
Invece di stare a cercare qualcosa di buono nel come-back dell'anno scorso (decisamente deludente), io preferisco riascoltarmi il meglio degli SP. Che non era l'acerbo 
Gish, nè  il ridondante ed eccessivo 
Mellon  Collie, nè le gotiche opere successive, ma questo potente e sintetico sogno gemello che li inquadra al meglio. Un po' anche per nostalgia adolescenziale, mi verrebbe da dire, chè riporta alla mente discoteche alternative in cui si pogava allegramente quindici anni fa al suono di 
Cherub Rock o 
Today, gli
 anthem più gettonati di questo 4-piece chicagoano che nulla aveva a che fare col grunge, nonostante la congiuntura temporale. L'attacco di 
Quiet fa sobbalzare sulla sedia ancora oggi: il nastro al contrario, il riffone discendente alla Iommi, l'entrata devastante di Chamberlain e il giro ipnotico-circolare che si rincorre fino alla fine. Il songwriting di Corgan però rendeva al meglio anche quando stemperava le atmosfere con dilatazioni psichedeliche: 
Hummer, dopo le  solite mattanze si arrendeva ad un liquido e soffice interplay di chitarre sognanti. Merito anche di Iha, che co-componeva 
Soma e 
Mayonaise, mini-suite dall'andamento emo-meditabondo.  Ciò che si evolverà in manierismo su 
Mellon  Collie qui è espresso perfettamente: 
Disarm, forse il brano più famoso, ballad pastorale per  campane e sezione d'archi, viene raddoppiata da 
Spaceboy e dalle sue incursioni di mellotron. La finale  
Luna eccede un po' in  glicemia, 
 ma sono i 9 minuti  di 
Silverfuck a mettere ordine a tutto: intro sabbathiana con ritmo in levare, sarabanda di chitarre al macello, break onirico, esplosioni di feedback, tutto in disordine ma al proprio posto. Non avranno certo cambiato la storia, ma il successo è stato meritatissimo, questo è sicuro.
 
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