mercoledì 16 giugno 2010

The Cure - Three imaginary boys (1979 - Deluxe Edition)

Al raggiunto traguardo degli enta, la domanda lecita è: li porta bene o male?
Questa ristampa deluxe celebrativa di qualche anno fa interveniva in merito, a prescindere dall'aspetto meramente commerciale dell'operazione. Ma oggi 3IB si conferma come uno dei più brillanti e sornioni dischi pop della nascente wave inglese. Il talento melodico di uno Smith appena ventenne al servizio del post-punk che lui stesso ha contribuito ad inventare, la sua determinazione nel portare avanti le proprie idee, un manipolo di songs poco meno che memorabili ed una personalità già fortissima poco prima della folgorazione spirituale con cui prenderà il comando del timone dark-wave.
Innanzitutto, l'ostacolo più grosso; Chris Parry, pacioso scopritore pigmalione e dannato produttore auto-impostosi in studio. Era chiaro che Tolhurst non fosse un gran batterista, ma in alcuni pezzi non si sente neanche la cassa. Le chitarre sono quasi del tutto prive di toni bassi, e l'enfasi appare quasi sempre appannaggio di Dempsey. Il che non era un fatto negativo, anzi, poteva sembrare anche giusto puntare sull'elemento tecnicamente più abile. Ma un maggiore equilibrio (incapacità? mania di protagonismo? risparmio?) e senso coesivo (penso solo ad altri dischi di quell'anno, come Wire o Joy Division) avrebbe reso giustizia. Tutti discorsi superflui, comunque, quando il ticchettio di 10.15 Saturday Night mette immediatamente i brividi. Un pezzo così semplice ma complesso, con le ripartenze e i tonfi, una drammaticità scenografica mai sentita prima, quell'assolo così fragoroso di chitarra, quello gelido di basso alla fine, il post-punk aveva pronto il suo inno alla fatalità.
3IB è una raccolta di contrasti, al punto che non si sa bene qual'è la direzione. Le scanzonature di Accuracy e Meat Hook sono quanto di più ruffiano si potesse fare, ma è fatto in un modo così auto-ironico che non si possono non apprezzare. Il versante punk invece viene preso per la collottola, schiaffeggiato e corrotto al servizio del pop. Esattamente il contrario di quanto stavano facendo i Buzzcocks, intrusi del genere e veri ruffiani. Grinding halt e Object prendono forme indefinibili, pertanto. L'urgenza è la stessa ma è srotolata con furbizia, Dempsey la maschera da funk, la voce adolescente di Smith è sicura e beffarda. E con So what si raggiunge la perdizione, mai stata così irresistibile: il testo metà delirio alcoolico, metà pubblicità di un set per glassare le torte. Smith lo rinnegherà come un gesto infantile, nel complesso una piccola gemma di punk minimalista. E che dire di Fire in Cairo, fluido capolavoro di nevrosi controllata? Quel ritornello in spelling del titolo dove lo mettiamo?
La varietà fu un altro grande pregio. Piccoli presagi di gotico, di ruscelletti di spleen che tarderanno poco ad ingrossarsi. La letargica Another day, con intermezzo slow-core ante-litteram. La tristissima title-track diventerà ponte ideale su 17 Seconds, con tanto di assolo acuminato di Smith a rabbrividire. E infine un ricordo di Subway Song. Sono passati 20 anni da quando ascoltai questo disco per la prima volta, e adesso mi viene da ridere. Ma il coccolone che mi beccai con quell'urlo disumano in pieno fading-out del post-blues da tube londinese, in qualche modo mi ha segnato in modo indelebile. Ogni volta la paura è sempre la stessa....
Tralasciando due piccoli passi falsi come It's not you (sbiadita copia di Object) e la cover di Foxy Lady (un tentativo alla Devo di destrutturare un classico, miseramente fallito), il curiofilo di razza avrà parzialmente esultato accingendosi a maneggiare il cd bonus della ristampa.
Le divertentissime scorribande pop-core di I want to be old, I just need myself le conoscevamo da secoli ma ottengono un riconoscimento ufficiale solo qui. Sapevamo a memoria anche il live '77 di Heroin face e il tenero embrione di Boys don't cry. Certi demo saranno utili solo ai maniaci, con arrangiamenti incerti e uno Smith davvero troppo imberbe, ancora influenzato dal retaggio glam. Vale la pena di esultare intorno alla metà del cidì, con perle insperate come l'atmosferica Winter, delittuoso lasciare nel cassetto una melodia così avvolgente e profonda, proto-Charlotte sometimes. Faded smiles e Play with me non avrebbero trovato migliore collocazione se non nel disco originale al posto delle due debolezze sopra citate, ancora pop-core fuori dai luoghi comuni e indovinato mix con un Dempsey scatenato. Nel finale, un trio live dell'ottobre '79 di cui una fulminea 10.15 dal ritmo raddoppiato, e il più controverso pezzo dell'anno, Jumping someone else's train. Entrambi corrispondenti all'addio di Dempsey, incompatibile caratterialmente con Smith, il singolo coincideva proprio con la sua prova più pirotecnica. Il suo stile bassistico farà scuola negli anni a venire, ma Smith sapeva già la direzione da intraprendere e non era proprio quello che gli tornava utile, con un Gallup già pronto e scalpitante dietro l'angolo.
Ma, attenzione.....sbaglio o manca Killing an Arab? Scelta politica o ennesimo scherzo di quel mattacchione di Ciccio Smith?

(originalmente pubblicato il 22/10/09)

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