venerdì 31 dicembre 2021

Shorty – Fresh Breath EP (1994)

Fulmineo EP di un quarto d'ora scarso che chiuse la repentina carriera degli Shorty, un'anno prima che Al Johnson e Mark Shippy tornassero con gli U.S. Maple. Cinque pezzi roventi e fumiganti, che rilanciavano la proposta già udita l'anno prima con Thumb Days. Se qualche fan dei Jesus Lizard nel 1994 si sentiva deluso dal (presunto) ammorbidimento di Down, poteva rifarsi con gli interessi grazie agli Shorty e le loro tempeste granitiche, i loro ritmi sghembi, la fucina di riff incessanti di Shippy, le urla invasate e beffarde di Johnson e tutto il resto. Unico neo, la produzione un po' da bunker, tipica comunque della Skin Graft di quel periodo.

 

mercoledì 29 dicembre 2021

Protomartyr ‎– Ultimate Success Today (2020)


Buona conferma dei Protomartyr, ormai in possesso di uno di quei trademark distintivi che li rendono bene in vista nell'odierno panorama. Un suono ispido ma mai disturbante, una cifra tecnica modesta (a partire dal cantante, che a quanto pare invece è il personaggio più chiacchierato, forse per le liriche) ma estremamente efficace e composizioni ordinarie quanto ad effetto (The Aphorist su tutte). Io li vedo sempre più come dei National ignoranti, dalle radici punk mai del tutto sopite, con un chitarrista fiero anche nei passaggi più naif.

Il problema di dischi come questo è che oggi li apprezziamo e li ascoltiamo con piacere, ma passato un tempo significativo forse ignoreremo il nome Protomartyr, non conservandone un ricordo significativo.

lunedì 27 dicembre 2021

Screams From The List #103 - Mythos – Mythos (1972)


Affascinante debutto di un trio berlinese che indugiava con disinvoltura fra fascinazioni raga, distensioni etniche, danze flautate alla Jethro Tull, sanguigne impennate blues-rock, allucinazioni cosmiche e minuetti prog. Detta così Mythos sembrerebbe un calderone fin troppo eterogeneo, in realtà i tre sapevano destreggiarsi molto bene, grazie ad una produzione illuminata a fuoco (Dieter Dierks, migliaia di registrazioni, una specie di Conny Plank meno famoso) ed una buona dote compositiva. Soprattutto la seconda suite, Encyclopedia Terra, riesce ad eguagliare gli stati lisergici dei primi Ash Ra Tempel con  trovate non molto ad effetto, ma efficaci. Un nome minore, ma degno di un recupero.

sabato 25 dicembre 2021

Harmonia ‎– Live 1974 (2007)


Un live in patria di materiale inedito dalla fedeltà di livello assoluto per l'epoca, ripescato provvidenzialmente nel 2007, il cui entusiasmo portò addirittura i tre a riformarsi, anche se solo per qualche esibizione dal vivo. Poco da dire, l'ispirazione era ai massimi livelli e le tensioni scaturite di lì a poco in Deluxe ancora a venire, con un Rother stellare a lanciare figure intercalanti nell'iperspazio, Moebius e Roedelius ad innescare macchine umanoidi ed un pubblico a bocca aperta, del tutto impercettibile (e probabilmente non sobrio). A dimostrazione dell'eccellenza, il fatto che i pezzi migliori siano i più lunghi: Veteranissimo e Holta-Polta. Talenti fusi in un contesto sicuramente superiore alla somma dei singoli.

giovedì 23 dicembre 2021

Miasma & The Carousel Of Headless Horses ‎– Manfauna (2007)


Mini di 20 minuti, purtroppo rimasta l'ultima testimonianza in studio di questo eccellente quintetto che due anni prima fece la comparsa con il fenomenale Perils. Il side project dei Guapo, con O'Sullivan impegnato alla chitarra e Dave Smith alla batteria apocalittica, trovò qui un canto del cigno all'altezza, che avrebbe meritato assolutamente un proseguimento. Tre pezzi: Manticore, elaboratissimo e ricco di spezie balcaniche in tipica ambientazione da fine del mondo guapiana. Taus, sinistra e greve soundtrack di cuscinetto. Garp Gadriel, si apre leggiadra con piano e violino (a me ricorda certe partiture di Roger Eno!), e poi monta la grandeur guapiana progressivamente fino al climax finale. Spettacolare.


martedì 21 dicembre 2021

Galaxie 500 ‎– Peel Sessions (2005)


Due sedute da San John Peel, una nell'Ottobre 1989 e l'altra nel Novembre 1990, a pochissimo tempo dallo split. Un totale di 8 pezzi, metà cover e metà estratti dal loro album migliore. Un assemblaggio che sulla carta non avrebbe aggiunto nulla alla sostanza della storia di questo trio, ed invece funziona perchè le renditions furono eseguite con un piglio più focalizzato ed un energia che poteva creare spiragli per sviluppi futuri, che ovviamente non ci furono. 

E fa aumentare un po' il rimpianto perchè in fondo i Galaxie 500 furono un'incompiuta, un gruppo che forse non si prese abbastanza sul serio e non si concentrò per realizzare il meraviglioso disco che hanno soltanto sfiorato. Per fortuna, ci avrebbero pensato i Low a proseguire quella tradizione, con più talento e convinzione. A loro testamento, Decomposing Trees appare qui in una superba versione.

domenica 19 dicembre 2021

PJ Harvey ‎– White Chalk - Demos (2021)


Nel 2020, a 27 anni di distanza dai 4 Track Demos, PJH ha ripreso a pubblicare dei demos dei suoi vecchi dischi. Questa volta però non si è fermata, e ad una cadenza repentina la Island ha messo sul mercato tutte le versioni grezze dei suoi albums. Una tendenza strana e forse sintomatica, visto lo iato ormai di un lustro dal suo ultimo originale, interrotto soltanto da una bellissima colonna sonora.

White Chalk sembra essere il grande controsenso di questa operazione gigante, trattandosi del suo disco più scarno, dimesso e meno arrangiato della collezione. Fu il simbolo della massima introspezione ed abbandono, forse influenzato dalla fine di una relazione, fatto sta che mi prese il cuore fin dal primo ascolto e continuo a reputarlo il mio preferito, a dispetto della critica che non lo ha mai accolto bene. Inutile tornarci sopra più di tanto, questi Demos in fondo rappresentano una scusa per riascoltarselo, da poca che è la differenza sostanziale con l'originale (quasi nessuna strutturale, il canto più fragile ed incerto, un riverbero naturale che non guasta per niente). E godere di questa PJ così raccolta, intimista e superbamente di rottura per i suoi canoni.

venerdì 17 dicembre 2021

For Against - December (1989)


Due anni dopo il bel debutto di Echelons, il trio del Nebraska rilanciò con la propria formula da brillantissimi ritardatari del post-dark-punk, ma al contempo rinvigorendo ed irrobustendo la  componente spleen-pop-jingle-jangle che, complice il rimpasto di formazione, verrà smascherato definitivamente qualche anno dopo con il bellissimo Aperture. Più che un disco di transizione, quindi, una conferma di abilità compositive (Sabres, Stranded in Greenland, The Last Laugh) e registrazione, eccellente nonostante l'indipendenza della proposta. Peculiare, più che nell'esordio, il percussionismo di Hill, un performer illuminato ed iper-dinamico (avvicinabile veramente a Stewart Copeland), capace di caratterizzare un suono che generalmente non lasciava molto spazio ai batteristi. Il suo abbandono costringerà il gruppo a cambiare stile in maniera drastica, ma la storia dei For Against proseguirà con ottimi risultati anche molti anni dopo, così come tante altre storie di abbandoni dolorosi e non sostituibili con disinvoltura, a condizione di avere una minima scorta di talento.

mercoledì 15 dicembre 2021

Stray Ghost - If I Could Cross The Space To You (2020)


Come espressamente dichiarato, si tratta dell'ultimo disco del Fantasma Randagio. Anthony Saggers, giunto a 33 anni e sistematosi in Turchia dopo aver conosciuto la sua White Rose, è giunto alla conclusione di dover chiudere il glorioso ciclo che l'ha visto pubblicare tante belle perle nel corso di un decennio, per l'appunto, molto vagante. Condivido la sua scelta al 100%, dal momento che la sua torrenziale discografia può ritenersi più che completa. Partito come scultore di suoni e cattedrali imponenti, l'inglese ha via via affinato la sua arte verso un neo-classicismo minimale e sempre più emotivamente pregnante. Purtroppo, aggiungo io, senza guadagnare consensi nè un pubblico consistente.

If I Could Cross The Space To You sembra un titolo programmatico: se potesse arrivare ad un pubblico più vasto, se potesse colmare quella distanza, il buon Anthony meriterebbe un bel po' di plausi. Spero soltanto che non si arrenda e che trovi nuove forme di espressione per la sua grande anima. Non è il suo disco migliore, probabilmente, ma lo consiglierei a qualsiasi neofita disposto a mettere a disposizione delle proprie orecchie l'elegia della lentezza, della quiete e della contemplazione. E citando il mio pezzo preferito del lotto, è suonato quasi come un addio...

lunedì 13 dicembre 2021

Explosions In The Sky ‎– Those Who Tell The Truth Shall Die, Those Who Tell The Truth Shall Live Forever (2001)


Potremmo essere davvero in pochi a pensarla così (di sicuro la stampa lo esclude), ma il mio album preferito degli EITS resta sempre e comunque The Earth is not a cold dead place del 2003, un capolavoro grondante di emozioni, sobbalzi, lanci e cadute. Per me la miglior sintesi del loro selvaggio romanticismo resta fotografata in quel magico firmamento sonoro. Considerando che negli anni '10 hanno rilasciato soltanto 2 album che purtroppo hanno certificato un declino ispirativo forse inevitabile, è naturale andare a ripescare il loro secondo Those Who Tell the truth..., che all'epoca fece sensazione e li smarcò dall'ombra del paragone con i Godspeed. Non ascoltandolo da almeno 15 anni, resto con piacere dell'idea che fu disco seminale per tantissimi epigoni, che contenga grandi anticipazioni (Yasmin the light e With Tired Eyes...), e che abbia l'unica pecca di non essere perfettamente omogeneo, con qualche piccola dispersione. Un problema da poco, comunque, soprattutto in prospettiva. In fondo suonavano soltanto da un paio d'anni, e la sensazione di un gruppo capace di fare imprese la cogliemmo in tanti.
 

sabato 11 dicembre 2021

Toygasm ‎– Nighttime Rainbows (2020)

Altra porticina che si apre a seguito dello split di Lucky Pierre, anche se in ottica minore rispetto alla meraviglia targata Nyx Nòtt, a mio avviso disco dell'anno 2020. Durante la primavera 2020 Aidan Moffat varò la sua tape label personale Little Box Of Hiss, dedita a nastri registrati in solitudine, in sede casalinga. Che fosse per noia o per forzata inattività poco importa, perchè il Nostro è in una fase molto creativa e trovo giusto che si esprima in tutte le salse che gli vengono (così come su Twitter, dov'è verboso ai limiti dell'incontinenza). Toygasm è il primo capitolo, concentrato su suoni ricavati da giocattoli, apps, field recordings e tastierine di varia natura, con alcune comparsate vocali dei piccoli Samuel e Mabel, presumibilmente i suoi figli. E' quindi un florilegio di autoharp, carillon, melodiche, campanellini, tamburelli, cicalecci di pianino, nella consueta (e adorata, almeno da me) vena trasognata di AM, fra hauntologia polverosa e dolce malinconia. Un disco giocattolo, quindi, dedicato ai suoni dell'infanzia, che recupera gli intermezzi più ludici di alcuni capitoli Lucky Pierre e li amplia con il suo proverbiale know how. Una delizia a cui abbandonarsi, che si può apprezzare ancor di più se si ha un figlio in età infantile ed al quale consiglio anche di provare a somministrare. Il mio ha gradito.
 

giovedì 9 dicembre 2021

Hash Jar Tempo ‎– Well Oiled (1997)


Devo ammetterlo, non ho mai approfondito la figura di Roy Montgomery, chitarrista nato a Londra ma cresciuto neozelandese, attivo da una quarantina d'anni nell'underground, ma che ha guadagnato un minimo di visibilità soltanto a metà '90's con qualche album su Kranky. Forse sarà anche perchè alcune delle sue collaborazioni più rinomate (Dadamah e Dissolve) mi hanno tutt'altro che fatto impazzire. Eppure si tratta di un artista idolatrato da PS al punto di riuscire ad ottenere un ultra-raro 9/10 con questo Well Oiled, lunghissima escursione psichedelica condivisa con gli statunitensi Bardo Pond, probabilmente anime gemelle nello spirito e nelle applicazioni. Data la natura presumibilmente improvvisativa del disco, si dev'essere trattato di un agglomerato di jams come viene viene, nel senso più nobile del termine.
La solista di RM è indiscussa protagonista e perno centrale, sia in veste acida e puntuta che in forma di rombo galattico. Sette pezzi senza titolo, della durata da 2 a 18 minuti. Difficile aggiungere qualcosa di concreto a livello descrittivo: è senza dubbio un gran bell'ascolto per chi ama queste sonorità, ma da qui ad assegnargli 9/10 ce ne corre. Evidentemente PS si trovava in una fase particolare quando ha fissato il voto...assunzioni di natura chimica?

martedì 7 dicembre 2021

Von Lmo ‎– Tranceformer (Future Language 2.001) (2003)


Antologia redatta dalla spagnola Munster nel 2003, che si è occupata di recuperare un tesoretto niente male degli archivi di Frank Cavallo, un personaggio del quale ho già disquisito in un paio di occasioni. Trattasi di un doppio che include Future Language, l'album di debutto risalente al 1981, che in larga parte fu ripreso dopo ben 13 anni dalla Variant in Cosmic Interception. Poco altro da aggiungere, se non che le registrazioni lo-fi in prospettiva non rendono migliori le versioni originali, ma è un dettaglio tutto sommato trascurabile: irresistibile acid-punk fantascientifico suonato con furore iconoclastico.
Transformer invece recupera una decina di inediti e rarità assolute registrate in maniera precaria fra il 1978 ed il 1984, con ogni probabilità tutte in presa diretta; tutta roba che strameritava di uscire dai cassetti. Eccezionali in particolare We're not crazy, Transformer, Flying Saucer '88, Zivoid Is Cuming, Womb of eternity. In due parole, un suono anfetaminico che eredita le componenti più dure di Hawkwind, MC5, ma con quell'aggiunta cyberpunk che lo rendeva originalissimo. E con un frontman oggettivamente superbo e folle, dalla voce carismatica ed incontrollabile agli assoli sulfurei di una chitarra che in più di un tratto anticipa clamorosamente le scorribande yankee del noise-rock '80/'90.

domenica 5 dicembre 2021

Flying Saucer Attack ‎– Further (1995)


Il secondo album dei FSA, dopo gli sconquassi eterei in feedback di Rural Psychedelia, si propose di mettere un minimo di ordine in un sound caotico ed apparentemente incontrollabile, e gettò la maschera rivelando un songwriting acustico di finissimo cesello; In the light of time, Come And Close My Eyes, For Silence, She is the daylight sono gemme trasognate a base di fingerpicking cristallino e la voce di Pearce echeggiante, in pura trance. Al di sopra di queste tenui architetture, l'eruzione di chitarre laviche e risonanze al di sopra della soglia di controllo continuò ad essere il trademark insostituibile del duo, facendo sì che Further resti un gioiello di stridore e stupore, come quello che instillò all'epoca, al netto della sorpresa del debutto. Dopo oltre un quarto di secolo, conserva ancora tutte le caratteristiche essenziali e non risulta per nulla datato.

venerdì 3 dicembre 2021

Windhand ‎– Eternal Return (2018)


Dopo un disco interlocutorio nel 2015, i Windhand sono tornati ad una prova convincente ed ai livelli eccelsi dei dischi con cui li avevo conosciuti. Non ci sono stravolgimenti sostanziali, sempre di doom-metal melo-ortodosso si tratta, ma sono i dettagli in particolare a far brillare Eternal Return. Qualche striata galattica di chitarra che sparge un po' di pepe, un paio di pezzi standard particolarmente riusciti (Halcyon e Eyeshine si candidano a palma del loro repertorio), un paio di varianti con bpm sostenuti (Red Cloud e Diablerie, e Pitchfork ha tirato in ballo il grunge.....), i fills del batterista più interessanti del solito ed una sensazione di compattezza granitica che in fondo stabilisce la loro cifra stilistica principale. Difficile stabilire se si tratti di un punto di non ritorno, perchè alla prossima prova sarà difficile fare di meglio, se non opereranno una rivoluzione netta e decisa.

mercoledì 1 dicembre 2021

Braen's Machine ‎– Temi Ritmici E Dinamici (1973)

 

Il secondo album della premiata ditta Alessandroni (aka Girolamo Ugolini) ed Oronzo De Filippi (aka Awake) non fu una replica della scatenata hard-library di Underground, bensì una più canonica rassegna di strumentali di sonorizzazione in guisa light, tutti di 3 minuti, con probabile focus sull'attività sportiva, come intuibile dalla cover e da alcuni titoli. Competizione, Attività all'aperto, Esercizi Ginnici, Allenamento, eccetera eccetera.

Una facciata a testa ed il vinile è diviso in due come una mela. Meglio quella di Alessandroni, raffinato ed ispirato come gli capitava spesso in quegli anni, capace di snocciolare composizioni elegantissime per sezione ritmica, chitarra discreta ed ornamenti di moog, celesta (o spinetta) e flauto. Più paciosa e gigioneggiante quella di De Filippi, che immagino abbia utilizzato gli stessi session men. L'impressione finale è comunque quella di un disco coeso, che come una macchina del tempo ci teletrasporta nell'Italia post-boom, per una mezz'oretta abbondante di purissimo gusto.

lunedì 29 novembre 2021

Zelienople ‎– Give It Up (2009)


Abbandona (o abbandono, o altre declinazioni), questo l'invito derivante dal titolo dell'ottavo albun degli Zelienople, a quel punto ridotti a trio rispetto agli inizi. Io invece lo tradurrei in abbandonati, oppure mi abbandono all'ascolto, inerme e sognante. Il problema del gruppo di Matt Christensen è che la loro discografia potrebbe essere zeppa di dischi che dicono nulla e tutto al tempo stesso, ma semplicemente bellissimi come Give It Up, e mi occorrerà un sacco di tempo per indagare (per tacere dello stesso MC, di cui conosciamo molto bene un paio di eccellenti solisti, ma anche qui in termini di prolificità non si scherza).

Un inebriante punto d'incontro fra la psichedelia polverosa, l'ambient rock di derivazione nobilissima, certo shoegaze (a volte mi vengono in mente gli Slowdive di Pygmalion). Non ci sono ombre emotive in questo trasognato girovagare per canovacci ripetuti all'infinito, con la compassata e sempre brillante chitarra di MC e le sue nenie vocali fragili  ed incerte a costituire la spina dorsale di ogni pezzo, coadiuvato dalle percussioni quasi impercettibili di Mike Weis e dai corredi d'ambiente di Brian Harding. Difficile scegliere quale traccia si elevi sulle altre, perchè la dimensione onirica del lotto prevale su qualsiasi metro di giudizio e l'eventuale desiderio di skippare è inibito.

Musica che dice tutto e nulla, musica fantasma, che non invita ma che crea campi magnetici. Un inno alla libertà di ascolto. Tutto ciò che voglio è calma.

sabato 27 novembre 2021

Screams From The List #102 - Der Plan ‎– Geri Reig (1980)


L'elettronica deviata, low-cost e spesso demenziale dell'album di debutto del trio tedesco, in verità un nome che non ha fatto la storia come altri coevi (i DAF in primis, sicuramente di altra levatura) ma che conserva un fascino di datazione soggettivo. L'influenza dei padri putativi Kraftwerk veniva stemperata con un attitudine spesso residentsiana, con qualche sprazzo Throbbing Gristle, un approccio iconoclastico che dell'attitudine teutonica conserva il rigido rigore da Dna ma anche un'autoironia irresistibile che dopotutto, è anche il suo forte.

giovedì 25 novembre 2021

Ange – Le Cimetière Des Arlequins (1973)


Li definirei il corrispondente del Banco di oltralpe, con tutte le dovute specifiche: ottimi musicisti ma concentrati più sulle ambientazioni che sullo sfoggio di tecnica, dotati di fantasia e teatralità, dotati di partiture non troppo complesse, crepuscolari, a tratti tremebondi ma poi capaci di momenti di alto romanticismo. Il parallelo non si ferma qui: a guidare il gruppo due fratelli tastieristi. A voler essere pignoli, vero che non c'era nessun omone al microfono, bensì cantava uno dei sopracitati, e lo faceva in modo egregio.  Con questo secondo album, si imposero come alfieri nazionali del Prog ortodosso. La peculiarità tecnica che spicca è un organo effettato travestito da mellotron che rende il suono più pieno e rotondo.

E pensare che il disco si apre con una straniante e marziale cover di Jacques Brel; a non saperlo prima, si direbbe un loro originale. Il pezzo forte del lotto è Bivouac, divisa in due parti, con una progressione quasi hard da brividi, ma brillano molto anche De Temps en Temps e Aujourd'Hui....Il pozzo transalpino è ancora colmo di tesoretti da scoprire, mi sa.

martedì 23 novembre 2021

Lingua Ignota ‎– Let The Evil Of His Own Lips Cover Him (2017)


Dietro il moniker italico, la performer di origine californiana Kristin Hayter, esordiente non più giovanissima con questo autoprodotto ma diventata tempo zero una delle sensazioni più forti degli ultimi anni. Le similitudini ed i richiami inevitabili a grossi nomi del passato (Nico, Diamanda Galas), aggiungerei per i tempi attuali anche Zola Jesus, lasciano tutti il tempo che trovano di fronte ad un approccio a dir poco shocking. Il suo canto, dalla tecnica impeccabile grazie agli studi intrapresi in tenera età e a varie doti naturali, ha giocoforza un ruolo centrale nei 5 pezzi dell'album, ma è il concetto generale (la violenza maschile, che ha dichiaratamente ammesso di aver subito e raccontato nelle liriche) a farla da padrone, permeando l'atmosfera generale in un pauroso, struggente blocco fuso di portata emotiva che ha ben pochi eguali.

Con delle doti così impressionanti di presenza ed una performance stellare, musicalmente alla Hayter è bastato ben poco, sia in termini di composizione che di arrangiamento. Lo strumento portante è un organo minimale, dal suono squisitamente chiesastico. Gli orpelli si possono contare sulle dita di una mano: spoken word (funzionali al racconto del concept), qualche concretismo, sparuti disturbi harsh-noise, qualche tonfo percussivo. Lo snodo centrale sta nei 15 minuti di That he may not rise again, un autentico cunicolo di orrore, in cui la Hayter si lascia andare ad una prova teatrale sovrumana.

Un intero disco di questo tenore sarebbe stato eccessivo, e qui sta la prova di saggezza. Intorno a quel monolite spaventevole, la Hayter indugia sulla sua vena eterea, si potrebbe definire sognante se non sapessimo che razza di bestialità l'ha ispirata, si potrebbe dire liturgica vista l'atmosfera. Si entra con Disease of men, lunga nenia minimalistica con spoken word di sottofondo, e la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di unico è già materializzata. La voce virtuosa non è uno strumento nè di vanità nè di lamento, è strumento a sè. Segue Suffer Forever, dallo stesso tenore ma che rilancia in termini di composizione; il tema inizia in maggiore, poi si ferma e muta in un minore rabbrividente. La meraviglia prosegue con The chosen one, che lascia spazio ad un pianoforte che più nudo non potrebbe essere (non siamo distanti dall'ultima Grouper), un mantra da pelle d'oca che al proprio termine può lasciare spazio solo al silenzio.

La chiusura (cover di un pezzo reggae degli anni '80(!), seppur servita alla sua maniera), è il punto debole di un album che quasi rinfranca, perchè stempera l'abbandono totale in un gotico marziale alla Swans. E che non inficia il valore complessivo di un capolavoro che lascia tramortiti.

domenica 21 novembre 2021

Various ‎– Deep Six (1986)

Il leggendario sampler primo atto della C/Z Records, nonchè ritenuto primo vero atto deliberato, dichiarazione d'intento del Grunge. Soltanto due acts su 6 prenderanno il volo verso la celebrità; dei giovanissimi Soundgarden ancora piuttosto succubi delle radici hardcore (quindi subito prima della breve deriva wave delle prime pubblicazioni), con un Cornell quasi irriconoscibile, e degli altrettanto acerbi Melvins, già debordanti ma ancora un po' indecisi se spingere sul pedale dei bpm o trovare la quadra l'anno successivo col primo album.

Chi avrebbe meritato il successo, dopotutto, erano i Green River di Mark Arm e dei due futuri Pearl Jam, una band che in prospettiva avrebbe potuto fare sfracelli, ma la loro storia era già verso il capolinea. Chiudono il sampler 3 nomi minori; i Malfunkshun, pretenziosi nel loro glam-horror-sabbathiano, gli Skin Yard di Jack Endino, autori di un art-noise un po' velleitario ma tutto sommato dignitoso, e gli U-Men con un noise-voodoobilly divertente ma passabile.

I due pezzi dei Green River valgono il prezzo del biglietto, ed i 4 dei Melvins sono interessantissimi in prospettiva. Deep Six fu tutt'altro che un sampler professionale (la produzione latita parecchio), ma l'entusiasmo che lo circondava si percepisce tutt'ora col coltello. Dopotutto, erano bei tempi che presagivano una rivoluzione copernicana, e nel bene e nel male questi ragazzi ne furono protagonisti.

venerdì 19 novembre 2021

Al Cisneros ‎– Apple Pipe 7" (2020)


Dopo diversi anni di assenza, il ritorno di AC alle sue fulminee scorribande dub strumentali che mi piacerebbe ascoltare prima o poi sul formato lungo. Il suo è un rispettoso tributo a questa nobile tradizione giamaicana, ed in questo 7" i titoli anzichè indugiare sulle tematiche cristiane vertono sull'aspetto pratico meditativo (il gioco di parole Apple Pipe lascia i pochi dubbi al retro, No Tobacco...). Sul contenuto, poco da dire: 2 x 04 minuti plastici di sezione ritmica con un arabesco di fiati intercalato, immancabilmente mistico e visionario. Si può ascoltare anche 10 volte di fila, l'effetto è terapeutico.

mercoledì 17 novembre 2021

Madder Rose ‎– Bring It Down (1993)


La contagiosa effervescenza dei Madder Rose nel loro album di debutto, all'epoca pompatissimo da Planet Rock molto più della media delle testate giornalistiche che lo accolsero con un po' di freddezza. A quasi 30 anni mantiene ottimamente la prova del tempo e riascoltandolo con attenzione non si può fare a meno di rilevare l'abilità a 360° del chitarrista Billy Cotè, un tipo efficace che la sapeva lunga, anche oltre l'indie-pop che mise in piedi col quartetto, lasciando le luci della ribalta alla vocalist Mary Lorson. Sotto una scorza melodica impenetrabile, i MR potevano contare anche su un anima dolcemente melanconica, vagamente imparentata con i Mazzy Star, ma più sbarazzina e gioviale. Un hit come Swim avrebbe potuto sbancare mezzo mondo, se Cotè non avesse inserito quel trapano costante in sottofondo. 

lunedì 15 novembre 2021

Idles ‎– Ultra Mono (2020)


Gli Idles ce l'hanno fatta, ad ottenere popolarità, e sono volati in cima alle classifiche di popolarità in Gran Bretagna, complice probabilmente l'effetto Brexit per l'elevato tasso di politica nelle loro declamazioni (e dal loro look si intuisce facilmente da quale parte stanno, direi). Ultra Mono, terzo disco in quattro anni, non differisce per nulla dai precedenti e questo poteva teoricamente rappresentare un limite, quindi il discorso si sposta sul fattore de gustibus, perchè oggettivamente sarebbe difficile mettere in discussione la loro carica adrenalinica. Potrei dire che la presenza (marginale, in verità) di David Yow fa curiosamente venire in mente certe pagine dei Jesus Lizard, con le dovute differenze tecniche, ma sarebbe una forzatura. La deriva quasi gotica di A hymn verso la fine è una tregua significativa ma non sposta l'asse di un granchè. Sempre punk'n'roll sguaiato, dirompente e fracassone, ma fatto dannatamente bene. Per il declino c'è ancora tempo.

sabato 13 novembre 2021

Black Flag ‎– Slip It In (1984)


Terzo album dei BF, all'insegna della transizione verso aree all'epoca impensabili. Ci aveva già pensato My War,, l'anno precedente, a chiarire gli intenti di Ginn & Co. Su Our Band Could be your life, nel capitolo a loro dedicato, mi è rimasto impresso il passaggio in cui Rollins rievocava quel periodo in cui facevano letteralmente la fame, ma erano talmente orgogliosi del loro output e del loro suono che i morsi potevano essere sopportati. L'ingresso della bassista Kira la novità sostanziale, il tiro pazzesco generale una garanzia, su tutte Slip it in, Black Coffee, The Bars. Le deviazioni sempre interessanti, come il free-jazz-punk di My Ghetto, lo strumentale sincopato Obliteration, la strascicata Rat's eyes e la lunga mescolanza hardcore-blacksabbath di You're not evil. Ginn sempre più incontenibile soprattutto negli assoli, Rollins sempre più animalesco, Kira un treno incollato al vortice batteristico di Stevenson. Con queste performances e 200 concerti l'anno, aveva ragione Rollins a mangiarsi una barretta di nascosto dagli altri per trovare un po' d'energia.

giovedì 11 novembre 2021

Peter Hammill ‎– In Translation (2021)


Si è voluto togliere anche questo sfizio a 73 anni, ed inevitabilmente è tornato ad essere chiacchierato qui da noi. 10 Covers delle più disparate provenienze, accomunate dal risalire come minimo a 40 anni fa, e la presenza ingombrante di De Andrè, Tenco e Ciampi (tradotti), che in qualche modo giustifica la felpa (anche se un po' inquietante, a dire la verità) e le interviste sulle testate nazionali, mancanti da un bel po' di tempo.

In translation è un prodotto del lockdown in tutto e per tutto: incapace di concepire nuove composizioni a 3 anni di distanza da quel gioiello che fu From The Trees, PH si è dedicato alla brillante reinterpretazione di artisti che possono più o meno aver avuto un importanza nella sua formazione musicale, anche solo a livello concettuale. A partire dall'inizio, con lo stupendo traditional americano anni '30 The Folks who live on the hill, si assiste ad un festival che include, oltre ai 3 italiani, classica, tango e musical. Sulla carta non molto entusiasmante per i miei gusti standard, ma la cruciale maestria di PH si conferma immutabile nell'impossessarsi delle materie e di farle proprie, esattamente come ha dichiarato nelle sue intenzioni.

Il disco è arrangiato in maniera ricca, seppur senza alcuna forma di percussioni, ed esalta l'eterno pathos del Nostro in un percorso melodrammatico. L'ha detto bene: le radici britanniche non potrebbero essere più distanti da Il Vino o Ciao Amore, ma il fascino della sfida sta proprio nel cercare di scovare i lati in comune, ed aggiungere l'ennesimo capitolo esistenziale-filosofico di questo grande vecchio.

martedì 9 novembre 2021

Motörhead ‎– Overkill (1979)


Secondo album, conferma di quanto espresso nel formidabile debutto. Forse una carica meno esplosiva, ma in compenso qualche trovata di maggior poliedricità (Capricorn ed i suoi riff angolari, Metropolis con il mid-tempo e la progressione quasi epica, il micidiale assolo di Lemmy in Stay Clean). Su tutto svetta però Overkill, con quell'attacco omicida a doppia cassa, le fermate e le ripartenze, quasi un manifesto espressivo ed efferato: quando il pezzo sembra essere terminato, per ben due volte Taylor riprende quella specie di martello pneumatico e chiarisce gli intenti: sempre uguali a sè stessi, sempre irresistibili. Eccellenti persino le due b-side presenti nella ristampa, soprattutto Like a nightmare, e divertentissima la rendition di Louie Louie, con quell'ai-ai-ai-ai-ai di Lemmy che svela un lato quasi comico. Molteplici i pezzi che finiranno sulla scaletta della loro pietra miliare.

domenica 7 novembre 2021

Clinic ‎– Walking With Thee (2001)


Forse il più raffinato e ricercato album dei Dottori, ma non per questo meno irresistibile di altri pregevoli capitoli della loro carriera. La prescrizione la solita, una garanzia: un vintage-pop beffardo ma venato di trovate più arty, come le frequenti incursioni di armonica in lungo ed in largo (che fanno un po' Gang Of Four), le scansioni di vibrafono nell'introduttivo, splendido Harmony, la suadente atmosfera notturna di Mr. Moonlight, il beat elettronico dell'ipnotico Come into our room, e la chiusura pastorale di For The Wars, un walzer in punta di dita che rievoca persino Arthur Lee. Poche ma gratificanti le puntate grintose, come la title-track ed il garage-punk di Pet Eunuch, una scossa adrenalinica posta strategicamente a metà scaletta. Non c'è quasi nulla che non funzioni in Walking With Thee, un gioiellino da bersi come una bevanda fresca in piena estate.

venerdì 5 novembre 2021

Caretaker ‎– Persistent Repetition Of Phrases (2008)

 
Nel percorso che portò Leyland Kirby ad elaborare il suo capolavoro assoluto come Caretaker, Persistent Repetition Of Phrases è ben più di un passaggio di transizione, anche se sulla carta lo sembrerebbe: ad esempio ci sono i primi riferimenti concreti alle malattie da demenza senile (la traccia di chiusura si chiama Unmasking Alzheimer's), piuttosto che alla pura amnesia, come ad intraprendere una progressione metaforica. La ballroom music si era già affacciata nel suo universo con A Stairway to the stars e We'll all go riding on a rainbow, ma erano rimasti episodi marginali. Successivamente era piombato in abissi di dark ambient con i monolitici Deleted Scenes / Forgotten Dreams e Theoretically Pure Anterograde Amnesia. 

Persistent indugia equamente in entrambe le direzioni, variando le atmosfere in maniera sapiente lungo le 9 tracce, mixando le dinamiche in modo da evitare sospensioni troppo eteree: si passa dagli abissi alle languide trombe in un men che non si dica, dalle voci sepolcrali alle orchestrine fantasmatiche in una soluzione ben divisa ma omogenea. E' uno dei lavori più haunt-core di Kirby, probabilmente eclissato dal riscontro impressionante di An empty bliss, ma di sicuro ancora molto degno di essere vissuto in più consumazioni consecutive, per essere meglio avvolti nella paranormalità e nel polveroso microcosmo del Custode.

mercoledì 3 novembre 2021

Kingdom Come ‎– Galactic Zoo Dossier (1971)


Dismesso il suo Folle Mondo, Arthur Brown riassemblò un gruppo con la nuova sigla Kingdom Come, assoldando 4 musicisti relativamente sconosciuti, sia prima che dopo, ma con la quale attraversò un triennio di fuoco culminato con lo sperimentale Journey, incompreso per moltissimo tempo. Galactic Zoo Dossier fu un esordio pirotecnico, molto prog nella sua essenza ma molto esteso in termini psichedelici. La voce potente e teatrale di AB trovò complemento perfetto in un sottofondo potente e coeso, schizofrenico e straboccante di svolte e scarti improvvisi, che non poteva non aver assimilato qualcosa dagli Atomic Rooster del suo ex-sodale Vincent Crane, ma con una buona dose di follia in carniere. Degnissime di nota Galactic Zoo, Gypsy Escape, la quasi beefheartiana Metal Monster.

lunedì 1 novembre 2021

Fine Before You Came ‎– Forme Complesse (2021)


Sembra davvero strano, ma non avevo mai ascoltato i FBYC. Eppure sono in giro da 20 anni, ed oltretutto sono sempre stati molto inneggiati da Francesco Farabegoli, un giornalista che leggo sempre molto volentieri per il suo stile peculiare (non che tutto quello che segue lui possa piacere a me, beninteso, anzi, però ne ha sempre parlato con toni molto concettuali, quasi mistici). Ma dall'altro canto, il cosiddetto emo-core non mi ha mai attirato e nonostante l'inevitabile (con l'età) evoluzione stilistica di un gruppo davvero molto unito per questi tempi, per ascoltarli mi ci è voluto un 8/10 di Onda Rock ed un tag àulico, obsolèto, stantìo: slow-core.     Slow-Core??

Il disco inizia con degli accordi strascicati in saliscendi, doppiati ben presto da una voce stentorea e dolente, ed un'altra chitarra che infioretta (forse due), abbellisce con semplicità. Una batteria sventaglia piano il ride, poi dà qualche colpo al rullante. I bpm sono al massimo sindacale del taggaggio slow-core, ci può stare. Il morale cambia in positivo e c'è una specie di chorus in maggiore, che fa l'effetto di un camino scoppiettante al rientro dal gelo (ma a me piaceva più stare fuori nella neve, se devo dire la verità). Questi 5 minuti e mezzo sono Gittana, la traccia iniziale di Forme Complesse. Inutile sottolinearlo, un capolavoro di melanconia impressionistica. Mi inquieto ed inizio a pensare che forse mi sono perso qualcosa di importante, qualcosa di anomala milanesità.

La mezz'oretta seguente non replica il miracolo, ma quantomeno serve ad inquadrare un entità che forse sì, mi sono perso ed avrebbe meritato un piccolo approfondimento. Slow-core è un tag molto forzato e non lo condivido, al netto di Gittana: quello dei FBYC è un post-post-emo-post-rock in cui il lavoro delle chitarre ha grande importanza, la ritmica è ricercata ma non ossessiva, distaccato il giusto per non sembrare troppo viscerale (nè troppo derivativo), con il cantato in italiano e tutte le problematiche che si porta dietro (lodevole, lodevolissimo, originale e tutto, ma alla lunga un po' limitante e monocorde, chissà cosa ne pensa Federico Fiumani....). Adesso vado a scandagliarmi il loro catalogo e chissà che non riesca a scovare altre 2-3 gittane. Sarebbe un successone.

sabato 30 ottobre 2021

Stars Of The Lid ‎– Gravitational Pull Vs. The Desire For An Aquatic Life (1996)


Penso che scrivere degli SOTL sia fra le imprese più difficili nel cercare di descriverne la musica, soprattutto quando si sono già spese le (poche) parole ritenute appropriate, impiegate per i loro lavori ritenuti (giustamente) i migliori, cosicchè gli altri rischiano di passare in un secondo/terzo piano, di essere considerati minori. Un peccato, così come un peccato che siano fermi (si siano fermati) da ormai più di un decennio. Gravitational fu una transizione importante, perchè passò dal primo, tutto sommato grezzo episodio ad una nuova fase, più distensiva e panoramica. Le lunghe suite iniziano a prendere il sopravvento, la collisione Brian Eno vs. Klaus Schulze si materializza, come un colosso pulverulento pronto a dissolversi nella propria materia. Difficile trovare altre parole, poi è chiaro che Gravitational resta un po' all'ombra delle titaniche imprese che realizzeranno i due texani da lì agli anni successivi, ma è sempre bello abbandonarsi a questi suoni stanchi e fuori da ogni dimensione.

giovedì 28 ottobre 2021

Jesu ‎– Terminus (2020)


Un benvoluto ritorno per Justin Broadrick aka Jesu, che in solitaria non pubblicava da ben 7 anni, nel frattempo c'era stato il ritorno di Godflesh, l'epifania collaborativa con Markone Kozelek, diciamo riuscita al 70/80% nel 2016 e poi conclusa in modo scarso nel 2017. Terminus ritorna grosso modo a quello che gli riesce meglio, ovvero a quello slow-doom-gaze che gli fece raggiungere vette molto alte una decina d'anni fa, rilasciando senza timori quell'influenza redhousepaintersiana che tanto mi emoziona e mi fa sentire ancora giovine.

Il punto di partenza per un margine di miglioramento è contenuto in 3 delle 8 tracce presenti in scaletta: la batteria umana di Ted Parsons, l'immarcescibile batterista decano e veterano di tante band storiche. A dirla tutta, sono 3 performances che probabilmente la maggioranza dei batteristi professionisti sarebbe stato in grado di fare, per la loro natura pacata e minimalista, ma gia di per sè sono un simbolo di ciò su cui dovrebbe e potrebbe insistere JB: l'ulteriore umanizzazione di un suono che, ripetendosi, rischia di rinchiudersi in una nicchia sempre più elusiva.

Due di questi pezzi, la title-track e Don't wake me up, sono i migliori del disco, insieme a Sleeping in. Escluse un paio di parentesi debolucce, Terminus è un altro rifugio confortevole per chi ama il lato più intimista e riflessivo di JB, con quel passo di tartaruga sotto il sole, con la corazza non scalfibile ed il cuore in mano.

martedì 26 ottobre 2021

Screams From The List #101 - Robert Ashley ‎– In Sara, Mencken, Christ And Beethoven There Were Men And Women (1974)


Scherzi della List. Ma quanto coraggio il buon Gianni Sassi, a fare la collana Nova Musicha, e forse ancor di più nel pubblicare questo solco dello statunitense Robert Ashley, sperimentatore ardito e multimediale attivo su più fronti. Solco che fu esclusiva italica fino alla prima ristampa americana, avvenuta quasi 30 anni dopo. 40 minuti di monologo robotico, che assomiglia ad una lista infinita di nomi con diversi intercalari (il finale very titanically è scultoreo), con un interessantissimo sottofondo di moog ad opera del non accreditato Paul Demarinis. Uno schizofrenico ammasso di gorgoglii, glitches, bubboni e spirali che verso il finale viene doppiato da una specie di ritmo tribale sintetico, il valore aggiunto del solco.

Sulle prime l'avevo bollato come una palla mortale, ed invece, man mano che i 40 minuti scorrono, l'ipnosi è garantita fino all'assuefazione totale, magnetica, sulle onde sinusoidali di questo moog impazzito. Si astengano orecchie di quasi tutti i tipi perchè per una volta non sono d'accordo con Vlad Tepes, che lo classificò come poco più che una curiosità.

domenica 24 ottobre 2021

This Kind Of Punishment ‎– This Kind Of Punishment (1983)

 

Chiudo il discorso in studio per i Jefferies Bros con il debutto, dopo aver già dissertato in passato del loro secondo album e dell'antologia postuma. D'altra parte, quando si parla di Peter Jefferies, non si butta via niente.
Può essere divertente immaginare il disorientamento che ebbero i fan guadagnati con Nocturnal Projections; si ritrovarono in un area grigia, priva delle dinamiche wave ed inaspettatamente austera, con PJ alle prese con le prime composizioni al pianoforte, suonato in apparenza in maniera naif ma con un piglio espressionista fuori da parecchi canoni. Peter traino centrale, Graeme rifinitore a tutto tondo. TKOP ebbe il merito di rivelare l'arte povera di una musica drammatica, a tratti angosciosa ma con una visione panoramica oltre l'introspezione nuda e cruda. Pezzi superbi come Ahead of their time, After The Fact, In View of the circumstances, Two minutes of drowning ne furono l'epitome.

venerdì 22 ottobre 2021

Drose ‎– Boy Man Machine (2016)


Notevolissimo debutto di un trio di Columbus, Ohio, che sviscera un ibrido inopinato di noise destrutturato, altamente percussivo, con chitarre abrasive ma mai veramente cattivo, semmai piuttosto teatrale per via della recitazione del cantante, che sembra un improbabile incrocio fra Al Johnson degli U.S. Maple, Les Claypool ed il giovane Michael Gira. Proprio i primi Swans sembrano essere un punto di riferimento fondamentale per i Drose, ma al netto della spietata tracotanza e con una predilezione per la nettezza e la pienezza delle chitarre. I contemporanei Daughters possono essere un altra pietra di paragone, ma con un attitudine molto più sperimentale.

La tocco piano: le fasi più asfittiche, alla moviola pura, immerse nel silenzio apocalittico, possono ricordare addirittura i gloriosi Khanate di Capture & Release. Ma andiamoci piano, perchè alla lunga Boy Man Machine respira di aria propria, e non è di certo la più sana che si possa assumere. E' un disco di sostanziale disturbo, di disagio riverberato e come detto, talmente destrutturato da tenere sempre altissima la soglia dell'attenzione. Sarà molto interessante sentire il proseguio, se ce ne sarà uno. Chissà, il filone potrebbe essere il caustico slow-core della traccia finale, His Reflection, che chiude con uno straniante melodismo, in precedenza del tutto assente.

mercoledì 20 ottobre 2021

Pierre Henry & Michel Colombier ‎– Les Jerks Électroniques De La Messe Pour Le Temps Présent Et Musiques Concrètes Pour Maurice Béjart (1968)


Antologia sistemata un po' così (come spessissimo è capitato ai grandi maestri dell'avanguardia di oltre mezzo secolo fa) del grande PH. Si potrebbe discutere a lungo di questo argomento e delle scelte dei discografici, ma in fondo parliamo ormai di preistoria e lo storcimento di naso alla lettura delle liner notes passa all'ascolto di una prova monumentale di questo maestro anticipatore. 

La mini-suite di 10 minuti Messe Pour Le Temps Présent fu scritta a 4 mani con Michel Colombier, autorevole compositore e librarysta del tempo (grossomodo una specie di Piero Umiliani d'oltralpe, a leggerne la bio), ed è una deviazione illuminata dal percorso squisitamente avant, grazie all'apporto di una band di session-men che snocciolano una variopinta sarabanda acid-beat-rock in linea con le sonorizzazioni meno ostiche, su di cui PH sembra divertirsi un mondo a lanciare strali e bubboni di audio generators. Laterale, ma significativo e godibile.

Il maestro riprende pieno possesso della situazione nel restante programma del vinile, con una specie di best of degli anni immediatamente precedenti. Ben poco altro da dire in merito, se non ribadire che le sue composizioni estraevano suoni da una miniera inesauribile di idee, di sviluppi atonali che ancora oggi, a mio avviso, incutono un certo timore reverenziale.

lunedì 18 ottobre 2021

Gerogerigegege ‎– > (decrescendo) (2019)


Mi ero completamente perso il ritorno di Juntaro Yamanouchi nel 2016, dopo un silenzio di 15 anni in cui i suoi fans si erano chiesti che fine avesse fatto, e durante il quale era girata persino la voce che fosse scomparso. Nel suo tipico stile massimalista, da allora ha fatto uscire una pioggia di titoli, quasi tutti riguardanti faccende di archivio, sia sul campo che sul palco. Due gli album di inediti, di cui questo > (decrescendo) costituisce la sconvolgente sorpresa, più o meno come fece un quarto di secolo prima il verboso e sommesso Endless Humiliation. In ogni caso, come sempre si astengano i palati e le orecchie fini, si adeguino i concettualisti. 40 minuti notturni di frinire incessante di cicale e grilli su cui JY suona una sequenza ipnotica e soffusa di hapi drum, una specie di piccola steel drum che fa un suono un po' meno acuto di un carillon. Le intromissioni sono piuttosto rare: il rombo di un motociclo (o di una Ape??) che passa vicino all'improvvisato stage, qualche volatile (oche?) che starnazza a distanza. A 7 minuti dalla fine, un paio di uomini scoppiano a ridere fragorosamente per qualche secondo. Passano un paio di auto, i volatili si fanno nervosi. Alla fine, un sibilo costante invade il campo ed oscura sia le cicale che l'hapi drum, fino alla dissolvenza.

Come disse Tedio Domenicale, se mai i Gerogerigegege potessero fregiarsi di un miglior album, questo ci andrebbe molto vicino come fece Endless Humiliation. Svolta ambient per Juntaro?


sabato 16 ottobre 2021

Whipping Boy ‎– Submarine (1992)


Mi ha fatto un certo effetto l'anno scorso, per il 25ennale di Heartworm, notare l'enfasi riservata alla rivalutazione di quello splendido album, al punto di ritrovarsi altissimo in un poll dei migliori dischi irlandesi di tutti i tempi. Che i WB siano stati sottovalutati, maltrattati dalla major di turno, forse inadatti a gestire la pressione, non c'è da discutere. Il loro talento cristallino avrebbe meritato molto di più, in primis la prosecuzione di una carriera troppo poco produttiva. Certo non potevano viaggiare nel tempo, ma se fossero riusciti a resistere qualche anno forse sarebbero riusciti a saltare sul vagone del revival new-wave con agilità, magari ritrovandosi di fianco ai National come esposizione....

Dopo un paio di EP, nel 1992 esordirono lunghi con Submarine. Lo stile adulto e magnetico di Heartworm era ancora di lì a venire, ma già si poteva intuire che c'era del grosso talento al di là delle influenze principali (Velvet Underground e lo shoegaze in primis, ma io scomoderei Pink Floyd e Joy Division senza farmi tanti problemi). Ci sono dei pezzi che hanno proprio le stigmate del carisma e della maestria compositiva (Astronaut Blues, Submarine, Bettyclean, Buffalo, Beatle), ma è un puntiglioso primeggiare di poco su un disco praticamente perfetto nella sua selvatica produzione lo-fi. E' un piccolo capolavoro da recuperare a tutti i costi, a maggior ragione perchè ombreggiato da Heartworm.

giovedì 14 ottobre 2021

Bonnacons Of Doom ‎– Bonnacons of Doom (2018)


Interessante formazione stoner-gaze con tanto di travestimenti tenebrosi e cantante virtuosa da Liverpool. La mia personale classificazione è causata dalla collisione continua fra ritmiche telluriche e cristallizzazioni chitarristiche, sia distorte che no. La vocalist, col suo stile ossessivo ma sempre melodioso, fornisce il plusvalore di queste 5 lunghe tracce, molto fisiche ma anche ipnotiche nelle loro sequenze circolari. L'insieme ha molto sentore ritualistico-metropolitano, ed il fascino accresce con gli ascolti, dato che piccoli dettagli semi-nascosti affiorano a più riprese. Sostanzialmente nulla di nuovo, ma a modo suo molto originale.

martedì 12 ottobre 2021

Zamla Mammaz Manna ‎– Familjesprickor (1980)


Secondo ed ultimo capitolo con le Z per i 4 mattacchioni svedesi, epilogo necessario a rendersi conto che si era concluso un ciclo fantastico per il RIO tutto, e che si era fatta ora di porre la parola fine. Anche perchè dopo quel fenomenale capitolo del 1977, fare di meglio non era possibile. La loro musica, ormai del tutto strumentale, si era fatta più seriosa e forse troppo tecnica per salvaguardare l'animo ludico che li aveva resi grandi. Il progresso verso il virtuosismo a tutto tondo ci poteva stare, ma anche l'introduzione di Hollmer di certe tastiere elettroniche a tratti stona. A parte questo piccolo puntiglio, l'ascolto resta magnetico e l'alternanza fra atmosfere oscure (qualche piccolo flusso Magmatico in qua ed in là) e gag surreali mantiene il disco su livelli di prestigio assoluto.

domenica 10 ottobre 2021

Algiers – There Is No Year (2020)


Dopo la rivelazione del debut-album, di cui tutti restarono un po' sorpresi, il secondo non ha riscontrato gli stessi umanimi consensi. E adesso il terzo, con la critica freddina, per non dire contrariata. Ma dico io, cosa deve fare, di questi tempi, un gruppo che con fatica riesce a costruirsi una formula originale ed a proporla con un adeguato supporto promo-produttivo come quello della Matador? Deve portarla avanti, deve esplorare il filone fintanto che ne è convinto e che fa uscire dischi belli come There Is No Year, perchè di questo si tratta, del terzo centro degli Algiers e del suo nume FJ Fisher, performer emotivo e virtuoso come pochi. A livello architetturale, le composizioni concedono qualcosa alla fluidità ed alla melodia, ne escono capolavori come Dispossession, Unoccupied, Repeating Night, che rinforzano il mio personale convincimento che questo vocalist invasato sia la perfetta incarnazione di un coloured Nick Cave dei giorni nostri.

venerdì 8 ottobre 2021

Manic Street Preachers ‎– The Holy Bible (1994)

Ho sempre provato un'implicita simpatia per i MSP, nonostante non mi sia addentrato molto dentro il loro repertorio. Ho sempre trovato gradevole la voce di Bradfield, a mio avviso un cantante dal timbro personale e perfetto per il loro pop-core. Le trovate sensazionalistiche degli inizi per far parlare di sè stessi e catturare attenzioni si ritorsero loro contro, con la scomparsa nel nulla di Edwards nel 1995, non propriamente un evento gradevole per il tam tam mediatico. Nonostante questo, la stampa non perse mai occasione per bombardarli di critiche. L'anno prima avevano fatto il terzo album, questo Holy Bible dal titolone altisonante e presuntuoso come da copione, ma meglio dei due precedenti. Produzione compatta, un'occhiolino alla new-wave più energica e si toglievano da dosso etichette pericolose e paragoni ingombranti. Ricordo su un Indies dell'epoca il video di She is suffering, il pezzo migliore della lista, ma oggi si fanno apprezzare ancora Of Walking Abortion, 4st 7lb, The intense humming of evil, ovvero le deviazioni verso il loro lato meno ammiccante. 

mercoledì 6 ottobre 2021

Bologna Violenta ‎– Bancarotta Morale (2020)


Svolta essenziale quanto saggia da parte di Manzan che ha rifondato BV accantonando drum machine e chitarrone in favore di un batterista umano (Vagnoni, di tecnica a lui adeguata) e del proprio violino pirotecnico. BV va in acustica, quindi, se ignoriamo il synth-bass che di fatto svolge la funzione di un 4 corde, mantenendo però l'attitudine psicotica, funambolica, ultra-tecnica delle proprie micro-composizioni. Bancarotta Morale è un'altro concept sulla miserabilità umana (come dimenticare Uno Bianca???), ma se non altro offre anche scorci di ravvedimento nel pugno di storie raccontate a corredo dell'iconografia, sempre splendidamente anacronistica. Ne esce una specie di prog-core labirintico ed imprevedibile per la prima metà del disco, mentre l'altra è occupata da una suite di 19 minuti, Fuga, Consapevolezza, Redenzione, che mette da parte le doti strumentistiche per lasciare spazio ad una meditazione a base di organo e synth, un po' classica ed un po' ambient, che curiosamente mi ha ricordato certe pagine più levitanti dei Sensations' Fix. Un esperimento, anche questo, per virare su qualcosa di diverso, ma il forte di BV resta la ricetta unica che Manzan ha creato ed adesso continua a perpetrare con ottimi risultati.

lunedì 4 ottobre 2021

Mnemonists ‎– Some Attributes Of A Living System (1980)


Un anno dopo lo shockante esordio, il collettivo del Colorado eliminava la terminologia Orchestra e sfornava questo secondo, composto da 22 frammenti concatenati fra di loro. E di nuovo, piuttosto arduo trovare delle descrizioni: flusso magmatico senza soste che non lascia spazio all'immaginazione, Some Attributes è un labirinto inestricabile di chitarre dissonanti, fiati starnazzanti, percussioni di ogni tipo, un po' di elettronica antidiluviana, qualche sommesso schizzo di piano. Rigorosamente improvvisato, quasi senza overdubs, è un'esperienza atonale che va affrontata nella sua interezza, senza soste, per poterne apprezzare al meglio il concetto. Sempre che ve ne fosse uno a monte.

sabato 2 ottobre 2021

Lonker See ‎– One Eye Sees Red (2018)


Quartetto polacco con una manciata di dischi all'attivo, di cui questo su Instant Classic, costruito con una formula tanto semplice quanto efficace: due jams oltre il quarto d'ora che partono appena abbozzate e prendono corpo pieno col passare dei minuti, in cui la ritmica procede compatta (a tratti minimalista) ed attorno alla quale un'umile e funzionale chitarra offre il sostegno concettuale, lasciando al sax il ruolo di solista effettivo.

Lilian Gish sviluppa un tema angolare per i primi 7/8 minuti, per poi sfuriare in un ambito quasi stoner, col risultato di far brillare il sassofonista, che starnazza free ma con saggezza. Solaris pt.3-4 sfoggia un atmosfera quasi ultraterrena, per non dire onirica e squisitamente space-rock, ed ha il merito anche di dare spazio alle striature del chitarrista. La chiusura è riservata ai (soli) 5 minuti della title-track, che si apre con un corale (alla Liz Harris) della bassista, preludio ad un tema epico e sferragliante, che ricorda parecchio l'antichissima The House At Pooneil Corners dei Jefferson Airplane. Una specie di cerchio che si chiude, il rock psichedelico nella sua forma più primordiale ed istintiva.