L'unico disco di cui posso parlare dei pomposi e tronfi ELP è questo secondo, se non altro per la suite Tarkus, l'unico loro pezzo che ascolto ancora volentieri ogni qualche anno.
Fatti salvi anche alcuni momenti pregevoli sul debutto dell'anno precedente, ho sempre ammirato la tecnica e la spettacolarità dei tre ma ritenuto la produzione un po' pesantemente autocompiacente per coinvolgermi seriamente. Il punto d'equilibrio invece si raggiungeva sulla prima facciata del pezzo di vinile, una ventina di minuti emozionanti e ben bilanciati.
Sulla falsariga della favoletta di un armadillo cingolato che viene sputato da un vulcano e semina morte attorno a sè finche non viene ribaltato da una manticora, Tarkus è diviso in sette movimenti epici ed avvincenti. La concitazione di Eruption è già showcase dell'organo di Emerson, ma quando entra la voce di Lake siamo in Stones of years, un impeto di brillantissimo romanticismo. L'alternanza fra scatenate digressioni cerebrali e songs più convenzionali continua con Iconoclast seguita dal blues deformato di Mass. Un altro ballo di san vito con Manticore ed arriva il momento più bello, non a caso firmato Lake che si veste anche da chitarrista. The battlefield è un movimento solenne e stratificato, che a darlo in mano a Fripp sarebbe diventato una leggenda, anche perchè per un po' Emerson se ne sta buono, almeno fino alla pre-chiusura memorabile di Aquatarkus, in cui il moog prende le sembianze di paperi elettrici. Il gran finale riprende l'apertura con toni ancora più autoritari, e con una potenza da mettere i brividi. Grande prestazione globale, ovviamente, anche di Palmer.
Girando il vinilone, la delusione cocente è pressochè inevitabile. Gli insipidi siparietti di Jeremy Bender e Bitches crystal non hanno un centesimo della consistenza precedente. La messa di The only way è perfidamente stucchevole, e il boogie di Are you ready Eddie è come scavare sotto la base del barile. Si salvavano un pochetto l'energetica A time and a place e la vagamente canterburiana Infinite space.
Da ascoltare a metà.
Fatti salvi anche alcuni momenti pregevoli sul debutto dell'anno precedente, ho sempre ammirato la tecnica e la spettacolarità dei tre ma ritenuto la produzione un po' pesantemente autocompiacente per coinvolgermi seriamente. Il punto d'equilibrio invece si raggiungeva sulla prima facciata del pezzo di vinile, una ventina di minuti emozionanti e ben bilanciati.
Sulla falsariga della favoletta di un armadillo cingolato che viene sputato da un vulcano e semina morte attorno a sè finche non viene ribaltato da una manticora, Tarkus è diviso in sette movimenti epici ed avvincenti. La concitazione di Eruption è già showcase dell'organo di Emerson, ma quando entra la voce di Lake siamo in Stones of years, un impeto di brillantissimo romanticismo. L'alternanza fra scatenate digressioni cerebrali e songs più convenzionali continua con Iconoclast seguita dal blues deformato di Mass. Un altro ballo di san vito con Manticore ed arriva il momento più bello, non a caso firmato Lake che si veste anche da chitarrista. The battlefield è un movimento solenne e stratificato, che a darlo in mano a Fripp sarebbe diventato una leggenda, anche perchè per un po' Emerson se ne sta buono, almeno fino alla pre-chiusura memorabile di Aquatarkus, in cui il moog prende le sembianze di paperi elettrici. Il gran finale riprende l'apertura con toni ancora più autoritari, e con una potenza da mettere i brividi. Grande prestazione globale, ovviamente, anche di Palmer.
Girando il vinilone, la delusione cocente è pressochè inevitabile. Gli insipidi siparietti di Jeremy Bender e Bitches crystal non hanno un centesimo della consistenza precedente. La messa di The only way è perfidamente stucchevole, e il boogie di Are you ready Eddie è come scavare sotto la base del barile. Si salvavano un pochetto l'energetica A time and a place e la vagamente canterburiana Infinite space.
Da ascoltare a metà.
(originalmente pubblicato il 27/11/09)
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