“Abbiamo cercato di rendere la musica di un passato che non è ancora accaduto...” Questa era la dichiarazione di guerra lanciata già 3 anni or sono dai fratelli Samu e Ville Kuukka, in arte Gentleman Losers, dalle natie lande sperdute di Turku (Finlandia), in concomitanza dell’uscita dell’omonimo album d’esordio. Era il 2006 e quel lavoro passò ingiustamente in sordina in Italia, laddove all’estero aveva riscosso sinceri consensi un po’ ovunque. Dopo un periodo di isolamento e un lungo silenzio mediatico, il duo si è nuovamente ritrovato nella penombra dello scantinato silenzioso di casa, ancora debordante di ricordi stinti e testimonianze di mondi lontanissimi, e si ripresenta ora con nuovi cimeli da mettere in musica, senza snaturarsi, anzi riprendendo il discorso da dove pareva solo appena interrotto. Già in occorrenza del primo lavoro i fratelli Kuukka non avevano esitato a prendersi tutto il tempo necessario: pare infatti che il primo disco fosse stato registrato nel 2004 in un periodo di nove mesi , con la previsione dell’uscita parallela di due album, ma dopo aver terminato i lavori ai nostri il risultato non era sembrato soddisfacente, al che autonomamente avevano deciso di dedicare i due anni successivi a ritagliare via via il superfluo fino a giungere al prodotto consegnato alle stampe nel 2006. La (paziente) etichetta che ne curò allora l’uscita fu la Buro, una “sublabel” inglese della berlinese City Centre Office. e sulle ali del successo riscosso dal self-titled la stessa casa s’è offerta di pubblicare il suo naturale seguito, “Dustland”, a distanza di 3 anni. L'immediata sensazione che si ha all’ascolto di “Dustland” è un forte senso di “casa”, di prossimità, di qualcosa di tangibile e familiare: come già nel disco d’esordio, non si tratta propriamente di suoni lo-fi, ma di un easy-listening mai distaccato, anzi piuttosto ambiziosamente robusto e dalle tonalità calde, polverose, emozionalmente prossime all’esperienza retrospettiva; forse si tratta più precisamente di sonorità vintage, che non risultano mai finte né scontate. Il background dei fratelli Kuukka non è tanto post-rock, come frettolosamente sono stati spesso etichettati, quanto alternative-country di memoria nativa, e la loro musica descrive una terra abitata più da personaggi di Kerouac che da super uomini della cyber-era. L’arricchimento scenico legato al largo impiego di elettronica d’ambiente, senz’altro derivato dalla fucina di Morr Music (sebbene qui meno evidente che nel primo lavoro), cui si aggiunge uno spesso strato di foschia, crea un complesso humus folktronico, appena decadente nella sua aura old-style, ma mai statico, anzi piuttosto di carattere cinematografico; evocativo di sfondi quieti ma pulsanti e spesso nebulosi. Una terra di mezzo, dunque, tra Morricone e Badalamenti, decostruita con una spregiudicata predilezione per i loop più ipnotici (la caratteristica “mesmerizing music”dell’ottima “The Echoing Green” o della stessa traccia d’apertura), sempre ben radicata su paesaggi distanti dalle città: lunghi silenzi, orizzonti senza fine e soprattutto ricordi di una vita passata che riaffiorano sfumati nel contesto di una fotografia virata a seppia.
Il ricordo, insieme alla voglia di raccontare questi flash improvvisi nel buio, è indubbiamente un tema forte in “Dustland”: è come se la musica diventasse la terapia che avvicina l’uomo alla “memoria di cose a venire”.
E lo stesso processo costruttivo non può che svolgersi al rallentatore, seguendo le dinamiche del cervello umano e le associazioni di idee attraverso connessioni sinaptiche che attivandosi via via danno forma a questo processo di ricostruzione di immagini: succede allora che il processo venga inciso su un nastro e che il mezzo usato per dare forma compiuta alle idee sia ancora una volta un vecchio mixer Telefunken del 1950, per caso riscoperto in cantina dai Kuukka, testimone di un’infanzia felice ma strumento ancora attuale, redivivo e già utile a fissarne la nostalgia per sempre.
Il prodotto musicale del duo finlandese, in effetti, deve molto alla strumentazione “modernariale”, laddove il risultato suona assai vintage, e anche appropriatamente polveroso, ma affascinante nella sua apparente semplicità, come fosse prodotto di distillazione tra saggezza passata e gusto moderno, tra archivio stinto e paesaggi soggetti alla mano dell’uomo, tra legno ed elettricità, tra la locandina virata a seppia di un film anni 50 (il motivetto da opera allegra di “Oblivions Tide”, ma anche il quieto leit-motive di “Spider Lily”) e l’inquietante voglia d’eternità di un breve, intimo e delicato fraseggio acustico nel cuore della notte (l’apertura di “The Echoing Green”). Tra nostalgia e anonimato.
Talora il sound ricorda i migliori lavori di Helios o anche di gruppi come i Lanterna, i Landing, “certi” Hammock o persino i Balmorhea, ma con molti meno spunti sinfonici e senza contrappunti ritmici. Eppure in nessuno di questi riferimenti c'è la stessa densa voglia di raccontare e di farlo in maniera quieta, calda, intensa e profonda: ogni elemento viene rilasciato con progressione lenta e umana (il crescendo ritmico di “Pebble Beach”), ogni melodia è una sorta di nostalgico riapparire, un rischiararsi vivido dietro uno strato superficiale di sabbia che scivola via inesorabile e ipnotico (quasi tangibile nel pattern sottinteso in “Bonetown Boys”).
Viene naturale anche il riferimento di Mark Nelson, che però deve essere qui elevato alla torbida potenza della calma analogica, fratto il peso di una spessa coltre di neve fresca.
La voglia di raccontare traspare in maniera quasi folcloristica (“Lullaby Of Dustland”con i suoi tocchi di corde slowcore, sparsi e mirati), e benché l'elemento elettronico sia quello prevalente, il ritmo è spesso stralunato, ovattato, fondato su spesse armonie ripetitive e circolari (“Midnight Of The Garden Trees” o l’ipnotica “Honey Bunch”): una maniera compositiva narrativa, grazie alla quale ”Dustland” appare l'ideale e doveroso seguito dell’album del 2006. Una lunga passeggiata con la neve a mezza gamba ripresa dopo un breve attimo di riposo. A contemplare l'immenso.
Su panorami crepuscolari e dilatati, densi di loop morbidi e notturni (memorie degli Stars of the Lid) si intrecciano poi trame di chitarre acustiche rallentate e perdute, quasi di gusto psichedelico seventies (“Silver Water Ripples”), e il paesaggio della Death Valley va sfocandosi nella desolazione della tundra finlandese (“Ballad Of Sparrow Young”). E il tramonto si fa notte, mentre il senso del tempo in divenire torna nuovamente forte, scandito dalle pulsazioni di un beat digitale (“Farandole”)e le suggestive immagini di solitudine non sono più solo un’idea, ma già sensazione epidermica, calda e carnosa. Colonna sonora, appunto, della perdita di quel che è stato, ma speranza e già proiezione istantanea di quel che sarà.
(originalmente pubblicato il 11/05/09)
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