lunedì 31 maggio 2010

Moltheni - I segreti del corallo (2008)

Iniziò coi primi dischi su major, rivelandosi da subito una voce estremamente personale e peculiare. Poi l'ascolano si è incamminato in un sentiero fuori dai canoni, ha lasciato il mondo mainstream e si è messo a passo lento a fare dischi melanconici, che raffigurano una persona un po' chiusa in sè stessa, ma che lascia uno spiraglio sul mondo fuori.
I segreti del corallo secondo me è il suo miglior disco, forte di una scrittura enfatica, una produzione vintage quanto curata, un'aura spiritata che non può non affascinare. Innanzitutto la voce che è sempre stata un tratto personalissimo, quel vibrato profondissimo, spinge ad un paragone proibitivo, troppo scomodo; anche il maggior genio melodico italiano di tutti i tempi aveva una voce atipica e particolare che o piaceva o non piaceva. Ma mi si consenta, se oggi qualcuno scrive che Dente ricorda certe cose di Battisti (ma per favore.....!), io mi permetto di dire che nei suoi momenti migliori Corallo riporta alle cose più introspettive del maestro della prima metà dei seventies.
Potrebbe essere stato anche registrato nel 1974, questo Moltheni; i suoni sono naturali ed umani al 100%. L'apertura è un killer: Vita Rubina è un fiume di spleen, che parte come sottile torrente fino a straripare in un delta di emozioni purissime e cristalline. Anche le tracce più spiccatamente melodiche (L'amore acquatico, Gli anni del malto, oh Morte, Ghost Track) hanno la stoffa del cantautore maledettamente italiano di razza, che non inventa nulla a parte le proprie songs.
I momenti più alti del disco, in primis l'apripista; Che il destino possa riunire è uno strumentale che si strugge fra bordoni di organo, brevi frasi di chitarre minime e piano rhodes, con una classe impressionante. In porpora potrebbe esser stato un hit oscuro del 1972, quasi demoniaca nella propria dolce ossessività. Nel finale il senso di disperazione si fa ancora più tangibile e Giardini trova il pathos giusto, sempre per chi lo possa apprezzare: Verano è ballad pianistica agonizzante, L'attimo celeste disincantata ed echeggiante; e chiudo col mio pezzo preferito, Ragazzo solo ragazza sola, così bello da far venire la pelle d'oca.
Il maestro avrebbe apprezzato, ne sono sicuro.

(originalmente pubblicato il 31/05/09)

Contrastate - A live coal under the ashes (1992)

Fu sempre il mitico Tedio Domenicale a farmi conoscere questo trio di sperimentatori inglesi, con la messa in onda della seconda parte della title-track di questo grumo sonico che ereditava le mosse più felpate dell'industrial anni '80, le fondeva con l'ambient e dava al tutto un tocco assolutamente europeo, con tanto di liriche politicizzate e sociologiche.
Nella fattispecie, la part 2 di ALCUTA era un dark-ambient statico e minaccioso sostenuto da un drone stabile con una sola variazione in corso, contornato di voci lamentose da girone di purgatorio, come dei cori gregoriani di frati sballati all'ennesima potenza. I Contrastate sapevano
incutere paura ed orrore ma erano abilissimi a variare i colori della tavolozza; le percussioni tribaleggianti della prima parte della title-track sfumano in un ambient quasi krauto, con campionamenti sinfonici, fino a ripiombare nel limbo evanescente che poi riprenderà con la 2° parte. Nel mezzo, la splendida Breaking the strawmen, con cattedrali di suono astratto che si stratificano con magica suggestione. Il folk flautato di The fingers of my foot trasfigura in un altro burrone di clangori metallici, voci inumane che sembrano provenire dall'oltretomba. Un lieve battito di percussioni anima l'epica An end marked by pessimism, con recitato finale (pare fosse dedicato all'europa dell'est e le sue situazioni politicamente contorte).
Riascoltandolo oggi, si capisce quanto erano avanguardistici Meixner e Grieves, fautori di sonorità che non erano pienamente associabili a nessuna corrente, bensì abili di saper prendere in qua e là per poter confezionare un prodotto personale e di alta tensione emotiva. E che di certo non era per tutti...

(originalmente pubblicato il 30/05/09)

Lowercase - Kill the lights (1997)

Ho impiegato ANNI per recuperare questo e il 3° disco dei Lowercase, che conosco da pochi mesi ma già hanno ripagato abbondantemente l'attesa. Kill the lights fu il risultato di una maturazione di Wasif e Girgus verso un suono meno ruvido ma più intenso ed elettrizzante rispetto alle aridità a spigoli vivi del debutto. Non fu la normalizzazione dovuta all'inserimento del basso ad arricchirli quanto la sostanza delle songs, che accentuavano lati drammaturgici impressi in una scorza acida ed imponente.
Il tunnel minimale di You're a king, il post-hardcore urlato a pieni polmoni di Rare Anger, la rovinosa grandinata di Stairways, la spirale slintiana di Neurasthenia, il labirinto senza uscita di Severance denied, tutto il disco è pervaso da un senso psicologico di tempesta imminente, con Wasif che alterna canto melodico al grido orrifico di retaggio hardcore che dominava sul debutto. Era comunque una fase di transizione per l'indo-canadese, che trovava il tempo di realizzare il suo primo piccolo capolavoro; l'iniziale She takes me, la migliore del lotto, dove l'angoscia viene mitigata da un riff potentissimo ed evocativo, di quelli che non si dimenticano.

(originalmente pubblicato il 29/05/09)

Eleventh Dream Day - El Moodio (1993)

Nella più ruspante tradizione neilyounghiana, gli EDD sono stati una delle tante band a riprenderlo con la consapevolezza post-punk o post-hardcore che dir si voglia, contribuendo a creare un ibrido che non era nè grunge, nè smaccatamente pop nè folk-country, ma agilmente tutte e tre le cose.
I chicagoani, che fra l'altro continuano tutt'oggi a vivacchiare, ebbero la possibilità di farcela nell'immediato post-grunge grazie a questo album uscito su major; furono fra i tanti ad essere scaricati, vittime dell'ignoranza dei discografici. El moodio è un compendio gradevole e melodico che fonde le armonie vocali bi-sex (reminiscenze degli X) con le progressioni chitarristiche enfatiche alla vecchio canadese, con songs tutto sommato buone, che fossero state messe in mano ai R.E.M. avrebbero scalato le classifiche, vista anche la pulizia sonora derivata dalla produzione alto-professionale. Da segnalare la velenosa Murder, la malinconica Figure it out, la sofficissima Honey Slide, l'impetuosa Motherland e il loro autentico tributo a Young, Rubberland, quasi un plagio di Cortez the killer.

(originalmente pubblicato il 28/05/09)

Disco Inferno - D.I. Go Pop (1994)

Criptici, illusionistici e catarifrangenti questi Disco Inferno (un nome non molto azzeccato per la verità) che dopo gli inizi in stile post-punk svoltò per questo sound annebbiato e disperso in un pulviscolo atmosferico indefinibile. Riconducibile alle cose più gelate dei Wire, per certi versi, D.I. Go Pop per la verità resta un disco molto originale anche se di tanto in tanto soffre di una disomogeneità che rende difficile l'ascolto. L'inizio è un pestone scurissimo di nome In Sharky water, ma è solo un illusione che lascia il posto ai minimalismi inauditi di New clothes. La batteria è praticamente assente, ogni tanto c'è qualche giro di basso dub, ma per il resto sono nastri e tastiere a dominare il campo. A crash at every speed sfoggia un fuzz bass su tappeti di rumorismo circolare. Le melodie vengono fuori prepotentemente in Even the sea e Next year, paradossali pop-songs per alieni sfigurati.
Quand'è alla fine, però, di tutto questo casino resta in mente soltanto il pezzo migliore, Starbound all burnt out & nowhere to go, evocativo drumless che si regge su un giro chitarristico dimesso e stanco, su un vociare campionato di bambini e flussi ipercinetici di nastri.

(originalmente pubblicato il 27/05/09)

Azalia Snail - Burnt Sienna (1992)

Altro che Kendra Smith, la vera psichedelia femminile era in mano alla Snail che non a caso si diceva fosse legata a Oxenberg dei Supreme Dicks. Una cantautrice dalla grazia tutta personale, che con questo Burnt Sienna disorienta con le proprie ballads sbilenche e devianti. Una sorta di Syd Barrett in gonnella, che dispensa sballi con voce elegante ed evocativa, pur non essendo certo una virtuosa. L'antitesi della primadonna, di un onestà artistica invidiabile, che pur pescando a piene mani dal passato, riesce ad anticipare anche certe cose che di lì a poco i Flying Saucer Attack conformeranno con classe ai parametri dell'indie-rock.

(originalmente pubblicato il 26/05/09)

Volcano Suns - The bright orange years (1985)

Li ho sentiti per via del trascorso di Weston, senza sapere nulla di biografico di loro. E all'ascolto di questo TBOY ho pensato subito; una versione più lineare dei Mission Of Burma. Solo dopo, leggendo una bio, ho scoperto che effettivamente il batterista era Prescott appena uscito dai disciolti MOB. E oltretutto qui Weston non era ancora della partita.
I Volcano Suns di questo debutto erano un trio che semplificava il discorso con un post-hardcore che alternava accelerazioni anfetaminiche a scosse di power-pop, con qualche timido accenno agli Husker Du, ma senza alcuna brillantezza. La registrazione lo-fi è tipica dei prodotti Homestead, ma non è che aiuti più di tanto il gruppo ad emergere.
Di conseguenza, i VS restano fondamentalmente un nome del sottobosco americano eighties, di buona qualità ma del quale non restano molte tracce nella memoria collettiva.

(originalmente pubblicato il 25/05/09)

Adam Franklin - Bolts of melody (2007)

Non contento dell'entusiasmante set con il batterista degli Interpol, il buon Franklin archivia i Toschack Highway, riunisce gli Swervedriver seppur solo per dei live, e ciliegina sulla torta, si decide a fare dischi a suo nome. Si potrebbe quasi dire che, l'ex rastone è proprio come il vino; invecchiando migliora! Tale è la sensazione che si ode con questo splendido Bolts of melody, in cui si materializza un pop chitarristico composto di semplici e bellissime song, quasi che il nostro le abbia fatte decantare per anni e al momento giusto le abbia imbottigliate in un debutto da urlo. L'urgenza espressiva dell'incipit di Seize the day si dispiega con il primo chorus che ti si attacca addosso in modo indelebile. La gemma luminescente è Sundown, ballad pigra per la quale un Cornell avrebbe anche potuto uccidere; l'atmosfera è letteralmente magica ed evocativa, l'uomo è qua, rilassato e sicuro di sè, fuma e dispensa emozioni come se piovesse. La psichedelia gli è sempre stata nel DNA e Theme from LSD è un giro caracollante che avvolge con fare sornione, Walking in heaven's foothills è lo sballo rilasciato da ogni remora.
Concrete memorie degli SD con la grintosissima Shining from somewehere. Ancora magia con gli accordi discendenti della malinconica Convey Island Baby. Il pop espressamente catchy Birdsong, potrebbe anche diventare un hit. Si ritorna ad atmosfere sapidamente notturne con le due chicche finali, Rain return e Ramonesland, piccole arie per un fuoco all'aperto, due amici, una chitarra e uno .....
E alla fine del solco sembra di essersi bevuti un bel Brunello d'annata.

(originalmente pubblicato il 23/05/09)

venerdì 28 maggio 2010

8 Storey Window - 8 Storey Window (1994)

(Serie: i dischi che avrebbero potuto segnare l'adolescenza come certi altri storici, soltanto che li ho scoperti dopo 15 anni!)

Difatti mi sta succedendo, da qualche mese a questa parte, di scoprire dischi dei primi anni '90 che mi sconvolgono per la loro bellezza, nonostante portino ormai i loro anni in quanto legati fortemente al periodo. Gli 8 Storey Window (nome presumibilmente prelevato da uno scritto di Bukowski) furono un oscurissimo trio inglese guidato da tale Conklin del quale non si trovano praticamente info sulla rete, che incisero un EP e questo omonimo su Ultimate Records prima di dissolversi completamente. Al tempo i Levitation erano un gruppo di punta del brit-pop, ed il loro leader Bickers fu chiamato a produrli.
8SW è un albo mozzafiato nella propria dinamicità, atmosfericità e ricchezza di spunti. Nulla di storicamente innovativo, ma fatto terribilmente bene. Conklin, coadiuvato dall'ottimo batterista Crisp e dal bassista Hammersley, scriveva pezzi appassionati e lirici, con una puntina di psichedelia a far da corredo. I Will apre subito con una melodia vagamente arabeggiante, graffiata da schitarrate ossessive per un apertura killer. La notturna Close to the sky smorza subito i toni, con toni trasognati stile Porcupine Tree ma senza alcuna pompa. Screaming Waterfalls sorprende con un apertura metal contro-tempo, ma è solo una finta sulla quale si fa strada un'anthem da far rabbia ai Catherine Wheel. Ancora epica lisergia per la stupefacente I thought you told me everything. Il pop degli 8SW era quanto di meno banale si potesse sentire all'epoca in UK; Conklin non era un gran vocalist, ma durante le fughe strumentali si avventurava anche in incisivi assoli chitarristici seguito magistralmente dalla sezione ritmica. La soffice Next to nothing in un mondo migliore sarebbe stata un hit-single.
Il lato B prosegue sulle stesse coordinate, senza far perdere l'attenzione neanche un secondo con queste magnetiche song dal carisma inappuntabile, con What you like, Already Gone, Flower Hill, Laughing at yourself, tutte bellissime.
Se avessi comprato il cd nel 1994, l'avrei consumato e mi si sarebbe attaccato sulla pelle come altri piccoli capolavori di quegli anni. E dire che ci andai anche vicino, perchè a Supporti Fonografici, mentre ero a naja, comprai il singolo di I Will per due lire nella scansia delle offerte, ma dell'album non c'era traccia in tutta Italia. Così, 15 anni dopo, nel mio piccolissimo, rendo giustizia a questa meteora criminalmente ignorata dal music-biz.

(originalmente pubblicato il 23/05/09)

Tindersticks - I (1993)

Furono un'autentica rivelazione nell'arido panorama dei brit-pop inglese, nonostante non abbiano mai trovato il successo commerciale. Questo debutto purtroppo suo malgrado fu destinato a restare il vertice della produzione del collettivo di Nottingham, forte di un eclettismo raffinato e maledettamente maudit. La voce incerta e bassa di Staples era una sorta di Cave sotto morfina: l'australiano fu una forte influenza nei Tindersticks, ma non solo. In tutto l'arco del disco si passa da romanticismi soffiati da archi (Whiskey & Water, City Sickness), post-blues aridi e dissonanti (Tyed), pop squisiti speziati di 60's (Blood, Patchwork, Marbles, Piano Song), memorie dei primi Bad Seeds (Milky teeth), struggenti litanie sviolinate (Jism, Her, The not knowing), illusionismi cinematici (Paco de Ranaldo's Dream), il tutto con arrangiamenti ricchi, prettamente mitteleuropei, con un tocco di gotico e una qualità compositiva altissima.

(originalmente pubblicato il 23/05/09)

Kendra Smith - The Guild Of Temporal Adventurers (1992)

Non ho mai compreso fino in fondo il celebre Paisley Underground, ma è colpa mia che non ne so cogliere i lati più positivi. La Smith ne è stata una delle prime-movers, fondatrice dei Dream Syndicate, poi parte attiva degli Opal, infine in proprio con questo debutto.
Fin troppo edulcorato, secondo me, improntato su un pop agreste, un po' sonnolento e privo di qualsiasi impennata che faccia alzare l'encefalogramma. Alcune melodie sono abbastanza belle e azzeccate, peccato che la Smith non sia dotata di una voce memorabile, scadendo spesso nel banale (davvero evitabile la cover di She brings the rain). Al punto che forse i momenti più interessanti del disco sono gli interludi strumentali, a base di una psichedelia speziata di sperimentazione, peraltro piuttosto brevi.
I Mazzy Star hanno fatto molto ma molto meglio.

(originalmente pubblicato il 21/05/09)

Squirrel Bait - Squirrel Bait (1985)

Più che micidiali questi ragazzetti all'esordio, minorenni e determinati nella loro capacità di ascrivere alla storia una breve manciata di anthems di hardcore evoluto. Come già dissi per l'epitaffio Skag Heaven, il sound di Grubbs e co. era fatto di cavalcate sfrenate che esulavano da qualsiasi tipo di violenza, prediligendo un approccio diagonale nella sua epidermicità. Le chitarre flangerizzate e spigolose, la ritmica ondulata, il rauco vociare di Searcy, tutti gli strumenti hanno un loro ruolo fondamentale. Ed in primis, 8 composizioni che nello spazio di neanche mezz'ora fanno saltare sulla sedia continuamente. Fra le sfuriate più dirette, la drammatica The final chapter si fregia di una progressione di accordi fenomenale. Le ripartenze di Thursday, When I Fall, Hammering so hard sono da autentico manuale dell'hardcore tecnico, e pensare che andavano ancora a scuola....Piccole variabili più riflessive illuminavano Sun God, perla assoluta del disco che completa un quadro perfetto nella propria, sintetica, brada istintività di ragazzi prodigio che matureranno fino a diventare dirigenti della scena indipendente più creativa.

(originalmente pubblicato il 17/05/09)

Spokane - Little hours (2007)

Ai limiti dell'impalpabile, come ho letto da qualche parte, ambient-core. Gli Spokane rappresentano quell'ala estrema di gruppi acustici (anche se in realtà tutta la farina del sacco è immancabilmente di un solo uomo al comando, come quasi sempre in questi casi) che fanno della stasi irriducibili, della catalessi e della lentezza esasperante i loro vessilli propiziatori.
Alquanto prolifico, Alverson è songwriter capace di creare 10 pezzi diversi dallo stesso stampo in queste ore piccole; la spalla gentile sulla quale appoggiarsi è la voce squisita ed evocativa della Bowles, un'accoppiata che solo marginalmente si può accostare ai Low; qui non c'è sentore religioso, bensì un fatalismo fumoso che gira alla larga da qualsiasi stucchevolezza. La strumentazione è ovviamente scarnissima, chitarra acustica e piano tintinnato.
Menzioni speciali per Little careers, con un paio di spazzole a tenere in piedi la flebile melodia squarciata dalla slide. If there is hope, con violoncello rigoroso, armonia paralizzante da inverno pungente. Addendum è new-age per un faro notturno che illumina una costa deserta.
Un disco che lascia a bocca aperta, con il vantaggio ragguardevole di durare appena 40 minuti, al termine dei quali si resta letteralmente asciugati da ogni stress accumulato durante la giornata. E cosa ancora più importante, non annoia per nulla, impresa titanica per un genere inflazionato e abusato come lo slow-core.

(originalmente pubblicato il 14/05/09)

Thom Yorke - The eraser (2006)

La smarcatura dal gigante, seppur soltanto figurativa.
Ho molto apprezzato questo compendio di Thom "occhinfuori" Yorke, seppur non abbia rappresentato nulla di più di quanto abbia realizzato con il gruppo madre. Peraltro The Eraser sembra assumere molto da Kid A ed Amnesiac, nel suo incedere impressionistico e semi-astratto, sospeso fra litanie pianistiche e grotte riverberate di synth.
Fra romanze pianistiche-minimalistiche (title-track), gelide rifrazioni (The clock), sornionismi danzerecci (Black Swan), androidismi glitcheggianti (Skip Divided), contrassegnati dal solito carico di inquietudine esistenziale, compaiono almeno 3 gemme che possono tranquillamente essere allineate ai capolavori "isolazionisti" dei RH: And it rained all time, con basso marcato e synth grotteschi. L'emo-electro Analyse, che come al solito fa a pezzi qualsiasi tentativo di imitazione (leggi Muse). E specialmente il pezzo finale, Cymbal Rush, un crescendo inarrestabile di classe cristallina, per chi ama il falsetto tremolante e la personalità torbida di quest'uomo.

(originalmente pubblicato il 12/05/09)

Gentlemen Losers - Dustland (2009)

(by Davide Cicciopettola)
“Abbiamo cercato di rendere la musica di un passato che non è ancora accaduto...” Questa era la dichiarazione di guerra lanciata già 3 anni or sono dai fratelli Samu e Ville Kuukka, in arte Gentleman Losers, dalle natie lande sperdute di Turku (Finlandia), in concomitanza dell’uscita dell’omonimo album d’esordio. Era il 2006 e quel lavoro passò ingiustamente in sordina in Italia, laddove all’estero aveva riscosso sinceri consensi un po’ ovunque. Dopo un periodo di isolamento e un lungo silenzio mediatico, il duo si è nuovamente ritrovato nella penombra dello scantinato silenzioso di casa, ancora debordante di ricordi stinti e testimonianze di mondi lontanissimi, e si ripresenta ora con nuovi cimeli da mettere in musica, senza snaturarsi, anzi riprendendo il discorso da dove pareva solo appena interrotto. Già in occorrenza del primo lavoro i fratelli Kuukka non avevano esitato a prendersi tutto il tempo necessario: pare infatti che il primo disco fosse stato registrato nel 2004 in un periodo di nove mesi , con la previsione dell’uscita parallela di due album, ma dopo aver terminato i lavori ai nostri il risultato non era sembrato soddisfacente, al che autonomamente avevano deciso di dedicare i due anni successivi a ritagliare via via il superfluo fino a giungere al prodotto consegnato alle stampe nel 2006. La (paziente) etichetta che ne curò allora l’uscita fu la Buro, una “sublabel” inglese della berlinese City Centre Office. e sulle ali del successo riscosso dal self-titled la stessa casa s’è offerta di pubblicare il suo naturale seguito, “Dustland”, a distanza di 3 anni. L'immediata sensazione che si ha all’ascolto di “Dustland” è un forte senso di “casa”, di prossimità, di qualcosa di tangibile e familiare: come già nel disco d’esordio, non si tratta propriamente di suoni lo-fi, ma di un easy-listening mai distaccato, anzi piuttosto ambiziosamente robusto e dalle tonalità calde, polverose, emozionalmente prossime all’esperienza retrospettiva; forse si tratta più precisamente di sonorità vintage, che non risultano mai finte né scontate. Il background dei fratelli Kuukka non è tanto post-rock, come frettolosamente sono stati spesso etichettati, quanto alternative-country di memoria nativa, e la loro musica descrive una terra abitata più da personaggi di Kerouac che da super uomini della cyber-era. L’arricchimento scenico legato al largo impiego di elettronica d’ambiente, senz’altro derivato dalla fucina di Morr Music (sebbene qui meno evidente che nel primo lavoro), cui si aggiunge uno spesso strato di foschia, crea un complesso humus folktronico, appena decadente nella sua aura old-style, ma mai statico, anzi piuttosto di carattere cinematografico; evocativo di sfondi quieti ma pulsanti e spesso nebulosi. Una terra di mezzo, dunque, tra Morricone e Badalamenti, decostruita con una spregiudicata predilezione per i loop più ipnotici (la caratteristica “mesmerizing music”dell’ottima “The Echoing Green o della stessa traccia d’apertura), sempre ben radicata su paesaggi distanti dalle città: lunghi silenzi, orizzonti senza fine e soprattutto ricordi di una vita passata che riaffiorano sfumati nel contesto di una fotografia virata a seppia.
Il ricordo, insieme alla voglia di raccontare questi flash improvvisi nel buio, è indubbiamente un tema forte in “Dustland”: è come se la musica diventasse la terapia che avvicina l’uomo alla “memoria di cose a venire”.
E lo stesso processo costruttivo non può che svolgersi al rallentatore, seguendo le dinamiche del cervello umano e le associazioni di idee attraverso connessioni sinaptiche che attivandosi via via danno forma a questo processo di ricostruzione di immagini: succede allora che il processo venga inciso su un nastro e che il mezzo usato per dare forma compiuta alle idee sia ancora una volta un vecchio mixer Telefunken del 1950, per caso riscoperto in cantina dai Kuukka, testimone di un’infanzia felice ma strumento ancora attuale, redivivo e già utile a fissarne la nostalgia per sempre.
Il prodotto musicale del duo finlandese, in effetti, deve molto alla strumentazione “modernariale”, laddove il risultato suona assai vintage, e anche appropriatamente polveroso, ma affascinante nella sua apparente semplicità, come fosse prodotto di distillazione tra saggezza passata e gusto moderno, tra archivio stinto e paesaggi soggetti alla mano dell’uomo, tra legno ed elettricità, tra la locandina virata a seppia di un film anni 50 (il motivetto da opera allegra di “Oblivions Tide”, ma anche il quieto leit-motive di “Spider Lily”) e l’inquietante voglia d’eternità di un breve, intimo e delicato fraseggio acustico nel cuore della notte (l’apertura di “The Echoing Green”). Tra nostalgia e anonimato.
Talora il sound ricorda i migliori lavori di Helios o anche di gruppi come i Lanterna, i Landing, “certi” Hammock o persino i Balmorhea, ma con molti meno spunti sinfonici e senza contrappunti ritmici. Eppure in nessuno di questi riferimenti c'è la stessa densa voglia di raccontare e di farlo in maniera quieta, calda, intensa e profonda: ogni elemento viene rilasciato con progressione lenta e umana (il crescendo ritmico di “Pebble Beach”), ogni melodia è una sorta di nostalgico riapparire, un rischiararsi vivido dietro uno strato superficiale di sabbia che scivola via inesorabile e ipnotico (quasi tangibile nel pattern sottinteso in “Bonetown Boys”).
Viene naturale anche il riferimento di Mark Nelson, che però deve essere qui elevato alla torbida potenza della calma analogica, fratto il peso di una spessa coltre di neve fresca.
La voglia di raccontare traspare in maniera quasi folcloristica (“Lullaby Of Dustland”con i suoi tocchi di corde slowcore, sparsi e mirati), e benché l'elemento elettronico sia quello prevalente, il ritmo è spesso stralunato, ovattato, fondato su spesse armonie ripetitive e circolari (“Midnight Of The Garden Trees” o l’ipnotica “Honey Bunch”): una maniera compositiva narrativa, grazie alla quale ”Dustland” appare l'ideale e doveroso seguito dell’album del 2006. Una lunga passeggiata con la neve a mezza gamba ripresa dopo un breve attimo di riposo. A contemplare l'immenso.
Su panorami crepuscolari e dilatati, densi di loop morbidi e notturni (memorie degli Stars of the Lid) si intrecciano poi trame di chitarre acustiche rallentate e perdute, quasi di gusto psichedelico seventies (“Silver Water Ripples”), e il paesaggio della Death Valley va sfocandosi nella desolazione della tundra finlandese (“Ballad Of Sparrow Young”). E il tramonto si fa notte, mentre il senso del tempo in divenire torna nuovamente forte, scandito dalle pulsazioni di un beat digitale (“Farandole”)e le suggestive immagini di solitudine non sono più solo un’idea, ma già sensazione epidermica, calda e carnosa. Colonna sonora, appunto, della perdita di quel che è stato, ma speranza e già proiezione istantanea di quel che sarà.
(originalmente pubblicato il 11/05/09)

Supreme Dicks - The unexamined life (1993)

Il tempo non scalfisce minimamente le 2 opere d'arte principali dei SD, una nicchia di culto che forse negli anni non ha guadagnato neanche un fan in tutto il mondo, ma di certo neanche ne ha persi...
Escludendo le due raccolte dagli scaffali (che sono sfasatissime e fuori di testa, nel senso positivo of course...), restano i due monumentali LP che pubblicarono alla fine del loro cammino, giacchè erano contemporanei ed amici dei Dinosaur Jr.
Essendomi già spellato le mani per lo zenith finale The emotional plague, non posso che tuffarmi ciclicamente anche su questo debutto che al confronto forse era un po' più timido, ordinato e dimesso. Qui non ci sono le scollature filantropiche, le dilatazioni da sistema lunare che resero epocale il congedo. Ci sono comunque pieces evocative come Arabian song, Garden of your past, River Song, dico solo 3 titoli ad esempio; nella prima parte del disco ci si concentra sul songwriting con successo, in cui i SD sfornano ballads folk geneticamente modificate con il loro marchio inimitabile, le voci stonate, le chitarre riverberate e scordate ("non ci piace la forza normalizzatrice del basso"), e la svogliatezza di chi non ha nulla da perdere.
La seconda metà inizia un pellegrinaggio verso l'ignoto che culminerà con la peste emozionale: l'incubo lisergico di Hyacinth Girls, l'angosciante Ten Past Eleven, l'intramontabile Azure Dome e il gran finale di Strange Song. Un orgia impressionante di crescendo sonici fino al chiasso galattico, come una rottamazione agonica dei clichès del rock psichedelico.
Un po' l'equivalente moderno (e povero) dell'esplosione della villa di Zabriskie Point.

(originalmente pubblicato il 07/05/09)

Sun Dial - Other way out (1990)

C'è un po' di tutto in questo scatolone.
Primi Pink Floyd, secondi Blue Cheer, Hendrix (il leader Ramon è mancino come si può evincere da foto soprastante), Iron Butterfly, Hawkwind in questo abbecedario della psichedelia, in questo campionario vintagistico. Ai tempi ebbe anche un discreto successo commerciale, e ricordo con piacere come li esaltava la sezione "psych" di Rockerilla (e al contempo come li stroncava Sorge con Rumore, quando i voti si davano con le manine e lui piazzava un bel dito medio sui dischi dei Sun Dial, che significava il più basso :-)).
Per quanto mi riguarda, sul genere per me i campioni furono i Dead Flowers. I SD restano dei comprimari fin troppo calligrafici.

(originalmente pubblicato il 06/05/09)

Storm And Stress - Storm And Stress (1997)

Senz'altro i Battles sono una gran bella cosa e mi auguro che vadano avanti, però io porto gli S&S nel mio cuore come espressione free-avant più esaltante che ci sia. Sarà per il fatto che fecero solo due dischetti, eppure è così, credo siano stati unici in tutto e per tutto.
Come scrissi per il secondo e putroppo ultimo disco, la genialità stava nel suonare a briglia sciolta improvvisazioni (anche se Williams ebbe a dire che invece era tutto costruito) con le fittissime ed intricate ragnatele di chitarra e basso, e la perla di un batterista incredibile come Shea, con una leziosità che nulla aveva a che vedere col virtuosismo o l'autocompiacimento.
Non è che ci siano grosse differenze fra le due pubblicazioni, forse questo era un filo più compatto e granitico rispetto alle sbragature sublimi del congedo. Fatto sta che, anche dopo innumerevoli ascolti, S&S resta un entità sovrannaturale ed inspiegabile.

(originalmente pubblicato il 05/05/09)

Sonic Youth - Evol (1986)

Scuri, opprimenti, lancinanti e sottilmente aggrssivi nella loro arrendevolezza torbida. Non è un classicone tipo Daydream Nation, eppure qui c'è tutta la loro sostanza fatta di chitarre deraglianti e ritmiche poderosamente zoppicanti (fu il primo disco con Shelley). In Evol viene creato tutto un sound che negli anni '90 farà milioni di proseliti ed eredi staffettisti in ogni dove; si capisce da dove hanno attinto a piene mani Blonde Redhead, Marlene Kuntz e così via. Anche se qui l'angoscia latente caricata in ogni frangente è espressamente newyorkese, metropolitana e suburbana.

(originalmente pubblicato il 04/05/09)

Rodan - Rusty (1994)

I vari commenti sparsi in giro per il mondo sono più che sufficenti per spiegare la seminalità di questo arrugginito pezzo di plastica che compie 3 lustri senza perdere un oncia della propria intensità. Storia che ha tanti punti in comune con quella degli Slint, sia per quanto riguarda la breve esistenza, sia per il rivolo di gruppi conseguenti allo split, per tante cose, forse anche per lo stile eclettico e angoscioso, enfatico e pulviscolare al tempo stesso.
Musica dei boschi e della metropoli, intricata ed astrusa.

(originalmente pubblicato il 03/05/09)

Slowdive - Souvlaki (1993)

Il trionfo non dello shoegaze (un termine che ho sempre detestato, e che immagino ancora di più coloro che si vedevano appioppato questo terribilie appellativo), ma del pop-rock celestiale ed atmosferico, dei voli pindarici e delle soffici levitazioni. Il disco del mezzo per il quintetto british, che paradossalmente ne sancì la perdita di popolarità dopo il clamoroso esordio di un par d'anni prima, è un'antologia di ballads ad alto voltaggio in cui i gli efebici dualismi vocali fra Halstead e la Goswell erano la ciliegina sulla fragile torta fatta di stratificazioni chitarristiche, sballi eterei ma sempre nel segno di un pop diretto discendente dei sixties.
Perle assolute sono Altogether (arrangiamento lucido e song da pelle d'oca), When the sun hits (grintosa e risoluta nella sua innocenza), Alison, 40 Days.
Souvlaki è un dischetto bello pregno che mi riporta ai tempi delle scuole in cui questi ragazzi venivano osannati da Rockerilla, e che riflette perfettamente alcune tendenze della prima metà degli anni '90, di cui furono meteora brillante e luminosa.

(originalmente pubblicato il 01/05/09

mercoledì 26 maggio 2010

Ascend - Ample fire within (2008)

A distanza di 15 anni dallo split EP che li fece incontrare, era quasi fatal destino che Anderson e Densley s'incontrassero per unire le forze creative. Agitatori dell'hardcore creativo e trasfigurato da commistioni inimmaginabili a metà degli anni '90 con gli Engine Kid il primo e gli Iceburn il secondo, si uniscono per questa entità chiamata Ascend in collaborazione con una manciata di ospiti, fra cui il fiatista sperimentale degli Earth Moore e addirittura la presenza di Thayil dei Soundgarden in un pezzo.
Vederli nelle foto di ora e confrontarli con quelle vecchie è quasi programmatico: con quelle barbe, quegli aspetti minacciosi ed arcaici che li fanno quasi sembrare dei senatori greco-romani antichi, i due cercano di abbattere altre frontiere filtrandole dall'esperienza Sunn O))), quella con cui Anderson ha saputo ricavare un minimo di riconoscimento nonostante l'evidente auto-ostruzionismo. Densley, che figurava fermo da diversi anni dopo lo scioglimento degli Iceburn, si cala anch'egli nei cunicoli catacombali del drone-doom con in mano una torcia di free-jazz zavorrato. Le voci, marziali e orrorifiche, fanno il loro giusto lavoro.
Le apocalissi di The obelisk of Kolob, Her horse is thunder e VOG, sono senza dubbio tematiche tipicamente andersoniane che Densley cerca di ravvivare, infiorettare. L'effetto è certamente suggestivo (il piano rhodes, certi inserti raga, gli squittii di Moore al trombone), ma il piccolo miracolo avviene negli altri tre pezzi. La title-track pone base su un motivo arzigogolato che non può non ricordare certo jazz oscuro degli Iceburn, prima di essere schiacciato dal martello dronico in piombo fuso. Divine ricorda certe cose degli Earth ma li sorpassa a destra con sevizie luciferine da paura. Il bordone macellato di Dark Matter crea lunga attesa per l'esplosione orchestrale: fiati incrociati, rhodes e addirittura un synth celestiale portano al climax vertiginoso di ascensione.Hanno raccolto ovunque recensioni fredde e sbrigative; non metto in dubbio la difficoltà della proposta, ma mi auguro che vengano rivalutati presto.

Savoy Grand - Burn the furniture (2002)

Struggenti ed enfatici nella loro staticità, i britannici SG si sono rivelati come uno degli esempi più brillanti di slow-core bucolico alla moviola, disincantato e malinconico quanto basta per appassionare i seguaci.
Rumore dell'anima, leggevo un tempo su un giornale. Le influenze sono diluite in un songwriting senza fretta, con poche impennate (ma quella di Business is good è veramente importante nell'economia dell'albo) ed un'approccio molto passionale come di rigore. Un po' Red House Painters, un po' Low, un po' ultimi Talk Talk, Burn the furniture è un piccolo gioiello che necessita di qualche ascolto per essere pienamente apprezzato, ma entra a poco a poco dentro, fino a conquistare.

(originalmente pubblicato il 30/04/09)

Balmorhea - All Is Wild, All Is Silent (2009)

(by Davide Cicciopettola)
Una premessa e due riflessioni. Premessa: il disco piace. Tanto. Splendido davvero, sempre vivo, accattivante e mai seduto, tracce ben miscelate tra l'alternarsi di ballate di memoria celtica, passaggi di solo piano, e brevi acquerelli di corde quasi esclusivamente acustici (gli intermezzi costituiti da "March 4, 1831" e "Elegy"); la produzione stessa è, oltretutto, parecchio più ricca e fantasiosa, laddove rispetto al precedente lavoro "River Arms", di stampo prettamente cameristico, qui l'evoluzione si vede già a partire dagli strumenti impiegati: rispetto ad allora il duo texano si è, anzi, ampliato a mini-ensemble con la presenza di batteria e contrabbasso, più mandolini e benji al fianco degli onnipresenti archi ed all'immancabile pianoforte. Prima riflessione: "i Balmorhea vogliono fare post-rock!" ..rispetto a "River Arms" è più marginale la componente ambientale ed il linguaggio minimale, fermo restando l'ambizione cameristica, e non mancano piuttosto accelerazioni improvvise che rimandano alla scuola degli Explosions (ma rielaborati con le sonorità più pastorali dei Mogwai), quando non c'è direttamente una batteria al ritmo di marcetta come nella bellissima "Settler" (che non può non accostarsi alle sonorità della scuola post-rock di Chicago) per non dire della costruzione armonica degli ultimi minuti della splendida “Harm And Boon” (che non può non far pensare ai Dirty Three). Risultato peraltro ottimo, il disco piace. La prima parte del lavoro consegna una raffica di brani pressoché tutti stupendi, per atmosfera e per esecuzione, con le vette dei pezzi già menzionati ma anche con la superba "Remembrance", con quel suo motivo di benjio melancolico sovrapposto al suono di un cupo violoncello, ma poi con improvvisi furiosi scatti orchestrali; da li in poi il disco cambia umore, pare che cali, ma invece diventa soltanto meno didascalico e nella voglia di approfondire le tematiche già proposte, ecco che salta fuori un piccolo cavoloro per orchestra da camera come lo splendido ritratto in penombra di "Night in the Draw", forse il brano migliore in assoluto, dall'accordatura iniziale degli strumenti che presto si schiude sulle ali di un motivo sottile via via più acceso e vivo, all'entrata del mandolino prima e dell'orchestra poi. Seconda riflessione: "questo disco l'ho già sentito!" ..un deja-vu costante corre per tutto il disco.. un senso di passato prossimo che male si accoppia ad un'uscita così recente.. e che fa pensare ad un disco nato già vecchio, benché gradevole, e pertanto destinato ad invecchiare presto e male. Ma speriamo di no.
E qui la riflessione finale: colpa dei Balmorhea? io dico di no.. allora verrebbe da concludere: colpa del post-rock? e dove sta andando il post-rock? improvvisa mancanza di nuovi temi da sviluppare? ..forse i Balmorhea sono solo arrivati troppo tardi, ed hanno trovato la tavola ancora imbandita ma i cavalli ormai tutti fuggiti dalle scuderie......Teniamoci allora questo splendido disco ed ascoltiamolo fino a lessarlo nel lettore.

(originalmente pubblicato il 30/04/09)

Red Lorry Yellow Lorry - Smashed hits

Una compilation un po' tarocca che non figura in nessuna discografia dei RLYL, che comprai a prezzo stracciato tanti anni fa. Una band di Leeds capitanata dal chitarrista/vocalist Reed, che ebbe vita soltanto negli anni '80 e ne incarna perfettamente lo spirito, seppur appartenente al tipico ceppo dark-wave-melodico che già era in declino quando pubblicarono i loro primi albi.
Il primo singolo Beating my head era esemplificativo; ritmo martellante, chitarre torrenziali, incipit melodico e marziale. Come se gli Psychedelic Furs rinunciassero a qualsiasi velleità glam, sostituendo Butler con Curtis dei JD alla voce.
Non mancano pezzi molto validi come lo strumentale Push, la trascinante Monkeys on juice, la drammatica Generation, ma i RLYL restano un gruppo minore e dalle influenze troppo chiare per lasciare tracce importanti nella storia. Solo per gli stretti fans del genere.

(originalmente pubblicato il 29/04/09)

Asbestoscape - Asbestoscape (2007)

(by Davide Cicciopettola)
"come se Badalamenti avesse deciso di imparare a suonare la chitarra elettrica prendendo lezioni private da Tony Iommi dei Sabbath, ma suonando sulla chitarrina giocattolo di Guitar Hero anziché su una Les Paul" Ma vediamo meglio il perché…..Questo è un disco proprio difficile da classificare: nella produzione sapientemente compressa in mezz’ora abbondante di musica dal musicista inglese Luke Shaw (colui che si cela dietro il moniker “Asbestoscape”) ci sono, in effetti, istanze tra le più disparate, che vanno dal fraseggio ambientale sul genere Badalamenti, ad un certo chitarrismo vagamente prolisso che potrebbe musicalmente ricordare i Mogwai ma tecnicamente persino lo stesso Hendrix (in versione da notte), passando poi per i panorami industriali dei NiN se non post-cosmici di certe colonne sonore di celebri cyber-film (da Alien ai vari Terminator, ma visto l’elemento elettronico di spicco, si passa anche per qualche commento musicale da video-game evoluto, genere Resident Evil); è evidente, nei mezzi-toni vagamente cavernosi, l’insegnamento, tra gli altri, degli Isis, ma sebbene tutte siano influenze quanto meno ascrivibili ad un certo humus eminentemente dark, o dark-metal addirittura, rimane lo stesso la perplessità della loro miscelazione, quindi quanto detto valga solo in termini di banale circoscrizione d’ambito, quasi ad escludere tutto quel che invece è leggero, solare, danzereccio, classico, pop o rock-‘n-roll. Non a caso si potrebbe, in questo caso più che mai, riproporre l’intervento dell’ormai inflazionata ascrizione del disco al “calderone” post-rock, ma si tratterebbe di una soluzione affrettata e pertanto parziale.Ma vediamo meglio il perché…..Prima di tutto diciamo del linguaggio usato prevalentemente nel disco, che è quello proprio della musica elettronica, ma poi la tecnica impiegata nella sua elaborazione fa largo uso di rugosi droni ambientali (distesi in “Return” e “Mono” o specialmente nel meraviglioso pezzo di chiusura “Thursday”), con l’aggiunta di profondi riff ripetuti martellando senza discontinuità alcuna (come nella traccia d’apertura “Arctic”, meravigliosa ma forse, per quanto detto, anche un tantino impersonale), piuttosto che procedendo per aggiunta ed aprendosi per delega agli elementi via via sovrincisi: essi stessi per lo più di genere metallico, ma non solo, visto che non si sdegna -per esempio- l’impiego di riff più limpidi magari associati ad oscure esplosive linee spastiche tracciate dai synth (ancora in “Return” ma specialmente in “Like Shit Attracting Flies”), o lunghi passaggi nella penombra di un chitarrismo più propriamente psichedelico (come avviene in “Artic” appunto), semmai deformato ad arte in graffi elettronici imprevisti, se non addirittura attraverso insoliti intermezzi pianistici (in “And So The Story Goes”, piuttosto). Denominatore comune ai sette pezzi del disco è, semmai, la regolare incredibile capacità di morphing sonoro, sempre lento ma anche assai progressivo, con gli elementi d’innesto sorprendentemente inseriti quasi sottotraccia, apparsi nel contesto senza destare distrazione dall’evoluzione propria del brano in sé, specie a livello di costruzione melodica, e dimostrando nel compositore una capacità di sconfinamento tra i generi che sarebbe da definire quasi osmotica (con la sola eccezione in tutto l’album, ma probabilmente voluta, dell’inatteso beat elettronico di genere video-game inserito in “Return” o della drum-machine di gusto trip-hop sottointesa a “Mono”, ma sempre dietro ad un muro di synth elettronici miscelati a feedback di sottili droni, per il più riuscito dei collage); tutto il resto è un flusso assai coerente di elementi, che può ricordare certi lavori dei Boris in termini di capacità compositiva e d’addizione progressiva d’elementi, ma qui reso senza alcuna delicatezza minimal, anzi con gusto regolarmente assai più rumoroso e gotico, al limite persino della minaccia in “Ashen” –probabilmente il pezzo migliore- che si caratterizza per uno sviluppo ritmico oscuro degno dei Cure e nel contempo della capacità di eclettica devastazione dei Black Sabbath unita al dispiegamento di mezzi scenici dei Red Sparowes nel –fortunatamente breve- muraglione finale di riverberi.Il risultato di insieme per questo omonimo di debutto, passato ingiustamente in sordina due anni or sono, ha un fascino che cresce ad ogni ascolto: ottimo il dosaggio e la miscela degli ingredienti, nonché la sapienza avuta nella loro cottura, e per un numero di tracce esiguo ma sufficiente ed utile a dare un messaggio ugualmente forte.Ed al di la dell’atmosfera perennemente cupa, come del resto ci si attende, resta un lavoro che anziché deprimere nelle tinte del nero metallo, induce invece alla riflessione, per via di trovate melodiche e paesaggi suscitati nella mente, persino stimolanti. Pare abbia la forza greve ed improvvisa di un fortunale settembrino incontrato per mare, che scorre via violento sopra mezzi ed equipaggi lasciandoli provati eppure incolumi, ma specialmente sorpresi della propria accresciuta consapevolezza.

Ozric Tentacles - Jurassic shift (1993)

Più o meno nel mezzo del cammin della loro vita, gli OT rilasciarono questo disco la cui edizione in vinile aveva una cover composta di carta riciclata impastata con canapa. Come ebbero a dire in un intervista, uno se la poteva anche fumare....Al di là del loro spirito espressamente hippy, il quintetto di Somerset è sempre stato un caso atipico nel panorama freak inglese, spesso pieno zeppo di revivalisti sterili ed eccessivamente approssimativi (ci si fumava altro che i dischi), inscenando una carriera ormai 25ennale fatta di musica esclusivamente strumentale, con un livello tecnico ben superiore alla norma. Quasi una new-age da palco di Stonehenge, priva di narcosi e frizzante nel suo incedere rockeggiante, seppur enormemente ripetitiva (i dischi degli ultimi 10 anni sono quasi imbarazzanti). Jurassic Shift è probabilmente il loro miglior episodio, lo si potrebbe definire un compendio di psichedelia da salotto, con ottimi spunti dub, ambient, indianeggianti, oppure una versione auto-compiacente senza voce dei Porcupine Tree.
Un grosso limite all'ecletticità di questi abili strumentisti poteva essere l'eccessivo formalismo degli schemi, cosa che veniva parzialmente risolta nei momenti più interessanti come il dub caracollante di Feng Shui che nel finale esplode con una accelerazione quasi metal, o la splendida title-track, suite poliedrica che mette in mostra le doti del leader chitarrista Wynne.
Comunque, un sottofondo coinvolgente nella sua pulizia degli arrangiamenti.

(originalmente pubblicato il 28/04/09)

Angel Hair - Pregnant with the senior class (1997)

Una colata di soda caustica urticante.
Il primo pezzo di questa raccolta postuma chiarisce bene a cosa si è di fronte: un emo-core gutturalmente urlato ai limiti del grind-core, stilizzato su una macchina da guerra che macina tutto ciò che si trova contro. Gli AH furono l'espressione furente, nella prima metà dei nineties, di 5 ragazzi che poi faranno un po' di strada artistica, subito coi VSS, poi con i Pleasure Forever, infine coi Red Sparowes, logicamente in pezzi sparsi, ma la radice stava in questi cingolati lividi di cieca rabbia. Il vocalist Kay squarciagola in lungo ed in largo, e questo calderone di 7 pollici sparsi inevitabilmente col passar del tempo finisce per dispendere un impiego eccessivo di energia, lasciando i momenti più interessanti a quando i ritmi si rallentano (la cover dei Bauhaus Stigmata martyr, la melmosa Wax Museum, la sincopata Bedroom scene from communion), e soffrendo di una certa ripetitività. Nello stesso campo, i contemporanei e gli altrettanto meteoritici Heroin furono migliori e più eclettici.

(originalmente pubblicato il 27/04/09)

Keith Jarrett - The melody at night with you (1999)

(by Davide Cicciopettola)
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Keith in versione zucchero filato, senza furore, le mani ben piantate sui tasti, in penombra, e gli occhi chiusi a lasciar correre la fantasia dove il cuore le comanda.. e vorrei tanto fare altrettanto anch'io, ma il mio cuore è già infranto, per la sua musica.
Ma stiamo calmi, mettiamo da parte l’emozione del momento dovuta all’ascolto appena concluso ed andiamo con ordine, aggiungendo un paio di elementi utili a capire bene questo (capo)lavoro, ed apprezzarlo come si merita (visto il mio passato di apprendista pianista, Jarrett è sempre stato per me una specie di profeta, prima che un grandissimo musicista jazz.. ed ogni suo disco ha una precisa collocazione, e va approcciato ed apprezzato a sé stante). Alla sua uscita bisogna dire che molti sottovalutarono questo disco, che propone un Jarrett lontanissimo dal suo solito noto furore improvvisativo, caratteristico dei suoi precedenti lavori in “solo piano”, a partire da quella specie di “stele sacra” della musica –jazz, ma non solo- rappresentata dal Concerto di Colonia nel 1975, ma senza tralasciare anche le registrazioni dei live di Vienna, dove probabilmente il maestro -se possibile- ha superato sé stesso, e l’altro storico concerto del 1995 alla Scala di Milano, diverso eppure parimenti arcifamoso; a parte i differenti intenti comunicativi, quelli ben chiari già leggendo la tracklist e che appresso analizzeremo, avviando l’ascolto di questo disco si riconosce immediatamente un Jarrett diverso prima di tutto, e specialmente, nell’approccio alla musica ed alla tastiera, quasi sorprendentemente al limite del remissivo. Allusivo fino a suscitare tenerezza, rarefatto, e con una tensione interiore che nulla concede allo spettacolo.
Facciamo, dunque, un passo indietro e ricordiamo come Jarrett fu colpito alla fine degli anni ’90 da quello che venne diagnosticato come morbo di Epstein-Barr o "della fatica cronica", malattia che lo costrinse a ritirarsi nella sua fattoria nel New Jersey impedendogli quasi persino di suonare per un paio di anni; in quel periodo di tempo l’unica uscita ufficiale immortalata dai crismi del grande evento (primo musicista jazz a suonare, nella storia, del Tempio della Musica) era stata appunto quella del grande concerto della Scala di Milano, ma poi dovettero passare ancora due anni di silenzio prima dell’incisione, a sorpresa, di quest’altro “Melody”, con Keith non ancora del tutto guarito ed ancora in evidente difficoltà nell’approcciarsi alla tastiera, ma ormai reduce dalla malattia: si nota subito come le dita scivolino sui tasti, quasi trascinandosi dietro le note, e si sente latente il segno della malattia, ed appare siderale la distanza da quella sera a Colonia, a 20 e passa anni di tempo trascorsi: qui non c’è più il furore barocco di allora, nè gli svolazzi improvvisi delle mani da una parte all’altra della tastiera, dato che adesso non solo non sono più possibili per la malattia sofferta, ma probabilmente sono già stati consegnati al passato, prima di tutto per la differente consapevolezza dell'interprete: e la suggestione qui è solo nell'intimità che l’interpretazione trasmette. In “Melody” Keith è persino "muto": mentre solitamente i suoi caratteristici mugugni accompagnano l’incedere della musica al piano, sottolineandola, qui invece ci sono solo note! ..ma sono note notturne cariche di sentimento, e che sanno far sognare.
Ed in effetti la voglia di introspezione di Jarrett qui è dovuta anche ad altro, e per capirlo va letta la dedica, che appare striminzita sulla cover del disco: "A Rose Anne, che ha sentito la musica. Che poi mi ha ridato" . Questa è la traduzione delle brevi note di copertina e che sostanzialmente stanno a indicare la benedizione della moglie Rose Anne Colavito (di lontane origini italiane) a rendere pubblica, nella pubblicazione del disco, la musica che il pianista ha suonato e le ha dedicato, trovandosi in casa con lei ormai prossimo alla guarigione, e dopo che lei l’aveva assistito in questo periodo difficile; la sensazione che se ne riceve è quella che il pianista avesse lasciato a lei ogni responsabilità durante la malattia, e volesse adesso ringraziarla di tutto, rinnovandole il suo messaggio d’amore, e per farlo volesse ancora affidarsi al suo strumento prediletto. In questo senso, nella corposa discografia di Jarrett (dai concerti in solo piano editi da ECM, ai “quartetti jazz” fino alla produzione classica), questo lavoro, del tutto unico, va visto un po’ come il disco "privato" di Keith. Ed in esso traspare un dolore che sembra essere morale, oltre che fisico.Al di là delle difficoltà proprie di Keith nel suonare, va perciò inteso questo disco come anche, e propriamente, un disco d'amore: è il disco che Keith ha (per davvero!) registrato suonando il suo pianoforte personale nel salotto del suo ranch, e suonandolo propriamente per sua moglie. Non è un concerto, pertanto! Banalmente è “solo” Keith che suona, e lo fa accoratamente solo per la sua donna…Gli stessi brani scelti per la tracklist dicono tutto, del resto: caso unico nella sua produzione in “solo-piano” qui non c’è alcuna improvvisazione, anzi non si tratta nemmeno di pezzi suoi bensì "standard" per lo più (da “I Love You Porgy” a “I Got It Bad and That Ain’t Good” di Duke Ellington, a “Someone To Watch Over Me” di Gershwin, più pezzi storici come “Be My Love” e brani tradizionali come “My Wild Irish Rose”, per non dire di “I'm trought with love” già cantata da Marilyn Monroe), tutti suonati in maniera molto ma molto discreta. Note piene, rotonde, ma ovattate anche, calcate senza rabbia, sempre in maniera assai dolce. Si direbbe, anzi: quasi innamorata. E chiaramente, in ognuna di esse si sente cosa esattamente Keith volesse trasmettere alla moglie, per il mezzo dell'espressività della sua musica; si direbbe quasi che l'intero disco vada inteso alla stregua di una sorta di "conversazione familiare", se non persino, visto il climax generale assai notturno, di una lunga sentita e dolce serenata.Resta in ogni caso (ancora) una superba interpretazione di Jarrett, pur all'interno di atmosfere decisamente "soft", ma sempre misurata e personalissima, mai molle, e con un tocco inconfondibile (ancora) in grado di regalare brividi: il concerto di Colonia (che se debbo dirlo, lo preferisco a questo lavoro) ci consegnava un grandissimo Pianista, in grado di emozionare con la sua tecnica, la sua inventiva, la sua capacità d'improvvisazione, sempre creativa ed in tal senso, a suo modo quasi integralista (gli aneddoti collegati ad ogni suo concerto si sprecano). "Melody at night" ci consegna, piuttosto, un grandissimo Uomo, con le sue debolezze di corpo e di cuore, immortalato in un momento di personale meditazione, e sempre in grado di emozionare per come traduce deliziosamente, in lenti movimenti delle proprie mani nella notte, ed in note, il suo animo.

(originalmente pubblicato il 27/04/09)

Rain Tree Crow - Rain Tree Crow (1991)

Giusta la scelta di non riprendere il vecchio nome, in virtù di una musicalità che aveva già espresso tutto ciò che era possibile. I Japan si erano sciolti all'apice della popolarità in nome dell'arte, vittime di contrasti interni o della smania di Sylvian di fare ciò che voleva. La reunion sotto mentite spoglie RTC, un one-shot di massima raffinatezza che rifletteva fortemente le tendenze del leader nella seconda metà degli anni '80, si dipana con estremo relax e goduria per gli arrangiamenti, con il solito stuolo di virtuosi come Palmer, Nelson e Brook ad affiancare il basso punteggiato di Karn, le ritmiche poliglotte di Jensen e l'elettronica di Barbieri. La divisione fra atmosfere puramente astratte e vere e proprie song sviluppa un gran bell'effetto, un albo che si lascia ascoltare senza opporre resistenza, con la solita classe tipica dei fautori. Menzione ovviamente per la seconda categoria, con Blackwater, le splendide Pocket full of change e Every colour you are impreziosite dalla voce sublima di Sylvian e da un songwriting per nulla auto-compiacente.

(originalmente pubblicato il 26/04/09)

Nirvana - Incesticide (1992)

Il legame affettivo è superiore a Nevermind, nonostante l'impatto storico adolescenziale; questo fu credo il 2° cd che comprai in assoluto, e pur rimanendo l'unico nella mia collezione è sempre un bell'ascolto. Perchè la forza di questa antologia sta nel fatto che sembra un album vero e proprio, nonostante il via vai di batteristi, l'estrapolazioni disparate delle varie tracce, la gamma di tempo che copre 3 anni e così via. E' una raccolta mozzafiato di anthem metal-pop, di songs confezionate a regola d'arte in carta vetrata grang, dirette discendenti dell'angoscia di Bleach (l'irresistibile Stain, la meccanica cover dei Devo Turnaround, la sulfurea Beeswax, la micidiale Downer) frammiste a veri e propri anthem di power-pop (Dive, Sliver, Been a son, Son of a gun) che nulla avevano proprio da invidiare ai killer di Nevermind. Tutto questo nella prima bruciante fase del cd, che si conclude esponendo il lato più malato e plumbeo che verrà sviscerato maggiormente in In utero. In grande evidenza la nevrotica Hairspray Queen, in cui Cobain sfodera un canto psicotico da centro d'igiene mentale sopra un arrangiamento dissonante, davvero un pezzo geniale. Le scurissime Aero Zeppelin e Big long now portavano a galla il lato più introspettivo di Cobain, facendo crescere il rimpianto anche dopo 15 anni di aver perso quello che in fondo, personalità a parte, era davvero un grande songwriter.

(originalmente pubblicato il 24/04/09)