-punk coi chitarroni, il suddetto è incapace di cogliere la bellezza di tutta la produzione dei Weimar – ma voi non dategli retta, e seguitemi in questo breve viaggio tra i loro dischi. [1]

Post vero e proprio:
Quindi, introduzione del gruppo: tra Treviglio, Monza e Milano abbiamo Paolo Mauri - voce e basso, Fabio Magistrali - batteria e Beppe Tonolini - chitarra (più Enrica Toninelli - tastiere sulle prime due cassette).
Rimasti in tre, si alternano tra gli strumenti sopra elencati e le tastiere "elettroniche" per i due primi dischi ("Even Stone Pales" e "The Colours of Ice"), ricorrendo spesso all'uso della drum-machine sia in studio che dal vivo.
Poi a Beppe subentra Donato Santarcangeli alla chitarra, con il quale viene registrato "No Given Path", poi sostituito da Cesare Malfatti, con il quale i Weimar cominciano a registrare un quarto lavoro su disco che non vedrà - purtroppo - mai la luce (anche se, volendo... qualcosina...)

Non so che fine abbiano fatto nè Beppe nè Donato, ma Paolo e Fabio dopo i Weimar sono stati una presenza costante nelle registrazioni e nelle produzioni della musica italiana indipendente dalla fine degli anni '80 ad oggi, è quasi inutile riportare un elenco delle persone con cui hanno lavorato [2], mentre Cesare è stato, tra le altre cose, uno dei tre componenti "fissi" dei La Crus.

Questo è lo sfondo, ma la cosa importante sono i dischi: con il permesso di Paolo, qui vi potete scaricare un antologia di tutti e tre... [3]

"Even Stone Pales" è il debutto, sicuramente il meno riuscito dei tre ep, anche se "Chantal Secret" è il primo abbozzo della dark-dance che poi sarà sviluppata in "Like in a Mirror", così come “Annual Ring” è un episodio atipico, un po’ alla Cocteau Twins, ed “Held Inside” è un pezzo minore, bello ma un po' "sfocato".
Forse un po' troppo statico rispetto a "Our Silent Growth" [4], ma anche un chiaro passo avanti sulla via della personalità - la cassetta è suonata da un gruppo che ama i Cure di quegli anni, il primo disco è quello di un gruppo che cerca di camminare con le proprie gambe.

Ma le gambe si rafforzano, "The Colours of Ice" è già un disco maturo, giocato tra i toni quasi dark di "Melt your Sight" e "Deceit", i richiami vagamente deadcandanceabili (primo disco, eh! – non il medioevaleggiare posteriore) di "One Promise Less", fino alla già ricordata dark-dance di "Like in a Mirror " - altro che i Neon di “Dark Age”...

Poi "No Given Path", che a partire dalla veste grafica (i tagli della copertina attraverso i quali si leggono i credits del disco) è un disco da magone. [5]

Parte “The Secret Us” ed è un brivido dark, gli arrangiamenti mi hanno fatto invidia per anni... - con il mio gruppetto new-wave cercavamo neanche tanto inconsciamente di imitarli, ovviamente senza riuscirci...
“Ligh-Tight Place” è un pezzo quasi rock, con la chitarra in feedback – non esattamente una cosa comune per quegli anni [6]
Un paio di minuti di synth liquidi e parte "Worn Out Prayer", il pezzo perfetto dei Weimar Gesang, dark-dance (ma non troppo dance), un timbro del synth solista che per me ha sempre avuto il colore mattone/porpora della copertina del disco, l'assolino di basso dopo il break, quando riparte il sequencer - che a me mi vengono ancora gli occhi lucidi ogni volta che lo sento.
E c’è ancora "Mother of Nothing", tempi dispari e melodia irresistibile. [7]

Poi cala il sipario, anche se sopravvive nella memoria una versione stratosferica di "Place to Be" di Nick Drake (ma dai!) che sarebbe dovuta uscire sul disco nuovo...

Note e links:
[1] Purtroppo mai ristampati su cd, sono reperibili a prezzi francamente assurdi nel mercato del vinile usato da collezione (!) - quanto sarebbe stato meglio se avessero venduto qualche milionata di copie all'epoca della pubblicazione invece :)

[2] Ad esempio, sul sito MySpace di Paolo, c'è un elenco delle persone/gruppi con cui lui ha lavorato.

[3] Il "qui" è evidentemente riferito a "Tuning Maze", il blog di Webbatici. Nello zip trovate Chantal Secret, Like in a Mirror, One Promise Less, Worn-out Prayer, Mother of Nothing e Place to Be.

[4] La discografia completa la trovate su Discog, la cassetta "Untitled" è in realtà il primo demo, mentre "Our Silent Growth" era stata realizzata per essere venduta - tra l'altro, a differenza che su tutti i dischi, in alcuni pezzi si può sentire Fabio suonare "solo" la batteria acustica, ed era veramente bravo!

[5] Nostalgia canaglia? Ma no, dai, all'epoca mi dava le stesse sensazioni!
Mentre per i non-milanesi, dicesi "magone" quella sensazione di malinconia quasi dolorosa ma dolce, da groppo in gola…

[6] Poi va beh, di questo pezzo è possibile trovare una versione live (senza drum-machine) sulla cassetta allegata a Vm due

[7] E il testo - che trovate anche sul già citato sito di Paolo – ve lo riporto qui:

Believe
I' ve been nowhere
in this half of half a century
I' ve been nowhere

Mother of Nothing

giovedì 8 luglio 2010

Caustic Resin - Keep on truckin' (2003)

E' sempre stato chiaro che se li sarebbero filati in pochi, ma la cosa che mi dispiace di più è che questo è stato il loro ultimo album, sono passati 7 anni e ormai Netson si è rilassato al porto sicuro delle dipendenze di Martsch nei Built To Spill.
E non occorre aggiungere molto altro a quello che scrissi riguardo al loro capolavoro o al loro debutto, chè i CR fondamentalmente sono rimasti se stessi in un decennio di attività, legati al loro talento espressivo e al trademark produttivo inconfondibile.
Che è fatto di elettricità scoperta, agonie cosmiche e grandi songs, della voce grassa e della chitarra sulfurea di Netson. Già dall'iniziale People fall down si capisce l'umore nero-pece dell'andazzo; riff ossessivi e fragorosi, doppiati e ritorti su sè stessi, incastrati e svincolati in un format simbolo di grande libertà e ampiezza di orizzonti. Sullo stile principe, prendono parecchio Wizard of the upper snake river, Drive #47, Drive #49. Lievemente più solare la title-track, un delta di riverberi chitarristici infuocati. Qualche momento di pausa viene costituito dalla ballad Fry like Ace Jones, o dall'inizio del vertice del disco, quel Viva la causa! che imponente si stratifica in un crescendo emotivo altissimo.
In un'intervista di un paio di anni fa, Netson si dichiarava soddisfatto di fare il gregario nei BTS. Io confido ancora che, in un momento di pausa, si rimetta a spargere sudore, polvere, lacrime e resina.

CE L'HO FATTA!!!

Giustizia è stata fatta, e dopo quasi 3 mesi di duro lavoro finalmente sono riuscito a ripubblicare tutti i post di TM 1.0, il gloriosissimo blog che visse due anni e mezzo di strenua resistenza e dribbling alla DMCA (e mi ha dato in particolare una soddisfazione personale impagabile, you know!) prima di essere comunque radiato dall'etere. Poi la seconda, brevissima fase, neanche 20 giorni, e l'ennesimo cartellino giallo (ero in diffida automatica senza saperlo) mi provocò una nuova espulsione.
Ora sono ripartito, di fatto vergine da rimproveri , o da occhiatacce/osservazioni/intercettazioni, a meno che, a mia insaputa... Ma allo stesso tempo avendo perso un buon 60-70% di visitatori abituali (mi importa solo per il fatto di fare amicizie virtuali in nome della musica, mica per altro!).
Un segno di gioia anche per i 23 lettori abituali di TM: finalmente ho finito di rompere le palle intasando la bacheca con una mole torrenziale di post. D'ora in poi le pubblicazioni tornano ad essere più o meno quotidiane.
Grazie sempre a chi ha ostentato fiducia e solidarietà!

VV. AA. - Mental Hour Vol. 3-7 (by Planet Rock)

(Nella Foto: Gennaro Iannuccilli)
Questa volta un volume molto ritmato. Se non sbaglio siamo ancora nel 1993 e le star del momento sono The Orb (qui con le ondate di suono marino di A huge evergrowing...), i belgi Psykhik Warriors ov Gaia con il loro techno-ambient da fossa delle Marianne, i F.S.O.L. e i System 7. Le varianti sagge al ritmo però qui sono delle vere perle, come l'arcobaleno di JM Jarre, un remix arcuato di This Mortal Coil e un altro stuolo di pezzi rimasti purtroppo a me anonimi.
VV. AA. - Mental Hour Vol. 3 (by Planet Rock)
Sempre ben schierate le unità soprascritte, con l'aggiunta di un Aphex Twin in piena affermazione e gli Orbital . Vanno in onda anche recuperi vintage come i Kingdome Come di Arthur Brown con lo space-rock di Time Captives, e i Tangerine Dream da sempre pionieri dell'ambient tutta. Davvero straniante la Meredith Monk remixata col beat sotto, freddi e glaciali i Clock Dva di Eternity, e interessantissime le Miranda Sex Garden con il loro madrigal-rock evocativo ed eretico.
Fantastica l'accoppiata all'inizio: i Neu! alle prese con un mesmerico percussivismo spaziale in rallentamento con la tempesta galattica di Rother, al cui termine parte il dub apocalittico di Scorpionic degli Scorn, che due pezzi dopo viene remixata in modo magistrale (da chi???). Poi ancora gettonatissimi Aphex Twin, Tangerine Dream, Clock Dva, Orb, Miranda Sex Garden. Molto attrattivi gli Out Of Body Experience.
A questo punto dovremmo essere all'inizio del 1994 e l'autentica meraviglia dei Seefeel introduce alla grande. Ci sono belle novità come i Bandulu (dei Kraftwerk all'era delle glaciazioni), gli Exquisite Corpse con una techno per nulla banale ed ipnotica, i suoni concreti di Amoprhous Androginus, l'evocazione meccanica di Dive, l'exotic sballato dei Coil di Nasa Arab, l'angosciante campanilismo manipolato dei Sabres of Paradise, e il percussivismo multicolour di Mickey Hart. Poi si odono i primissimi passi delle future star Air.
Volume di svolta. Se non ricordo male, a quel punto la Mental Hour era diventata troppo techno-asciutta per i miei gusti oppure al sabato sera le uscite con gli amici avevano preso il sopravvento. Poco male, chè i paladini della conoscenza musicale ebbero il buon senso di dedicare spazio a quest'aurea musicale anche durante la settimana lavorativa.
Chiedo lumi a chiunque s'imbatta nella traccia numero 4 e conosca quest'artista incredibile, che si dovrebbe chiamare Ely Schoely o una roba del genere. Trattasi di una piece arabo-indiana, un raga dronico assolutamente mozzafiato con questo muezzin dalla voce incantatrice, doppiato dal violino, con sfondi di archi liberi e cinguettii, per un risultato finale incredibile. Davvero,
Altra novità importantissima fu la mia scoperta di questo programma very strange che andava in onda su una radio locale (Gamma) alla domenica sera alle 22, che si chiamava Tedio Domenicale, della quale ho raccontato qualcosina in un vecchio post. Quindi, in sostanza: la scoperta di robe esoteriche (i Coil gregoriani di Cave of roses), l'elettronica più fredda e dark (Antigroup), quella più perversa e fetish (Dominator), e specialmente la meraviglia della dark-ambient, qui rappresentata in un capolavoro come la A live coal under the ashes dei grandi Contrastate.


(originalmente pubblicato il 18/04/2010)

VV. AA. - Mental Hour Vol. 2 (by Planet Rock)

Nella foto: Rupert dal suo myspace
Dopo l'esperimento positivo del vol. 1 (ben 30 i downloads fino ad adesso!), ho deciso di condividere tutti e 12 i volumi completi delle mie cassettine registrate fra il 1993 e il 1996. In questo secondo non sono in grado di garantire se ci siano dei mixaggi di Dub Master Spillus, in quanto mi pare di ricordare che furono coinvolti altri dj nell'intavolare quelle ore di viaggi spaziali. In ogni caso, altro armamentario di 90 minuti di trance (Syllyk, Optic Eye, Mickey Hart), techno-ambient (Orb, Drug Free America, Future Sound Of London), sprazzi di industrial-esoteric (Cranioclast, Current 93, Sigillum S) nonchè una vera perla di shoegaze-isolazionista come i Seefeel, un gruppo inglese troppo dimenticato che andrebbe senz'altro ripreso.
Ovviamente, tutto pressochè sconosciuto alle mie giovani orecchie. Era bello, quando arrivavano le 23 del sabato sera....

(originalmente pubblicato il 15/04/2010)

VV.AA. - Kraut Night (Planet Rock 15/09/1994)

Continuo incessantemente a citare Planet Rock, e mai me ne stancherò. LA C90 qui esposta contiene un'intera puntata di quei magnifici speciali che potrei ribattezzare quasi lezioni di storia della musica internazionale. Opera dei grandissimi Mixo e Rupert, che in una serata di settembre del 1994 trasmisero uno speciale sul kraut-rock, materia sul quale io pischello non ero molto ferrato, anche se avevano già comunque stuzzicato la mia curiosità con alcuni preparativi ad hoc. A distanza di 15 anni, riascoltandolo (devo dire ancora in ottima qualità per un tape-rip, d'altra parte le TDK erano le migliori, non c'è niente da dire), posso tranquillamente ricordare la mia meraviglia nel sentire per la prima volta il Kirye da Hosianna Mantra dei Popol Vuh, Hallogallo dei Neu!, gli Ash Ra Tempel, gli Amon Duul 2, Mothersky dei Can, e via via tutti gli altri. Il tutto in soluzione di continuità, con gli interventi disincantati, divertenti e competenti dei due luminari che tanto mi hanno insegnato in quei 4 lungimiranti anni di bella musica.

(originalmente pubblicato il 14/04/2010)

VV.AA. - Control Me (Itself #5 1997)

E sempre a proposito di noise-rock italiano di metà anni '90, mi urge fare un post-tributo a quella piccola meraviglia di fanza che era Itself. La titolare del progettino era Monia, una ragazza simpaticissima di Pescara che si era lanciata in un impresa amanuense e di reportage passionale, tutto con uno spirito estremamente informale e indie. Lavorava in una tipografia, dove preparava le sue copie da distribuire al manipolo che la seguiva; il lavoro editoriale era quasi esclusivamente suo, andava a più concerti possibile, intervistava i gruppi (anche se alla fine più che interviste erano chiacchierate, e quindi più interessanti della media delle interviste sulle riviste), c'era qualcuno che la aiutava (persino io scrissi un paio di reviews). Con lei facevo scambi di cassette sdoppiate, davvero altri tempi...
Ma evidentemente stava diventando più grande di lei e così, credo al n. 5, esaurita tirò i remi in barca e chiuse l'allegra baracca. Fece in tempo, però, a compiere l'impresa titanica di realizzare una tape compilation, chiamata Control me. Eccola qua; già era lo-fi, adesso che l'ho rippata lo è ancora di più.
Quasi tutti i gruppi presenti sono italiani, prevalentemente impostati sul noise che raccoglieva tanti consensi ai tempi. Si guardava a Chicago, New York, alla T&G, alla AR, come modelli d'ispirazione. Parto dai migliori: i romani Crunch, con un wall of sound pauroso e il growl isterico di Amici, erano una grezzissima e sgraziata versione degli Helmet, bravi. I toscani Mirabilia invece facevano un garage-dream-psichedelico, comprai i loro demo, avevano delle belle trovate vintage melodiche. I Jinx erano la variante brianzola degli Unsane, e Unreal è davvero notevole. I Larsen, credo l'unico gruppo attualmente ancora in vita, proponevano uno strumentale power-dub che faceva intravedere la loro mutazione in atto verso il post-rock. Davvero bravi invece gli umbri Niumonia con No, una suite space-epic di 8 minuti dalle innumerevoli sfumature e soluzioni, mi piacerebbe sentire qualcos'altro di loro. Ospiti esteri erano gli Headcleaner, band inglese altrettanto rivolta oltreoceano, nulla di eccezionale in merito.
Gli altri nomi in scaletta (c'era anche il gruppo di Monia, le Joyce Whore Not) erano sotto la media e sono inevitabilmente caduti nel dimenticatoio, a parte i Three Second Kiss che fecero ancora qualche disco negli anni successivi. Poi logicamente anche Itself è andata nell'oblio totale, ma spero di avere reso una bella testimonianza.
Ciao Monia!

(originalmente pubblicato il 13/04/2010)