Qualcosa non è andato per il verso giusto, ma un po' lo capisco.
Nel 1994 i Tar decisero di sciogliersi per gli scarsi consensi ricevuti, nonchè per l'impossibilità di vivere suonando. Eppure il quartetto di Chicago non fu soltanto una delle tante noise-band in circolazione in quegli anni, e sarà per questo motivo che la mia passione viscerale nei loro confronti non passa con gli anni (non tanto perchè non se li filò praticamente nessuno) . I Tar non erano grunge, non erano hardcore, non appartenevano alla classica, gloriosa matrice Touch & Go / Amphetamine Reptile, seppur pubblicando per entrambe le etichette. Erano nulla e tutto di questo; erano sì violenti nel concepimento, ma la loro musica viveva anche di grandi spazi tridimensionali. Non erano strumentisti tecnici, ma erano complessi nello stendere le loro tessiture, sfruttando astuzie quasi impercettibili all'orecchio distratto.
Per qualsiasi chiarimento, comunque, la cosa migliore che sia stata scritta su di loro è la esaustivissima ed esemplare scheda di Piero Scaruffi, alla quale non va aggiunto null'altro.
Toast fu lo spartiacque a metà carriera per i Tar, e forse esemplifica al meglio il loro noise concettuale. Le ondate chitarristiche di Mohr e Zablocki erano la peculiarità: impasti di suono ruvidi e spigolosi, che si rincorrono, si inseguono, deragliano e vanno alla deriva pur restando fortemente ancorati. Il basso di Zaluckyi (famoso per essere di alluminio) le rimarca con personalità, dietro tutti il possente e incalzante batterista Greenless.
Tutto Toast è un sapiente miscuglio di queste caratteristiche, dalla furiosa Altoids anyone alla sorniona Mach Song, dalle progressioni micidiali di Barry White alle ripartenze di Clincher. L'influeza dei grandi maestri del noise viene rielaborata con padronanza invidiabile, e non solo: il pezzo forte della scaletta, Satritis, è un incredibile incrocio fra il Neil Young più drammatico e gli Scratch Acid più riflessivi, con partenza lenta, progressione da brividi e sentore quasi epico.
Nel 1994 i Tar decisero di sciogliersi per gli scarsi consensi ricevuti, nonchè per l'impossibilità di vivere suonando. Eppure il quartetto di Chicago non fu soltanto una delle tante noise-band in circolazione in quegli anni, e sarà per questo motivo che la mia passione viscerale nei loro confronti non passa con gli anni (non tanto perchè non se li filò praticamente nessuno) . I Tar non erano grunge, non erano hardcore, non appartenevano alla classica, gloriosa matrice Touch & Go / Amphetamine Reptile, seppur pubblicando per entrambe le etichette. Erano nulla e tutto di questo; erano sì violenti nel concepimento, ma la loro musica viveva anche di grandi spazi tridimensionali. Non erano strumentisti tecnici, ma erano complessi nello stendere le loro tessiture, sfruttando astuzie quasi impercettibili all'orecchio distratto.
Per qualsiasi chiarimento, comunque, la cosa migliore che sia stata scritta su di loro è la esaustivissima ed esemplare scheda di Piero Scaruffi, alla quale non va aggiunto null'altro.
Toast fu lo spartiacque a metà carriera per i Tar, e forse esemplifica al meglio il loro noise concettuale. Le ondate chitarristiche di Mohr e Zablocki erano la peculiarità: impasti di suono ruvidi e spigolosi, che si rincorrono, si inseguono, deragliano e vanno alla deriva pur restando fortemente ancorati. Il basso di Zaluckyi (famoso per essere di alluminio) le rimarca con personalità, dietro tutti il possente e incalzante batterista Greenless.
Tutto Toast è un sapiente miscuglio di queste caratteristiche, dalla furiosa Altoids anyone alla sorniona Mach Song, dalle progressioni micidiali di Barry White alle ripartenze di Clincher. L'influeza dei grandi maestri del noise viene rielaborata con padronanza invidiabile, e non solo: il pezzo forte della scaletta, Satritis, è un incredibile incrocio fra il Neil Young più drammatico e gli Scratch Acid più riflessivi, con partenza lenta, progressione da brividi e sentore quasi epico.
(originalmente pubblicato il 15/01/09)
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