mercoledì 26 maggio 2010

Keith Jarrett - The melody at night with you (1999)

(by Davide Cicciopettola)
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Keith in versione zucchero filato, senza furore, le mani ben piantate sui tasti, in penombra, e gli occhi chiusi a lasciar correre la fantasia dove il cuore le comanda.. e vorrei tanto fare altrettanto anch'io, ma il mio cuore è già infranto, per la sua musica.
Ma stiamo calmi, mettiamo da parte l’emozione del momento dovuta all’ascolto appena concluso ed andiamo con ordine, aggiungendo un paio di elementi utili a capire bene questo (capo)lavoro, ed apprezzarlo come si merita (visto il mio passato di apprendista pianista, Jarrett è sempre stato per me una specie di profeta, prima che un grandissimo musicista jazz.. ed ogni suo disco ha una precisa collocazione, e va approcciato ed apprezzato a sé stante). Alla sua uscita bisogna dire che molti sottovalutarono questo disco, che propone un Jarrett lontanissimo dal suo solito noto furore improvvisativo, caratteristico dei suoi precedenti lavori in “solo piano”, a partire da quella specie di “stele sacra” della musica –jazz, ma non solo- rappresentata dal Concerto di Colonia nel 1975, ma senza tralasciare anche le registrazioni dei live di Vienna, dove probabilmente il maestro -se possibile- ha superato sé stesso, e l’altro storico concerto del 1995 alla Scala di Milano, diverso eppure parimenti arcifamoso; a parte i differenti intenti comunicativi, quelli ben chiari già leggendo la tracklist e che appresso analizzeremo, avviando l’ascolto di questo disco si riconosce immediatamente un Jarrett diverso prima di tutto, e specialmente, nell’approccio alla musica ed alla tastiera, quasi sorprendentemente al limite del remissivo. Allusivo fino a suscitare tenerezza, rarefatto, e con una tensione interiore che nulla concede allo spettacolo.
Facciamo, dunque, un passo indietro e ricordiamo come Jarrett fu colpito alla fine degli anni ’90 da quello che venne diagnosticato come morbo di Epstein-Barr o "della fatica cronica", malattia che lo costrinse a ritirarsi nella sua fattoria nel New Jersey impedendogli quasi persino di suonare per un paio di anni; in quel periodo di tempo l’unica uscita ufficiale immortalata dai crismi del grande evento (primo musicista jazz a suonare, nella storia, del Tempio della Musica) era stata appunto quella del grande concerto della Scala di Milano, ma poi dovettero passare ancora due anni di silenzio prima dell’incisione, a sorpresa, di quest’altro “Melody”, con Keith non ancora del tutto guarito ed ancora in evidente difficoltà nell’approcciarsi alla tastiera, ma ormai reduce dalla malattia: si nota subito come le dita scivolino sui tasti, quasi trascinandosi dietro le note, e si sente latente il segno della malattia, ed appare siderale la distanza da quella sera a Colonia, a 20 e passa anni di tempo trascorsi: qui non c’è più il furore barocco di allora, nè gli svolazzi improvvisi delle mani da una parte all’altra della tastiera, dato che adesso non solo non sono più possibili per la malattia sofferta, ma probabilmente sono già stati consegnati al passato, prima di tutto per la differente consapevolezza dell'interprete: e la suggestione qui è solo nell'intimità che l’interpretazione trasmette. In “Melody” Keith è persino "muto": mentre solitamente i suoi caratteristici mugugni accompagnano l’incedere della musica al piano, sottolineandola, qui invece ci sono solo note! ..ma sono note notturne cariche di sentimento, e che sanno far sognare.
Ed in effetti la voglia di introspezione di Jarrett qui è dovuta anche ad altro, e per capirlo va letta la dedica, che appare striminzita sulla cover del disco: "A Rose Anne, che ha sentito la musica. Che poi mi ha ridato" . Questa è la traduzione delle brevi note di copertina e che sostanzialmente stanno a indicare la benedizione della moglie Rose Anne Colavito (di lontane origini italiane) a rendere pubblica, nella pubblicazione del disco, la musica che il pianista ha suonato e le ha dedicato, trovandosi in casa con lei ormai prossimo alla guarigione, e dopo che lei l’aveva assistito in questo periodo difficile; la sensazione che se ne riceve è quella che il pianista avesse lasciato a lei ogni responsabilità durante la malattia, e volesse adesso ringraziarla di tutto, rinnovandole il suo messaggio d’amore, e per farlo volesse ancora affidarsi al suo strumento prediletto. In questo senso, nella corposa discografia di Jarrett (dai concerti in solo piano editi da ECM, ai “quartetti jazz” fino alla produzione classica), questo lavoro, del tutto unico, va visto un po’ come il disco "privato" di Keith. Ed in esso traspare un dolore che sembra essere morale, oltre che fisico.Al di là delle difficoltà proprie di Keith nel suonare, va perciò inteso questo disco come anche, e propriamente, un disco d'amore: è il disco che Keith ha (per davvero!) registrato suonando il suo pianoforte personale nel salotto del suo ranch, e suonandolo propriamente per sua moglie. Non è un concerto, pertanto! Banalmente è “solo” Keith che suona, e lo fa accoratamente solo per la sua donna…Gli stessi brani scelti per la tracklist dicono tutto, del resto: caso unico nella sua produzione in “solo-piano” qui non c’è alcuna improvvisazione, anzi non si tratta nemmeno di pezzi suoi bensì "standard" per lo più (da “I Love You Porgy” a “I Got It Bad and That Ain’t Good” di Duke Ellington, a “Someone To Watch Over Me” di Gershwin, più pezzi storici come “Be My Love” e brani tradizionali come “My Wild Irish Rose”, per non dire di “I'm trought with love” già cantata da Marilyn Monroe), tutti suonati in maniera molto ma molto discreta. Note piene, rotonde, ma ovattate anche, calcate senza rabbia, sempre in maniera assai dolce. Si direbbe, anzi: quasi innamorata. E chiaramente, in ognuna di esse si sente cosa esattamente Keith volesse trasmettere alla moglie, per il mezzo dell'espressività della sua musica; si direbbe quasi che l'intero disco vada inteso alla stregua di una sorta di "conversazione familiare", se non persino, visto il climax generale assai notturno, di una lunga sentita e dolce serenata.Resta in ogni caso (ancora) una superba interpretazione di Jarrett, pur all'interno di atmosfere decisamente "soft", ma sempre misurata e personalissima, mai molle, e con un tocco inconfondibile (ancora) in grado di regalare brividi: il concerto di Colonia (che se debbo dirlo, lo preferisco a questo lavoro) ci consegnava un grandissimo Pianista, in grado di emozionare con la sua tecnica, la sua inventiva, la sua capacità d'improvvisazione, sempre creativa ed in tal senso, a suo modo quasi integralista (gli aneddoti collegati ad ogni suo concerto si sprecano). "Melody at night" ci consegna, piuttosto, un grandissimo Uomo, con le sue debolezze di corpo e di cuore, immortalato in un momento di personale meditazione, e sempre in grado di emozionare per come traduce deliziosamente, in lenti movimenti delle proprie mani nella notte, ed in note, il suo animo.

(originalmente pubblicato il 27/04/09)

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