"come se Badalamenti avesse deciso di imparare a suonare la chitarra elettrica prendendo lezioni private da Tony Iommi dei Sabbath, ma suonando sulla chitarrina giocattolo di Guitar Hero anziché su una Les Paul" Ma vediamo meglio il perché…..Questo è un disco proprio difficile da classificare: nella produzione sapientemente compressa in mezz’ora abbondante di musica dal musicista inglese Luke Shaw (colui che si cela dietro il moniker “Asbestoscape”) ci sono, in effetti, istanze tra le più disparate, che vanno dal fraseggio ambientale sul genere Badalamenti, ad un certo chitarrismo vagamente prolisso che potrebbe musicalmente ricordare i Mogwai ma tecnicamente persino lo stesso Hendrix (in versione da notte), passando poi per i panorami industriali dei NiN se non post-cosmici di certe colonne sonore di celebri cyber-film (da Alien ai vari Terminator, ma visto l’elemento elettronico di spicco, si passa anche per qualche commento musicale da video-game evoluto, genere Resident Evil); è evidente, nei mezzi-toni vagamente cavernosi, l’insegnamento, tra gli altri, degli Isis, ma sebbene tutte siano influenze quanto meno ascrivibili ad un certo humus eminentemente dark, o dark-metal addirittura, rimane lo stesso la perplessità della loro miscelazione, quindi quanto detto valga solo in termini di banale circoscrizione d’ambito, quasi ad escludere tutto quel che invece è leggero, solare, danzereccio, classico, pop o rock-‘n-roll. Non a caso si potrebbe, in questo caso più che mai, riproporre l’intervento dell’ormai inflazionata ascrizione del disco al “calderone” post-rock, ma si tratterebbe di una soluzione affrettata e pertanto parziale.Ma vediamo meglio il perché…..Prima di tutto diciamo del linguaggio usato prevalentemente nel disco, che è quello proprio della musica elettronica, ma poi la tecnica impiegata nella sua elaborazione fa largo uso di rugosi droni ambientali (distesi in “Return” e “Mono” o specialmente nel meraviglioso pezzo di chiusura “Thursday”), con l’aggiunta di profondi riff ripetuti martellando senza discontinuità alcuna (come nella traccia d’apertura “Arctic”, meravigliosa ma forse, per quanto detto, anche un tantino impersonale), piuttosto che procedendo per aggiunta ed aprendosi per delega agli elementi via via sovrincisi: essi stessi per lo più di genere metallico, ma non solo, visto che non si sdegna -per esempio- l’impiego di riff più limpidi magari associati ad oscure esplosive linee spastiche tracciate dai synth (ancora in “Return” ma specialmente in “Like Shit Attracting Flies”), o lunghi passaggi nella penombra di un chitarrismo più propriamente psichedelico (come avviene in “Artic” appunto), semmai deformato ad arte in graffi elettronici imprevisti, se non addirittura attraverso insoliti intermezzi pianistici (in “And So The Story Goes”, piuttosto). Denominatore comune ai sette pezzi del disco è, semmai, la regolare incredibile capacità di morphing sonoro, sempre lento ma anche assai progressivo, con gli elementi d’innesto sorprendentemente inseriti quasi sottotraccia, apparsi nel contesto senza destare distrazione dall’evoluzione propria del brano in sé, specie a livello di costruzione melodica, e dimostrando nel compositore una capacità di sconfinamento tra i generi che sarebbe da definire quasi osmotica (con la sola eccezione in tutto l’album, ma probabilmente voluta, dell’inatteso beat elettronico di genere video-game inserito in “Return” o della drum-machine di gusto trip-hop sottointesa a “Mono”, ma sempre dietro ad un muro di synth elettronici miscelati a feedback di sottili droni, per il più riuscito dei collage); tutto il resto è un flusso assai coerente di elementi, che può ricordare certi lavori dei Boris in termini di capacità compositiva e d’addizione progressiva d’elementi, ma qui reso senza alcuna delicatezza minimal, anzi con gusto regolarmente assai più rumoroso e gotico, al limite persino della minaccia in “Ashen” –probabilmente il pezzo migliore- che si caratterizza per uno sviluppo ritmico oscuro degno dei Cure e nel contempo della capacità di eclettica devastazione dei Black Sabbath unita al dispiegamento di mezzi scenici dei Red Sparowes nel –fortunatamente breve- muraglione finale di riverberi.Il risultato di insieme per questo omonimo di debutto, passato ingiustamente in sordina due anni or sono, ha un fascino che cresce ad ogni ascolto: ottimo il dosaggio e la miscela degli ingredienti, nonché la sapienza avuta nella loro cottura, e per un numero di tracce esiguo ma sufficiente ed utile a dare un messaggio ugualmente forte.Ed al di la dell’atmosfera perennemente cupa, come del resto ci si attende, resta un lavoro che anziché deprimere nelle tinte del nero metallo, induce invece alla riflessione, per via di trovate melodiche e paesaggi suscitati nella mente, persino stimolanti. Pare abbia la forza greve ed improvvisa di un fortunale settembrino incontrato per mare, che scorre via violento sopra mezzi ed equipaggi lasciandoli provati eppure incolumi, ma specialmente sorpresi della propria accresciuta consapevolezza.
mercoledì 26 maggio 2010
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