mercoledì 30 giugno 2010

Ben Frost - Steel Wound (2003)

Sarà mica andato a cercare il fresco, questo australiano emigrato in Islanda?
Steel wound è il suo debutto, fatto di ambient altamente evocativa ma mai impalpabile, frutto di oscure stratificazioni, di synth imponenti e chitarre riverberatissime. I primi due movimenti, Swarm e I lay my ear to furious latin, sono praticamente concatenati in un tema celestiale, di onirismo circolare. You, me and the end of everything rispolvera il vecchio fantasma dei Flying Saucer Attack, con una melodia indolente per chitarra sporca e le vocals femminili con i fischi procurati dai delays, per 10 minuti di grossa, magica psychedelia rurale.
Si torna alla grazia rifinita con la title-track. Se Klaus Schulze fosse nato nel 1980, probabilmente oggi suonerebbe come Frost. Un sentore di corrieri cosmici, inquinati però dai mali sociali del giorno d'oggi, è cosparso per tutto il disco.
Invece Frost sta a Rejkyavik e si sente. Sembra quasi di stare a contemplare le terre artiche all'ascolto di Last exit to Brooklyn, con quel chitarrismo di post-rock frantumato e sparso come urne cinerarie. In chiusura And I watched you breathe stratifica ancor di più il corpo portante del suono; sembra una vera e propria orchestrazione ambientalistica, da cui non si perde mai l'attenzione dell'orecchio.
Un disco stupendo, che sa catturare e far viaggiare. Anzi, verrebbe quasi voglia di andare in Islanda a testarlo su un geyser.

(originalmente pubblicato il 20/01/2010)

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