Hanno sfiorato il successo con le dita, gli AG, e l'avrebbero meritato alla grande. Quando li si descriveva si parlava tanto di soul, forse per un Ep che pubblicarono nel 1992 di covers, o forse per lo stile vocale di Dulli, shouter enfatico e ruggente, songwriter, produttore, insomma leader assoluto. Gentlemen è opera sanguigna, ricca di calore e colori, maschia e romantica al tempo stesso. Seppero trovare un compromesso che sapeva di classico, con le chitarre dure e le strutture compositive conformi ma avvincenti. Nubi oscure e minacciose aprono If I were going, intro sospesa che funge da apripista alla title-track, primo centro in scaletta. Ritmo frenetico, ferite aperte e bridge colossale. Acque momentaneamente più placide in Be sweet, ma è solo un illusione. Sembra che Dulli stia cercando di sedurre una donna ma al tempo stesso la stia mettendo in guardia sulla sua personalità indefinibile. Debonair, forse il pezzo più famoso al tempo, è un febbrile post-funk con Dulli al vertice dei propri vocalizzi. Pausa di relax con When we two parted, stupenda riflessione sull'amore perduto, dal pigro incedere psychedelico. Si ritorna al delirio con la slide impazzita di Fountain and fairfax, e si tocca un'altro vertice con What jail is like, in cui chitarre noise vengono zittite a fatica da un piano, bridge alla Dinosaur Jr e refrain apocalittico-cosmico. E si conclude in barocchismi, con il leslie che sostiene la lentissima I keep coming back e il quartetto d'archi di Brother woodrod, sinfonia agrodolce sferzata dalle aspre chitarre, quasi a mo' di sigla finale per quello che sembra quasi un film, più che un disco.
Gentiluomini di nome e di arte.
Gentiluomini di nome e di arte.
(originalmente pubblicato il 16/10/08)
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