Ho il ricordo molto ben nitido di una puntata del marzo 1993, all'interno di Planet Rock, dello spazio settimanale che veniva riservato a Sorge il direttore di Rumore. Durava un paio d'ore, e la seconda di solito era riservata al death-grind, mentre la prima alle cose più eccitanti del panorama di cui di solito la sua rivista si dedicava. Quella sera (dovrei avere ancora la registrazione, fra l'altro) trasmise fra gli altri God Machine, Cows, ma soprattutto fece ascoltare la versione integrale (17 minuti!) della title-track di questo secondo disco del trio norvegese, e per me fu amore a prima vista.
Diciamo la verità; col tempo il loro status ai miei occhi si è ridimensionato, ma riascoltare Demon Box oggi mi fa ricordare bene perchè mi appassionai, alla luce del fatto che si tratta del loro vertice insuperato. Sono sempre stati degli abilissimi riciclatori, crossoveristi inguaribili e potentissimi dal vivo (li vidi allo Slego nel 1996, ed erano anche molto simpatici sul palco).
In questi 75 minuti avviene praticamente di tutto: sincopi metalliche alla Helmet (Feedtime, Sheer Profundity), apoteosi pop-noise alla Dinosaur Jr. (Sunchild, Junior), atmosferici psych-folk (Tuesday Morning, All is loneliness), incubi da horror soundtrack (Step inside again), sfuriate pop-core alla Husker Du (Babylon), ballad al limite del country (Waiting for the one, Come on in), cornici post-grunge (Plan #1, Nothing to say). Ma ciò che incantò me, come Sorge, fu la lunghissima title-track, che beneficiava del fondamentale apporto del manipolatore sonoro Deathprod, e che viveva di alternanze fra i rumorismi inquietanti dello stesso ed un pesantissimo hard-doom alla Black Sabbath. Un vero epic-master.
Se sono ancora vivi tutt'oggi, lo devono senz'altro alle loro abilità di saper galleggiare con fierezza e determinazione sopra le loro indubitabili influenze.
Diciamo la verità; col tempo il loro status ai miei occhi si è ridimensionato, ma riascoltare Demon Box oggi mi fa ricordare bene perchè mi appassionai, alla luce del fatto che si tratta del loro vertice insuperato. Sono sempre stati degli abilissimi riciclatori, crossoveristi inguaribili e potentissimi dal vivo (li vidi allo Slego nel 1996, ed erano anche molto simpatici sul palco).
In questi 75 minuti avviene praticamente di tutto: sincopi metalliche alla Helmet (Feedtime, Sheer Profundity), apoteosi pop-noise alla Dinosaur Jr. (Sunchild, Junior), atmosferici psych-folk (Tuesday Morning, All is loneliness), incubi da horror soundtrack (Step inside again), sfuriate pop-core alla Husker Du (Babylon), ballad al limite del country (Waiting for the one, Come on in), cornici post-grunge (Plan #1, Nothing to say). Ma ciò che incantò me, come Sorge, fu la lunghissima title-track, che beneficiava del fondamentale apporto del manipolatore sonoro Deathprod, e che viveva di alternanze fra i rumorismi inquietanti dello stesso ed un pesantissimo hard-doom alla Black Sabbath. Un vero epic-master.
Se sono ancora vivi tutt'oggi, lo devono senz'altro alle loro abilità di saper galleggiare con fierezza e determinazione sopra le loro indubitabili influenze.
(originalmente pubblicato il 08/01/2010)
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