Il primo fondamentale passo dei bostoniani, in bilico fra psichedelia, free-form-rock, krautismi e new wave sporca. Ovvero la miglior sintesi clorofilliana possibile nei primi anni '90 dei '70 e '80 calibrata in un ottica talentuosa grazie alle capacità fantasiose dei 4.
Il mondo scoprì cosi le doti di un chitarrista come Jones, visionario che era cresciuto col fingerpicking folk e aveva installato la sua tecnica sull'elettrica, fondendo funk, jazz e country in un prodigioso colpo solo. Amos era l'indubitabile erede di Ravenstine, il rumorista dei Pere Ubu ai synth creativi. La sezione ritmica di Fujiwara e Guttmacher forniva un materasso morbido ed elastico alle elucubrazioni dei leader.
Su Death Kit Train sembra materializzarsi lo spirito dei gloriosissimi Can di Tago Mago, quel classico ritmo sornione motorizzato e la volta celeste ad un passo (Guttmacher dimostrerà nel corso di tutto il disco di aver ben mandato a memoria la lezione cronometrica di Liebezeit). Ma è solo uno dei tanti particolari di questo disco multi-sfaccettato. L'esotismo indolente di The moon scolds, la chitarra jazz sfigurata di Stranger at coney island, l'incubo wave-industrial di Homunculus, il country-rock di Portland cement factory, il post-Hawkwind di Nico's dream.
E non va certo sottovalutato un lato auto-ironico che io personalmente intravedo nella versione lisergica di Song to the siren di Buckley, con il canto incertamente declamato. Un autentica meraviglia è Electar, cavalcata stellare in cui viene sintetizzato tutto il meltin' pot sopracitato in un unica sulfurea e traboccante soluzione salina. Le arie western-orientali di Lauren's blues chiudono alla grandissima un esordio clamoroso, al quale la ristampa di 3 anni fa ha aggiunto 3 bonus trax. Perle aggiuntive per chi ama il CDS sound: lo pseudo-noise di Cul de Sade mostra una cattiveria inaspettata, The bee that would not work altra jam lunare di classe, Negligee una brevissima vignetta per basso e triangolo tintinnante in sottofondo.
Avanguardia retrograda.
(originalmente pubblicato il 02/11/09)
Il mondo scoprì cosi le doti di un chitarrista come Jones, visionario che era cresciuto col fingerpicking folk e aveva installato la sua tecnica sull'elettrica, fondendo funk, jazz e country in un prodigioso colpo solo. Amos era l'indubitabile erede di Ravenstine, il rumorista dei Pere Ubu ai synth creativi. La sezione ritmica di Fujiwara e Guttmacher forniva un materasso morbido ed elastico alle elucubrazioni dei leader.
Su Death Kit Train sembra materializzarsi lo spirito dei gloriosissimi Can di Tago Mago, quel classico ritmo sornione motorizzato e la volta celeste ad un passo (Guttmacher dimostrerà nel corso di tutto il disco di aver ben mandato a memoria la lezione cronometrica di Liebezeit). Ma è solo uno dei tanti particolari di questo disco multi-sfaccettato. L'esotismo indolente di The moon scolds, la chitarra jazz sfigurata di Stranger at coney island, l'incubo wave-industrial di Homunculus, il country-rock di Portland cement factory, il post-Hawkwind di Nico's dream.
E non va certo sottovalutato un lato auto-ironico che io personalmente intravedo nella versione lisergica di Song to the siren di Buckley, con il canto incertamente declamato. Un autentica meraviglia è Electar, cavalcata stellare in cui viene sintetizzato tutto il meltin' pot sopracitato in un unica sulfurea e traboccante soluzione salina. Le arie western-orientali di Lauren's blues chiudono alla grandissima un esordio clamoroso, al quale la ristampa di 3 anni fa ha aggiunto 3 bonus trax. Perle aggiuntive per chi ama il CDS sound: lo pseudo-noise di Cul de Sade mostra una cattiveria inaspettata, The bee that would not work altra jam lunare di classe, Negligee una brevissima vignetta per basso e triangolo tintinnante in sottofondo.
Avanguardia retrograda.
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