Altro che il revival della new-wave, che bene o male ha prodotto soltanto un paio di bands valide su mille. Questa operazione compiuta dai Buona Vita americani è uno dei tributi più sani, personali e avvincenti al dark-gothic che bel bello se ne compie 30 anni e ringiovanisce un bel po'.
Questo è il disco che un Robert Smith stellare farebbe oggi se avesse 23 anni, la stessa età al tempo di Pornography di cui Deathconsciousness secondo me è degna trasposizione e reincarnazione al giorno d'oggi, con qualche sottile differenza.
La prima è la durata, con questo che è lungo il doppio. Le sonorità, che includono inserti elettronici e drum machine e appaiono comunque meno compresse e più, se vogliamo, "ambientali". Lo spirito, la disperazione e l'alienazione sembrano veramente nascere dallo stesso ceppo, ma l'angoscia opprimente di Pornography qui viene diluita in un pentolone di umori più vario e colorito. Con una specialissima attenzione per le voci, splendidamente arrangiate.
Sembra avere mietuto parecchie vittime, questo mastodonte; indubbiamente chi ha amato le pietre miliari d'Inghilterra primi anni '80 non potrà non subirne il fascino. Barret e Macuga dichiarano influenze svariate, fra black metal e jazz, e stendono un opera indimenticabile. Soltanto citare i pezzi migliori richiede parecchie righe, e i due dischi sono equalmente bilanciati in ogni ingrediente. Bloodhail è una sintesi suprema, posta dopo l'intro ambiental-dronica di A quick one: lugubre col basso, ipnotica col beat glaciale, mesmerica con la chitarra flangerizzata, però di una coralità molto sensibile. Memorabile la desolazione di Hunter, con quei colpi sparsi di rullante effettato nella prima desertica parte; successivamente il pezzo ingrana con aumento di ritmo e synth sinfonici, con la parte vocale che è una vera e propria citazione dello Smith più depresso. I killer si susseguono senza lasciar tregua: Telephony persevera l'esplorazione psichica, con passi e progressioni che ricordano Figurehead. Il chorus estatico è da brividi sottopelle. Who would leave their son out at the sun è un solenne mantra sussurrato in stile Black Tape for a Blue Girl che si dissolve nel sottosuolo.
Il secondo disco continua la meraviglia. Un minaccioso rantolo spaziale è il preludio alla spietata Waiting for black metal records in the mail, per chitarre fragorose, ritmo pestato e splendidi incroci vocali, come se i Nine Inch Nails avessero fatto un pezzo con Smith. Lascia increduli Holy fucking shit, probabilmente il miglior pezzo mai scritto dai Death Cab For Cutie! Una ballad acustica di splendore trasversale per chitarrina, beat da tastierina casio, piano e linea vocale commovente. Nella stessa traccia si sviluppa l'esplosione 40.000, sua contraltare techno-metal che lascia senza respiro. Qualche reminescenza anche dei Joy Division, nell'incessante The future. Passaggi melodici riuscitissimi nel finale grazie al pop camuffato da industrial di I don't love e al pathos parossistico degli undici minuti di Earthmover. Come se lo Smith di Disintegration si fosse ubriacato pesantemente e messo alla guida di un bulldozer.
"Opera" forse non è la parola giusta per definire questa immane produzione, così come non lo è neanche "viaggio" nè "esplorazione". La realtà è che questi due yankee che vengono dal nulla hanno compiuto un piccolo miracolo, credo con pochissimi mezzi e con una grande umiltà. Li aspettiamo al varco con il seguito...
Consiglio a chiunque ami questo disco di metterlo su mentre si fa sesso; è un esperienza totalizzante ed impagabile!
(originalmente pubblicato il 27/01/2010)
Questo è il disco che un Robert Smith stellare farebbe oggi se avesse 23 anni, la stessa età al tempo di Pornography di cui Deathconsciousness secondo me è degna trasposizione e reincarnazione al giorno d'oggi, con qualche sottile differenza.
La prima è la durata, con questo che è lungo il doppio. Le sonorità, che includono inserti elettronici e drum machine e appaiono comunque meno compresse e più, se vogliamo, "ambientali". Lo spirito, la disperazione e l'alienazione sembrano veramente nascere dallo stesso ceppo, ma l'angoscia opprimente di Pornography qui viene diluita in un pentolone di umori più vario e colorito. Con una specialissima attenzione per le voci, splendidamente arrangiate.
Sembra avere mietuto parecchie vittime, questo mastodonte; indubbiamente chi ha amato le pietre miliari d'Inghilterra primi anni '80 non potrà non subirne il fascino. Barret e Macuga dichiarano influenze svariate, fra black metal e jazz, e stendono un opera indimenticabile. Soltanto citare i pezzi migliori richiede parecchie righe, e i due dischi sono equalmente bilanciati in ogni ingrediente. Bloodhail è una sintesi suprema, posta dopo l'intro ambiental-dronica di A quick one: lugubre col basso, ipnotica col beat glaciale, mesmerica con la chitarra flangerizzata, però di una coralità molto sensibile. Memorabile la desolazione di Hunter, con quei colpi sparsi di rullante effettato nella prima desertica parte; successivamente il pezzo ingrana con aumento di ritmo e synth sinfonici, con la parte vocale che è una vera e propria citazione dello Smith più depresso. I killer si susseguono senza lasciar tregua: Telephony persevera l'esplorazione psichica, con passi e progressioni che ricordano Figurehead. Il chorus estatico è da brividi sottopelle. Who would leave their son out at the sun è un solenne mantra sussurrato in stile Black Tape for a Blue Girl che si dissolve nel sottosuolo.
Il secondo disco continua la meraviglia. Un minaccioso rantolo spaziale è il preludio alla spietata Waiting for black metal records in the mail, per chitarre fragorose, ritmo pestato e splendidi incroci vocali, come se i Nine Inch Nails avessero fatto un pezzo con Smith. Lascia increduli Holy fucking shit, probabilmente il miglior pezzo mai scritto dai Death Cab For Cutie! Una ballad acustica di splendore trasversale per chitarrina, beat da tastierina casio, piano e linea vocale commovente. Nella stessa traccia si sviluppa l'esplosione 40.000, sua contraltare techno-metal che lascia senza respiro. Qualche reminescenza anche dei Joy Division, nell'incessante The future. Passaggi melodici riuscitissimi nel finale grazie al pop camuffato da industrial di I don't love e al pathos parossistico degli undici minuti di Earthmover. Come se lo Smith di Disintegration si fosse ubriacato pesantemente e messo alla guida di un bulldozer.
"Opera" forse non è la parola giusta per definire questa immane produzione, così come non lo è neanche "viaggio" nè "esplorazione". La realtà è che questi due yankee che vengono dal nulla hanno compiuto un piccolo miracolo, credo con pochissimi mezzi e con una grande umiltà. Li aspettiamo al varco con il seguito...
Consiglio a chiunque ami questo disco di metterlo su mentre si fa sesso; è un esperienza totalizzante ed impagabile!
Mi sembra un ottimo consiglio.
RispondiEliminaCosì, ad intuito.