venerdì 30 aprile 2010

Mark Hollis - s-t (1998)

Ecco un artista che si ha motivo di rimpiangere.
Sono passati 10 anni da questo isolato episodio e non si scorge alcuna notizia del gentlemen di Tottenham, e temo che noi fan dovremo rassegnarci all'idea che non tornerà mai più.
Ci restano un pugno di dischi senza tempo, di cui ci possiamo accontentare. E non voglio neanche pensare che questo eponimo venne rilasciato per onorare e terminare il contratto con la Polydor, tanta è la bellezza pura ed incontaminata di questi 8 candidi lenzuoli di note e calma serafica.
Accompagnato dal solito ensemble da camera, Hollis li scrisse insieme a 3 musicisti sconosciuti che col rock non hanno nulla a che fare (Miller,Livesey,Ramacon). Il soul in moviola argentato di The colour of spring, praticamente una citazione del passato Talk Talk, apre ed è subito incantesimo. Inside looking out, unico pezzo scritto in solitudine, è scomposizione pianistica per chi ama perder(si) (nel) tempo, melodia immortale e fatalistica. E' comunque la chitarra classica a guidare le composizioni, come nella jazzata The gift, nell'agreste Westward bound, nella frizzante fanfara fiatistica di The daily planet.
Elegie del silenzio, degli squittii timidi degli ottoni, dei tocchi pesanti del double bass, della voce stentorea e fragile, delle spazzole a rimbalzare educatamente, del pianoforte nobilmente echeggiante, A life (1895-1915) e A new Jerusalem sono le perle definitive di un artista unico che ha fatto della propria integrità di vita (attenzione, non artistica) una roccaforte inespugnabile, persino dopo le sbornie anni '80 che potevano spazzarla via.

(originalmente pubblicato il 08/09/08)

Don Caballero - 2 (1995)

Lo spirito più avventuroso e abrasivo dei King Crimson di Red riviveva una nuova e avventurosa dimensione con l'avvento dei Don Caballero a metà anni '90. Dopo il frenetico debutto di For Respect, l'ensemble di Che & Williams perveniva al capolavoro del math-rock tutto, un'ora secca di calderoni nevrotici e ineffabili. L'iper-tecnicismo assumeva parvenze masticabili anche dal pubblico dell'indie-rock con questi 8 pezzi micidiali; ribattezzatosi (con un filo di narcisismo) Octopus, Che faceva bella mostra del suo bagaglio alle pelli; novello Bruford, novello Cobham, i suoi tamburi e piatti dominavano dall'inizio alla fine. Ma un'apporto fondamentale all'impianto lo fornivano senz'altro Williams & Banfield, novelli Fripp, con le loro scale atonali, gli incroci impossibili, gli stridori metallici e le distorsioni psycho-noise.
Il sentore free-jazz di 2 viene incapsulato in una griglia d'acciaio in cui le strutture minacciose hanno sempre possibilità di librarsi in voli pindarici. L'organizzazione sembra molto rigida (e difatti Williams finirà per stancarsi di aderire a canovacci pre-stabiliti, finendo per sbragarsi con gli Storm & stress). Un pezzo come Please tokio, please THIS IS TOKIO è la summa di tutto il disco, con quella coda finale di deragliamenti, Che che imbraccia una sega a nastro per tagliare i piatti, la campana, la sinfonia di feedback che non finisce mai, al termine di un tour de force prog-core. Oppure le riprese acide di Cold Knees (in April), le ombre cinesi liquefatte di Repeat Defender, gli inserti vagamente slintiani di Rollerblade success story, l'inizio alla Mahavishnu Orchestra di Stupid Puma, tutto il disco vive una storia a sè in cui i 4 interagiscono in maniera esemplare, in cui lo strafare strumentale è sempre funzionale ai pezzi e mai per puro visagismo virtuosistico.

(originalmente pubblicato il 07/09/08)

Usa is a Monster - Wohav (2005)

Una delle scoperte più eccitanti degli ultimi anni in ambito noise americano è questo duo ultra-cazzuto che riesce a svariare su più fronti con uno stile personalissimo, con una schizofrenia latente di fondo. Wohav è un disco fondamentalmente diviso in due tronconi: prima il lato noise, poi il lato folk. I connotati fortemente politicizzati sono evidentissimi (a partire dal loro stesso nome), rispecchiando così l'epoca Bush dal punto di vista contestatore. Ma è davvero il primo lato del disco a sconvolgere, con la partenza esplosiva di Clay People: batteria indiavolata, fraseggi angolari di chitarra raddoppiati da chorus da psicodramma (quasi in stile primi Chrome)., vocalizzi impazziti. Gli UIAM stupiscono per la compattezza estrema ma anche per le partiture mai ovvie e i controtempi impossibili, per i quali il parallelo con il prog-rock non appare poi così fuori luogo. The hobokon è incredibile in tal senso, con Langenus e Hollman impegnati a sintetizzare in 3-minuti-3 almeno 4 stili diversi. Tecumseh inizia come un pezzo mistico degli Oneida, con l'esplosione stoner dietro l'angolo. La rabbia feroce di Poison plant al contrario viene stemperata in un dolente incedere vagamente western. La forte influenza del folk dei nativi americani sembra affiorare molto spesso e volentieri all'interno delle loro sfuriate psycho-noise. Riff scientist sembra la mutazione genetica di un grind-core interpretato dai Grateful Dead sotto anfetamina. La splendida Hey rilascia l'energia devastante di una mandria di bufali inferociti, come i Black Sabbath travestiti da banda militare in mezzo ad un bombardamento. A chiudere una side esaltante All the world leaders must die, sintesi di anarchia totale come da titolo, è una lavanda gastrica bella e buona, dove la violenza brada trova motivo di esistere soltanto quando c'è un fondamento intellettuale-progressivo. Mai sentita una cosa così; la sregolatezza la possono avere tutti, ma eseguita con uno stile così originale è davvero inusuale. Questo è il sound che avrebbero potuto elaborare i Godheadsilo se non si fossero invischiati col grunge.
Per contrasto, la b-side con le sue lamentose e tristi ballads folk perde inevitabilmente d'intensità. Non che siano brutte, per carità; ma soltanto con gli ultimi due pezzi i due riprendono a cavalcare l'imbizzarrito animale che sanno guidare alla grande; God is red, con le sue svisate di synth, ricorda i Trans Am più aggressivi, e la finale King of the punks recupera una affascinante lisergìa rimasta confinata altrove.

(originalmente pubblicato il 07/09/08)

For Carnation - Promised Works (1996)

Raccolta dei primi due EP, Fight songs e Marshmallows. Brian McMahan si prese il suo tempo, probabilmente terminò gli studi e insieme al fratello mise insieme una band estemporanea. Il suono è senz'altro riconducibile agli Slint in occasione di quei vuoti deflagranti e abissali, quelle stasi angoscianti, ma non solo: persino le tracce più vibranti ricordano alle schizofreniche danze di Tweez.
Grace beneath the pines appartiene alla prima categoria, con un pizzico di disincanto; gli accordi sparuti e centellinati, la voce sussurrata, il break drammatico, tutto molto minimale.
Ma con How i beat the devil ci si risveglia in preda ad una tarantella esplosiva e deragliata, un minuto e mezzo e si ritorna alla quiete con Get and stay get march, pacifica ballad dai toni trasognati con arie tastieristiche.
Marshmallows era leggermente multiforme. Accanto ad un paio di pezzettini solari ed allegri, McMahan tirava fuori dal cilindro qualche miracolo: un gong e un dilaniare di Telecaster introducono I wear the gold, strumentale da paura; batteria marziale e poliritmica, mugugnii sinistri, feedback in risonanza, accordi dissonanti, l'essenza slintiana al midollo spinale.
Winter lair invece è la nuova Don Aman: desolazione semi-acustica, la spettralità da camera, qualche percussione in sottofondo, come la soundtrack del paesaggio dopo l'uragano.

(originalmente pubblicato il 06/09/08)

Black Flag - In my head (1985)

L'ultimo disco con Rollins alla voce vedeva lo strapotere chitarristico di Ginn, sempre più impegnato a tessere trame articolate e dissonanti. Il suo tiranneggiare le sorti artistiche della band lo portarono allo scioglimento: in aperta polemica con il vocalist, sotterrò le sue linee al di sotto degli strumenti. E fu un peccato, perchè In my head altro non era che un validissimo seguito agli album precedenti. White Hot, Out of this world, Drinking and driving, Society's tease sono i picchi di un albo rocciosissimo e maschio. E, a ben dire la verità e a prescindere dai contenuti, Rollins aveva una sua importanza nell'economia del sound.

(originalmente pubblicato il 04/09/08)

Grifters - One sock missing (1993)

Con il grandissimo Crappin' you negative i Grifters sono stati fra i più convincenti esponenti dell'indie-rock strascicato, surreale, permeato di blues insano e malsano. Il quartetto, come al solito quasi esclusivamente privo di basso e forte di un trio chitarristico, sfoderava con questo secondo disco una 15ina di pezzi ben articolati e di varia fattura. L'attacco compatto di Bummer viaggia su coordinate deraglianti, con le chitarre sporchissime a fare strato, la batteria sferragliante, l'incipit da blues atomico; come se i Groundhogs fossero nati a Memphis nel 1990. Le ripartenze schizofreniche di She blows blasts of static ristabilisce il confronto con il Captain Beefheart di fine anni '70. Teenage Jesus e Encruster sono tornadi rovinosi. La registrazione sembra quasi amatoriale, ma non è un caso. Il disco non soffre neanche di un momento di noia o calo di tensione, tant'è che persino le ballads si fanno amare non poco: #1 è spinta da cori riverberati di grande effetto, l'intensissima Wonder è punteggiata da un violino struggente. The casual years scorre su macerie ambient-psichedeliche.

(originalmente pubblicato il 03/09/08)

Psychedelic Furs - Radio One Sessions 79-90 (1997)

La miglior raccolta che possa esser stata fatta sui PF, in mezzo a tanti greatest hits utili solo a far cassa (per modo di dire, visto il successo non proprio planetario) è questa semplice stampa Strange Fruit che raccoglie le session per la Radio One inglese nell'arco del decennio di principale attività prima dello scioglimento. Una ventina di pezzi ben assortiti seppur la disomogeneità sia evidente, un compendio esaltante su quanto di meglio Butler & Co. abbiano creato, registrati live in studio con una resa sonora pressochè perfetta. La progressione è chiara e precisa: il glam-punk dell'inizio con le trascinanti Fall, We love you, Soap commercial, primo segno di talento espressivo al cospetto di una tecnica tipicamente wave. Poi le riflessioni dark tinte di rosa di Imitation of christ, Sister Europe, l'ipnotica Mac the knife, scritta come colonna sonora teatrale. Si entra poi nella fase migliore del gruppo, quella di Talk Talk Talk: Into you like a train aggira a piedi pari gli estetismi di studio e travolge tutto ciò che incontra sulle rotaie. La voce pastosa di Richard, le chitarre a spirale di Ashton e Morris, la sezione ritmica martellante di Tim Butler e Ely e il sax di Kilburn a guarnire nei momenti giusti, il sestetto stava per perdere i pezzi ma suonava ancora alla grande. On and on again raffresca con il suo pop irresistibile.
Dal 1982 in poi edulcoravano il suono girando verso un pop comunque buono, mai scontato. Persino in queste sessions riuscivano a suonare convincenti, in She is mine, Dumb waiters, All of this and nothing. L'ultima session è del 1990, alle ultime fasi prima dello split: l'acida Entertain me, lo spleen memorabile di Book of days, la ballad Torch e la resa acustica di Pretty in pink mostravano una band in declino soltanto in studio, che dal vivo recuperava il piacere di suonare con naturalezza e carisma immutato.

(originalmente pubblicato il 02/09/08)

Barzin - Barzin (2003)

Adoro la musica di questo ragazzo canadese del quale si hanno pochissime info e dal quale mi aspetto un grande seguito al sublime My life in Rooms. Intanto mi rigusto il suo debutto eponimo che uscì per una piccola label locale nel 2003, che vedeva un autore spuntare dal nulla con 8 pezzi sulla scia del migliore slow-post-folk cantautoriale. Sono songs lente, autunnali, cantate e suonate in punta di dita e gola, di una classe e raffinatezza infinita.
L'inizio è da urlo: Pale blue eyes, un solluchero in moviola, si muove fra pochi accordi, con una slide che panoramizza. Over my blue è minimale il giusto per creare un atmosfera notturna e fascinosa, con chitarra e vibes all'unisono. Past all concerns si dipana calma per oltre 12 minuti, quasi una ripresa degli ultimi rilassati Red House Painters. Un beat strascicato e un organetto sono la base di un'altro capolavoro di flemma come Building a house. E ancora la drammatica Cruel Sea, la fragilissima Morning Doubts, la docile Autumn Moon, fino a chiudere con gli 11 minuti onirici di Sleep, serenata strumentale con coda pianistica.
Un disco da camino acceso, logicamente in pieno inverno, magari con la neve fuori.

(originalmente pubblicato il 01/09/08)

Bonnie Prince Billy - Summer in the Southeast (live) (2005)

Perdersi nella sterminata discografia di Oldham è relativamente facile, anche per uno come me che lo ascolta dal 1994, ammira da sempre la sua semplicità e spontaneità nel fare musica e nel suo essere umano, come ebbi modo di verificare quando lo vidi suonare al Link nel 1999 e gli strinsi la mano complimentandomi mentre si aggirava per il locale nella maniera più naturale possibile. Il concerto invece non fu molto soddisfacente, ma più che altro per colpa di suo fratello Ned che dopo qualche pezzo, ubriaco fradicio, prima si mise a suonare su una sedia e poi cadde a terra esanime, fra l'indifferenza totale degli altri 4 che continuarono a suonare senza basso.
Summer in the Southeast è stata una boccata d'aria fresca nel panorama asfittico degli ultimi 5 anni del principino. Evidentemente ripagato da una crescente attenzione nei suoi confronti, continua a far uscire una media di 3 dischi all'anno, non sempre entusiasmanti. Il suo status di cantautore ormai classico però ne esce assolutamente rinforzato in questo live ispiratissimo e totalmente coinvolgente, dal primo all'ultimo pezzo. Andando a pescare in tutto il suo repertorio, appoggiato presumibilmente da un quartetto, Oldham dà vita ad un live infuocato ed elegante al tempo stesso, in cui grinta e classe viaggiano di pari passo. Stupiscono in primis due riletture d'epoca come Pushkin e A sucker's evening, che animate da ricchi arrangiamenti acquistano nuove e raggianti sembianze. Fra la moltitudine dei 17 pezzi tutto l'universo Oldhamiano viene percorso, sviscerato, animato e sezionato senza alcun pudore. L'abrasiva Master and everyone, la passionale Blokbuster, la lunare Wolf amongst wolves, la frenetica May always be, l'elegiaca I see a darkness, l'esplosiva O let it be, l'intimista Beast for three, la neil-younghiana Death to everyone, potrei elencarle tutte ma mi fermo qui.
Per farla breve, il miglior greatest-hits che potesse fare.

(originalmente pubblicato il 31/08/08)

Calla - Scavengers (2000)

Devo dire che non mi è dispiaciuta troppo la graduale metamorfosi dei Calla, partendo dal cupissimo primo album e arrivando all'ultimo quasi mainstream ma di una sua dignità distinta. D'altra parte il loro punto forte è sempre stata la personalità, l'unicità del marchio di fabbrica. A volte certe influenze vengono fuori in maniera ben udibile ma apprezzo molto la loro integrità artistica (magari si sono dovuti svendere un pochettino per sopravvivere piuttosto che smettere di suonare).
Scavengers li vedeva alla seconda tappa, probabilmente la più slow-core dell'intero lotto. A fare da corollario agli strumenti classici ci sono ancora le frequenze disturbate-noisy di Magruder e Donovan, ma è in questa sede che Valle inizia a prendere leggermente confidenza con la forma canzone, a far guidare i pezzi dai suoi accordi pigri e leziosi, a cantare con appena un po' di convinzione in più. Gli splendori del disco in questo senso sono Tijerina, tenue malinconia che esce dal bozzolo con calma, e Slum creeper, la cui intro minacciosa va a cozzare su rifrazioni elettroniche rimbombanti. I break di The swarm sono mutazioni personalissime del post-punk più atmosferico, con uno stomp finale degno dei mostri sacri della categoria. Il lato più disperato del loro pessimismo si trova nelle angoscianti Love of Ivah e Traffic Sound. Non mancano pezzi più solari e lineari, (Fear of fireflies, Hover over nowhere, Dear Mary) nè incursioni nell'elettronica astratta che tanto dominavano il debutto (Mayzelle), o come la finale Subterrain, pregevole mix di tutto quanto sopra-descritto, che sfocia in un post-rock ambientale da palude tropicale.

(originalmente pubblicato il 31/08/08)

Six Finger Satellite - The Pigeon Is The Most Popular Bird (1993)

Già il titolo la dice lunga sulla pazzia di questo quintetto: chiamare il disco di debutto Il piccione è il volatile più popolare ne è segno inequivocabile. E' un album molto lungo, che alterna i 10 brani veri e propri ad altrettanti strumentali bizzarri cacofonici senza titolo. Sembra comunque chiaro fin dall'inizio che i 6FS avevano un forte retaggio new/no-wave (Pere Ubu, Devo, Captain Beefheart, Public Image) soprattutto per quanto riguarda la poderosa sezione ritmica, con le due chitarre deraglianti e stridenti che avevano l'onere di distogliere l'attenzione dai deliri strascicati del cantante Ryan. Il tutto veniva opportunamente aggiornato ai canoni contemporanei del noise.
Un disco notevole, in cui forse l'unico vero limite è un eccessiva lunghezza.

(originalmente pubblicato il 29/08/08)

Dark Millenium - Diana Red Peace (1993)

Questo è un retaggio di stagioni adolescenziali, più o meno nel 1993 quando Claudio Sorge aveva il suo spazio settimanale su Planet Rock e trasmetteva quasi sempre grind-core e death-metal. Ma mentre di quella furia cieca e iper-brutale non ho quasi nessun ricordo, di tanto in tanto tirava fuori anche cose un po' più contaminate che mi affascinavano non poco come questi tedeschi Dark Millenium, un quintetto del quale in rete non si trova praticamente nessuna info, tant'è che credo siano ormai dimenticati da chiunque anche nell'ambito metal.
Restai soprattutto fulminato dalla incantevole Pandemonium, di cui il caro direttore si prese il lusso trasmettere in tutti i suoi 9 minuti. Il sound dei DM era una fusione ambiziosa che tangeva molto lontanamente il death metal, in quanto alternava con piacere muri di chitarre inox a finiture prog-neo-classiche di grande gusto. Il cantante purtroppo era il punto debole, questo bisogna dirlo, mentre i due axe-men si facevano notare per duelli incrociati ricchi di fantasia e perizia. Dead in love si segnala subito come esperimento perfettamente riuscito, con arpeggi acustici, esplosioni granitiche e un refrain doom, tutto molto colorato e impressionistico, come anche gli armonici di Brotherhood sleep. Mechanismeffect sembra un blues-metal che divampa in fiamme, con splendido assolo finale di acustica. La tecnica strumentale e le strutture compositive sono ineccepibili, il bello è che i DM non avevano lasciato il cuore a casa per far sentire quanto erano bravi. Ereditano dal doom una certa epicità e melanconia di fondo, dal prog i cambi improvvisi di tempo e tono. Il capolavoro del disco è per l'appunto Pandemonium, una meditazione infernale di oltre 9 minuti che sublima il lavoro con le sue cesellature chitarristiche. Si parte con toni dark-dimessi, al quinto minuto si cambia tutto e si va su accordi maggiori, il suono trascende verso una sorta di psichedelia aerea, poi tornano le acustiche per incupire. Insomma, una suite che avrebbe fatto meritare ai tedeschi un po' più di visibilità per le loro doti (a patto di cambiare cantante), se non che, credo che questo sia stato il loro atto conclusivo.

(originalmente pubblicato il 28/08/08)

David Sylvian & Robert Fripp - Damage (1994)

Originalmente pubblicato su "Itself" #5 del 1997;
Se "First Day" aveva rivelato un ibrido interessante fra due personalità molto forti, "Damage" sposta il tiro nel senso che questo sembra un live di David Sylvian con Fripp alla chitarra. Lo sciamano ex-Japan domina il palco con la sua splendida voce, il leader dei King Crimson si esibisce in virtuosismi e cazzeggiamenti con aggeggi e frippertronics vari. Le composizioni sono divise però con il bassista Trey Gunn, esperto di Stick e in alcuni brani col batterista David Bottrill, che qua però è sostituito da Pat Mastelotto dei KC. La registrazione è inevitabilmente limpida e nitida. Si parte con un inedito, "Damage", per voce, tastiere e basso: puro Sylvian style. Ce ne sarà un altro alla fine, "The First day", per piano e voce, di un intensità unica, un pezzo fantastico che ricorda le sue pagine migliori dei mid 80's, di cui il gruppo dev'essere grande ammiratore. Naturalmente c'è spazio anche per i pezzi del disco in studio; "God's monkey", "Brightness Falls", "Firepower", "20th century dreaming", "Darshan", lievemente dilatati, che dimostrano la riuscita dell'interessante esperimento di accompagnare Sylvian con arrangiamenti a tratti hard. Ma, chissà perchè, i pezzi migliori restano sempre quelli del passato. Stupendo il ripescaggio di "Every colour you are", originalmente apparso su "Rain Tree Crow", la reunion dei Japan del 1989. Notevolmente diverso rispetto all' originale, acquista profondità e regala emozioni a fiotti. Infine 3 estratti da quello che da molti viene definito il miglior album di Sylvian solista, "Gone to earth", al quale collaborò anche Fripp, co-autore della title-track qui riproposta con le sue dissonanze armoniche. Autentici gioielli risultano anche "Wave" e "Riverman", profondi, emotivi e paradisiaci come gran parte delle perle di Sylvian.
Un progetto che ha permesso ai due di evolversi in direzione di musiche futuristiche; il suono di questi artisti non ha bisogno di essere descritto, sono loro e basta.

(originalmente pubblicato il 28/08/08)

Alan Sorrenti - Aria (1972)

Si sa, gli anni d'oro erano golden per quasi tutti. Persino per il napoletano che per me era quello tristemente famoso ma poi, anni fa, scoprii essere stato un avventurosissimo menestrello quando nella soffitta di qualcuno vidi il vinile crepuscolare ed impolverato con tanto di copertina hippy di Aria. Messa la puntina, venivo invaso da una selva di suoni ancestrali, spirali folk-lisergiche e voci che si inseguono al di sotto di quella (notevolissima) solista. La title-track è una suite di 20 minuti in cui Sorrenti, affiancato da un quartetto comprendente il famoso violinista Ponty, esplora reconditi angoli della psichedelia progressiva con fare mistico e sensuale.
Sul lato B una canonica eppure suggestivissima folk-song Vorrei incontrarti ristabilisce un breve contatto con la terra ferma. Ma già con La mia mente riprende il volo pindarico (dev'essere stata una ottima fonte d'ispirazione per Juri Camisasca) verso costellazioni psicotiche, concludendo con Un fiume tranquillo, elaborazione in prog(resso) con folate di trombe e moog ed un finale cosmico-horror alla Buckley di Starsailor.
Ovviamente la voce di Sorrenti la fa da padrone su tutto, ma anche gli arrangiamenti sono molto belli, cosa logica, come dicevo in introduzione, per il 1972.

(originalmente pubblicato il 27/08/08)

giovedì 29 aprile 2010

2 Foot Flame - Ultra Drowning (1997)


Il grande neozelandese Peter Jefferies (che ho scoperto tardissimo, da poco tempo, ma meglio che mai!) intorno a metà anni '90 in un trio anomalo con lui ai suoi strumenti classici (piano e batteria), la sua compagna Smith, una poetessa d'avanguardia in circolo da diversi anni con i Mecca Normal, e il chitarrista sempre neozelandese Morley, rumorista anche lui in attività da un sacco nei proibitivi Dead C. Non sono ancora riuscito a trovare il debutto di due anni prima (trovare questo è stata una faticaccia, quasi un miracolo), ma questo Ultra Drowning non era propriamente di una musicalità standard per la Matador sulla cresta dell'onda internazionale in quegli anni. Anzi, trattasi di un lavoro estremamente ostico, per non dire radicale. A parte i due/tre pezzi in cui Jefferies si siede al piano, che perlomeno hanno uno straccio di melodia, il canovaccio generale prevede la Smith ad un cantato/recitato stentoreo e schizofrenico e Morley ad un lancinante lavoro di feedback, rintronazioni dissonanti e abrasioni assortite. Mentre l'ex TKOP sembra restare un po' isolato, in disparte, con qualche percussione sparsa, interventi decisi solo nel motorik di Peacock coal.Senza alcun compromesso.

Pat Metheny - Bright size life (1976)

In verità, mi sono avvicinato a questo graziosissimo dischetto per la presenza di Jaco Pastorius, non conoscendo quasi per nulla il lavoro di Metheny. Un debutto della durata di 37 minuti di eleganza pura, in cui il trio (completato da Moses alla batteria) svisa in maniera paurosa. Occorre anche considerare l'età al tempo (Metheny 22, Pastorius 24) per capire che i ragazzetti avevano studiato con notevolissima applicazione e l'Ecm non poteva fare altro che sostenerli.
La mia ammirazione principale va per i primi due pezzi in scaletta: Bright Size Life è un frizzantissimo avvio di disco, di tendenza solare come la maggior parte della scaletta. Il frastagliatissimo fraseggio di Metheny non relega di certo Jaco ad un ruolo del comprimario, cosa che fra l'altro sarebbe stata impossibile per qualsiasi leader.
Il mio pezzo preferito è Sirabhorn, in cui un mood malinconico-ombroso si sposa alla perfezione con gli oziosi intrecci dei tre.

(originalmente pubblicato il 27/08/08)

Unsane - Singles 89-92 (1992)

Da New York con ferocia. Un sound che oggi potrebbe persino sembrare datato, per assurdo; nel 1992 il noise-rock viveva una nuova stagione di successi con la seconda generazione di band americane che spingevano ancora di più con la rabbia e i muri di suono impenetrabili.
Eppure sono ancora vivi oggi, sempre capeggiati da Chris Spencer. Un suono che ha fatto scuola, il loro; bands validissime di oggi come Dead Elephant o Pissed Jeans traggono ispirazione.
Questa raccolta uscì per radunare i 4 singoli disseminati in giro per le etichette nell'arco di 3 anni, ma tristemente era contemporaneo alla morte del batterista Charlie Ondras per droga. Senza battere ciglio, Spencer e Shore decidevano di proseguire comunque in un momento florido, dacchè otterranno un contratto major nel giro di poco.
Singles 89-92 è una colata lavica di rumore grigio, l'espressione del lato violento della mela NY. Se gli Helmet si affidavano ad una ritmica invidiabile e agli assoli atonali, gli Unsane, essendo un power-trio, puntavano tutto sulla compattezza e alla compressione. La forza d'urto di questi singoli era pari a quella di un trattore a cingoli che stride sull'asfalto.

(originalmente pubblicato il 26/08/08)

mercoledì 28 aprile 2010

Lucio Battisti - Don Giovanni (1986)

Durante le ferie ho letto Sulle corde di Lucio, libro da poco uscito scritto da Di Cioccio e Bertoncelli, restandone non poco contrariato. La figura artistica ed umana di Battisti ne esce notevolmente ridimensionata, anche se forse ciò è dovuto al fatto che Di Cioccio era un suo stretto collaboratore negli anni del primo successo e quindi non poteva vivere la cosa dall'esterno. La cosa che mi sconvolge però è lo scherno con cui viene affrontato il periodo panelliano, ridotto ad un paio di paginette superficiali (ok, è vero che allora nessuno lo vedeva / sentiva ma anche se non ti piace devi dargli comunque spazio, se no non sei equo).
Ma io mi inchino con reverenza di fronte a questo capolavoro della musica italiana. Menzionavo già la mia devozione al maestro, supremo genio melodico di comunicatività. Ritengo Don Giovanni alla pari delle opere magne con Mogol dei '70, Anima Latina, Amore e non amore, Il nostro caro angelo. La storia bene o male la sanno tutti, di questo ritorno da sussulto alla schiena: il Panella, anni dopo, minimizzerà alquanto l'esperienza col suo fare guascone. La cosa importante è che qui nascevano prima le musiche e poi i testi, mentre nei 4 dischi successivi il processo verrà rovesciato, influenzando non poco le dinamiche.
Non riesco mai a smettere di ascoltare questo disco, dopo migliaia di volte resto sempre affascinato e magnetizzato. Il trittico di partenza è qualcosa di incredibilmente raffinato: Le cose che pensano è una song lenta ed atmosferica, con cascate di piano, la voce sempre giovane ed unica al mondo, e le liriche panelliane, mamma mia, sono giochi di parole da imprimersi nel cervello a lettere cubitali. Le progressioni degli accordi sono il marchio di fabbrica battistiano al meglio della propria produzione: nulla di artisticamente complicato, il genio non ha bisogno di sofisticazioni. Sax e bordoni d'archi introducono Fatti un pianto; La ritmica parte subito veloce, Panella alterna lacrime a generi alimentari mentre l'arrangiamento si stratifica e diventa sempre più lussureggiante fino a raggiungere il climax....dai piangete, e dai che ne ho sete...Un mood ombroso permea Il doppio del gioco, emozionale didascalia di voci riverberate. Madre pennuta sposta il tiro su una wave elettronico-ipnotica. I musicisti e il produttore in questa sede erano tutti anglo-americani, decisione necessaria per il maestro per smarcarsi dalle ovvietà tricolori.
Il lato B si apre con l'esilarante lista di Equivoci amici, proseguendo con la fusion decolorata di Che vita ha fatto e chiudendosi con le spirali armoniche de Il diluvio. Nel mezzo l'apice del disco, la title-track, un fenomenale pezzo da isola deserta. Un madrigale struggente per percussioni, archi e keyboards atmosferiche, che spezza cuori come il protagonista con una melodia killer.
Nient'altro da dire, forse mi sono già troppo esaltato...

(originalmente pubblicato il 26/08/08)

Bombetta's - The best of 2005-2006

Un remember in attesa di iniziare la nuova, 4° stagione dei Bombetta's, che dovrebbe partire il mese prossimo tempo permettendo. La missione quindi continua, anche se quest'anno abbiamo praticamente interrotto a febbraio per l'impegno che Max ha avuto nella produzione del demo di un suo caro amico. Qui mi soffermo sulla prima tranche, quella che vedeva il mio ingresso, le prime registrazioni e la defezione del cantante Manuel, dopo l'esaurimento nervoso della sua song che non veniva mai bene (qui inclusa in una versione molto rough). La qualità audio non è certo delle migliori, il computer era vecchio e non supportava Cubase, ma c'era un entusiasmo e una freschezza invidiabile. La formazione comprendeva, oltre a Max Stefano e me, il chitarrista ritmico Spuggy, un ragazzo simpatico e tranquillo che poi alla stagione successiva abbiamo defenestrato senza troppi complimenti, nel momento in cui ci siamo trovati ad avere spesso Davide e Meo (qui presente come special guest in una sera). Quindi ho selezionato questo mattone impro-jazz-garage, nel termine più rozzo e grezzo possibile, da una sfornatura continua che in qualche modo sorprendeva anche noi. La presenza della chitarra forse rendeva le cose un po' funky o danzerecce e il canovaccio non era ancora puro impro-selvaggio; alcuni pezzi si studiavano e si riprovavano diverse volte, giusto per sentire come venivano.
Ho riascoltato molto questa stagione, quasi per caso, durante le ferie. Sono convinto che gli altri non si ricordano neanche niente, eppure a modo suo sono rimasto stupito di certe cose che avevo rimosso anch'io. Innanzitutto ci sono 3 che sono fra le mie preferite in assoluto dei Bombetta's, quasi sempre composte sul momento da Stefano. Una è Giant Suite, che per l'appunto è una montagna di 40 minuti registrata nel marzo del 2006, autentico manifesto di intenzioni frazionato in 5-6 motivi diversi incastrati fra di loro. Poi c'è Insanity, un pezzo brioso in cui siamo tutti molto ispirati e Soundtrackers pt.3, una splendida miniatura così chiamata perchè immaginata come colonna sonora per un momento strappalacrime di film o teatro.
Non interesserà a nessuno e non m'importa, ma se qualcuno per curiosità se lo ascolta consideri sempre che: 1) è musica di sottofondo 2) siamo musicisti amatoriali 3) la prima è sempre buona perchè fondamentalmente è l'unica e mai ripetibile!

(originalmente pubblicato il 26/08/08)

Black Widow - Sacrifice (1970)

Una delle grandi occasioni perse nell'Inghilterra degli anni d'oro, i Black Widow promettevano maledettamente bene quando fecero uscire Sacrifice ma poi si auto-distrussero fra logorii interni e sfighe varie. In anticipo netto a certi pagliacci costruiti a perfezione del music entertainment di questi anni, il sestetto di Leicester aveva attirato attenzioni su di sè per l'affiliazione con la magia nera, l'esoterismo e altre amene cosette del genere, tipo sacrifici o sesso sul palco....
Ma la cosa importante era la musica, e Sacrifice era in effetti un gran bel disco prog. Il leader compositore, il chitarrista Jim Gannon, elaborava trame ariose e ben orchestrate su cui si accomodava la voce arcana di Kip Trevor che salmodiava i propri deliri ossianici. Gli arrangiamenti sono perfetti e misurati con le tastiere di Mooney, il sax di Jones e la sezione ritmica perfettamente equilibrati fra di loro. In ancient days, Way to power e Conjuration sono mini-sinfonie evocative ma dotate di una loro grinta tutta particolare. Attack of the demon e la lunga title-track poi hanno un tiro letteralmente fenomenale, in cui la circolarità è una dolce ossessione da cui farsi trascinare. La melodia viene fuori prepotentemente nella incredibile Seduction, una delizia fra Family e vaudeville-lounge, con gli archi a donare respiro.
Forse il pezzo più rappresentativo e ricordato del disco curiosamente è l'unico scritto da Jones, Come to the sabbat, che inizia con un coro tribale che riporta alla preistoria per poi fiorire in un motivo festaiolo alla Jethro Tull.
I cori ossessivi invitano a convenire a questo sabba, che musicalmente non aveva nulla a che vedere con quello nero che stava conquistando il mondo ma marchiava a fuoco la storia del prog con questo sacrificio che costerà caro alla vedova; altri due dischi inferiori e poi l'oblio....

(originalmente pubblicato il 25/08/08)

King Crimson - Earthbound (1972)

L'attacco di 21st century schizoid man è un pugno allo stomaco, con un Fripp distortissimo e proto-metal. Così si apre questo live, uno dei tanti misteri dell'industria discografica; ma perchè mai celebrare come primo live del Re Cremisi questa raccolta registrata in modo scandaloso (quasi inesistenti le frequenze basse, viene persino il sospetto che non sia soundboard source) quando poi un quarto di secolo dopo sono stati tirati fuori dagli archivi gli stupefacenti nastri andati a confluire su Epitaph?
Domande inutili a parte, resta questo pezzo di vinile; una volta fatto l'orecchio, si coglie la grandezza di una delle tante line-ups estemporanee del tiranno Fripp, nel dettaglio Wallace + Burrell + Collins. Tutti e tre di lì a poco saranno cordialmente liberati dall'impegno ma diventeranno session man richiestissimi e apprezzati. Manco a dirlo, un quartetto di virtuosi alle prese con 5 pezzi molto più vicini al mondo delle jam jazz che a quello del prog. Persino il già citato inno subisce un trattamento atomico con variazioni sul tema, un Collins clamoroso da capogiri e un devastante Wallace, in grado di far dimenticare la versione originale.
Le tracks successive si muovono su territori più rilassati: Peoria inizia come show personale di Collins, poi Burrell improvvisa col canto come un nero, siamo dalle parti di un funk jazz del tutto atipico. La riproposizione di The Sailor's Tale vede Collins al mellotron e Fripp alla svisatura mistica. Sembra una folla oceanica quella che li accoglie prima di Earthbound, altra digressione funkeggiante con un Fripp in delirio. Come finale il mattone di Groon, un quarto d'ora di free form bella e buona che culmina in un'assolo di Wallace sovrastato dagli effetti infernali del capo.
Seppur episodio anomalo, Earthbound resta sempre un capitolo degli anni migliori dei King Crimson. E mi lascia con un pensiero gentile per Wallace e Burrell, morti prematuramente di malattia negli ultimi due anni.

(originalmente pubblicato il 25/08/08)

Spacemen 3 - Playing with fire (1989)

Non sarò certo io a cercare di smontare la levatura artistica di Kember e Pierce, vista la considerazione generale della stampa in loro favore. Sarà probabilmente per i seguiti di successo del secondo con gli Spiritualized. Ma io, come già scritto in precedenza, sono dalla parte dei Loop e quando leggo di polemiche da parte di Kember che li accusava di plagio, francamente mi metto a ridere. Gli S3 erano notoriamente dediti a pesanti assunzioni di droghe e ciò influenzava anche le loro dichiarazioni, oltre che la produzione artistica. Playing with fire, 3° disco che vedeva già inoltrate le prime incrinature fra i due che componevano separatamente, è un flusso minimale equalmente diviso fra gentilezze soul-pop e asperità lisergiche, con l'aiuto di un bassista e una drum machine quando occorreva.
Le gradevoli e statiche melodie di Lord can you hear me, Honey, Come down softly to my soul, How does it feel, Let me down gently, So Hot, sono quasi tutte imperniate su soffici tappeti di organo e linee vocali accattivanti (seppur non fossero davvero un granchè come vocalists). Le interruzioni però sono pesanti: Revolution, forse il loro brano più famoso, è un martello pneumatico di cascate fuzz a manetta, con Kember a decantare quanto fosse stanco e schifato da un sacco di gente, ad immaginare una rivoluzione fatta di chitarre e chissà come....Gli 11 minuti di Suicide, probabilmente una sorta di tributo a Rev/Vega, è un ripetersi infinito della stessa frase per wah wha chitarristico e organo petulante. La ristampa Taang del 2001 aggiungeva 2 b-sides, ovvero la dolente litania di basso di Che e la slavata ballata sixties di May the circle be unbroken.
Ora, per quanto si possa dire che erano avanti, che hanno contribuito allo sviluppo dell'ambient (ma dove???), che erano i veri eredi dei Velvet, e quant'altro, con tutto il rispetto per loro e i fans, la mia modestissima opinione sugli Spacemen 3 resta sempre la stessa:
mi fanno venire sonno!

(originalmente pubblicato il 24/08/08)

T.M. goes on vacation

Postilla per coloro (mediamente una quarantina) che quotidianamente capitano da queste parti per annunciare che TM va in ferie e dovrebbe tornare attorno al 24-25.
Un bilancino dopo 9 mesi per questo scherzo di blog ci può stare, considerando che essenzialmente per me è un mix di utile al dilettevole: gli upload fanno parte di un discorso filo-sociologico (ho comprato centinaia di cd per anni a prezzi scandalosi, non dico che questa è la mia vendetta perchè in compenso adesso ne ascolto migliaia gratis calmando la mia sete di musica, ma il rovescio della medaglia è che ho perso un po' l'eccitazione per le novità, come dire si andava meglio quando si andava peggio), una scusa per ascoltare qualche disco ogni tanto senza perdersi nel mare della propria collezione, le pseudo-recensioni sono una cosa per me, uno sfogo tematico fine a se stesso. Una volta scrivevo un diario con delle poesie, adesso scrivo di musica.
Ad oggi siamo a circa 7.000 visite provenienti da 78 paesi diversi del mondo, da ogni continente (persino da Oceania e Sud Africa!). I dischi più apprezzati: Pooh (!), Jah Wobble & Keith Levene, Cave In, Tears For Fears, Anthony & Current 93, High Tide.
PS: Se qualcuno ogni tanto dà un occhiata alla sezione in basso a destra WANTED UPLOADS e ha qualcuno di quei titoli, per favore si faccia sentire! Sono un maniaco completista! :-)
Saluti e auguri a tutti....
Webbatici
(originalmente pubblicato il 09/08/08)

Concert - The Cure live 1984

Nel 1984 i Cure sono un entità difficilmente definibile: The Top, controverso disco di pop barocco psichedelico, è poco più che un disco solista di Bob, appena liberatosi della catena di Siouxsie, in preda ad una forte dipendenza alcoolica, in perenne lite col suo scopritore-manager-boss Chris Parry. Eppure una line-up completa viene allestita alla bell'e meglio per un tour inglese, e si decide addirittura di dare alle stampe il primo live ufficiale. E Concert vede all'opera un quintetto che sorprende per la coesione, come se suonasse insieme da una vita. A partire dalla sezione ritmica, con un fluido Thornalley al basso che ben presto tornerà a fare il produttore (mestiere che fa tutt'oggi) e un potente Anderson alla batteria (ok ci voleva poco per essere meglio di Lol), che di lì a poco farà il matto in albergo picchiando Bob. Il redivivo Porl Thompson ritornava per la prima volta, mentre Lol stava dietro una tatastierina facendo il minimo. Inutile poi sottoleare la grande prova come sempre di Bob, superbo vocalist anche col minimo di effetti.
Tutte le 10 versioni sono nettamente superiori agli originali in studio. L'impatto è potente ed energico, nessuna song viene stravolta ma il gruppo suona essenziale alla grande e con trasporto emotivo. Il repertorio precedente viene ripescato in misure eguali, dando grande varietà alle atmosfere; da The Top in particolare, che mi sembra un po' ingessato, acquistano dinamicità Shake Dog Shake e una delirante Give me it, poderosa cavalcata ai limiti dell'heavy metal con il sax starnazzante di Porl in grande evidenza. The walk viene ripulita da inutili effetti di studio per apparire l'ottima song che è. Dalla trilogia dark gli anthem estratti subiscono lo stesso trattamento rinvigorente ed energizzante: Charlotte sometimes sublime inno romantico, Primary treno wave in piena corsa, The hanging garden tribale risveglio invernale, One hundred years lancinante spleen nero pece, A forest gelida contemplazione autunnale. Tutti classici che non smettono mai di suonare freschi. Ma le vere ciliegine sono i due finali, ovvero ciò che fu il primo singolo in assoluto del 1978: 10.15 saturday night col suo brio esistenziale sospeso nel vuoto, e a chiudere una incendiaria Killing an arab, sicuramente la migliore versione che abbiano mai fatto, assolutamente devastante.
Nonostante sia considerato più o meno da tutti un episodio minore nella discografia, ritengo Concert un grande live. Ancora oggi al millesimo (o milionesimo?) ascolto. D'altra parte i beniamini tali sono e tali rimangono.

(originalmente pubblicato il 09/08/08)

Loop - The world in your eyes (1988)

Decantavo già in un post di poco tempo fa la grandezza di questa misconosciuta e dimenticata band londinese, autrice di un suono che mi sentirei di sintetizzare in una parola: il suono dell'avventura. I primi singoli e qualche rarità venne assortita su questa raccolta dal bellissimo titolo, e oltretutto perfettamente complementare agli album inediti, nonostante 3 brani siano già inclusi in Heaven's end. 16 dream metteva subito in mostra feedback, grattuge, ritmi minimali ed una grinta vocale che Hampson abbandonerà nel proseguimento. Burning world è la decina di minuti che si dispiega con ipnosi elettrica. I'll take you there è un ombrosa escursione senza batteria, lo spazio fluido propulso dal fuzz e dai riverberi. Il pantano psych-kraut di Brittle head girl genera già delicate allucinazioni che strabordano sui 13 minuti di Burning prisma, un deltaplano flangerizzato che sorvola la campagna inglese. Una versione demo di Spinning li riporta alla sala prove o garage o quello che fosse, chiudendo in modo simpatico questo disco di avventurieri sonici.

(originalmente pubblicato il 09/08/08)

Neil Young - Weld (1991)

Parlando di musica americana in generale, come si può fare a meno di citare il grande vecchio canadese? Un pezzo di storia che ha influenzato migliaia di musicisti, per non parlare dei contenuti morali delle sue storie, uno spaccato sociale che parte dalle illusioni dagli anni flower power e arriva ai giorni nostri, in cui il suo ultimo disco contesta aspramente Bush (Living in the war). Di recente ho ascoltato tutta la sua discografia, e sono giunto alla conclusione che Weld sia il riassunto vincente di una intera carriera. Vidi il video prima di ascoltare il disco e rimasi fulminato; con il semplice e ruspante apporto dei fedelissimi Crazy Horse, Young si rivelava un animale da palco, con le sue movenze, la sua determinazione e quel suo schitarrare unico che lo ha reso un icona per più generazioni. Il grunge e lo slow-core, ad esempio, li inventò lui fra gli anni '60 e '70. Weld fu una riappropriazione matura e sapiente di tutto ciò che aveva creato, un doppio atomico dal vivo che circonda 25 anni, un concentrato di energia e anima che straborda dalle casse dello stereo. I grandi classici ovviamente sono presenti, ma stupiscono anche le rendition dei pezzi di quegli anni, che dal vivo avevano una resa nettamente superiore.
Inutile citarli singolarmente, Weld è fondamentalmente il colpo di coda di un maestro che proveniva da un decennio un po' sottotono (gli eighties), ma rinvigorito dall'esplosione del grunge risaliva alla grande sul palco e invitava le giovani leve ad osservare. Ed imparare.

(originalmente pubblicato il 08/08/08)

Franco Battiato - M.lle le Gladiator (1975)

Non so perchè ho scelto questo mattone. Qualche mese fa tentai invano di ascoltare tutta la discografia del maestro in ordine cronologico, arrendendomi attorno al 1988-89. Comunque non volevo privilegiare uno dei mitici primi 4 dischi perchè mi sembrava troppo ovvio. Volevo soffermarmi sulla fase successiva, e al primo ascolto Gladiator sembrava molto ambizioso.
Checchè se ne dica, Battiato è un grande. Non sono un suo fan ma ammiro e tolgo il cappello di fronte allo spessore intellettuale, alla personalità artistica in sè per sè. Persino nella sua fase più pop era deviante ed originale. Persino di questi tempi, oltrepassati i 60 anni, mi è capitato di vederlo invitato a quei mostruosi ed orribili teatrini televisivi tipo Domenica In, a soprassedere e cantare in playback. Eppure, di fronte alle domande imbarazzanti di Pippo Baudo, le sue risposte sono sempre interessanti, mai scontate. Filosofiche, direi.
Il mio amico Michele è grande fan del siculo, ma logicamente non apprezza lavori come Gladiator che è probabilmente uno dei più ostici che abbia mai fatto. Senz'altro non aiuta all'ascolto il collage Goutez and Comparez, 13 minuti di campionamenti di musica concreta fra classica, radio, televisione e dialoghi recuperati da ogni fonte possibile. Soltanto negli ultimi minuti il catanese perviene ad un muro di organo chiesastico con vocalizzi da muezzin che perlomeno attira l'attenzione. Ondate imponenti, sempre di organo a canne, tempestano l'inizio di Canto Fermo, gran bell'esempio di ambient clericale schizofrenica. Anche qui il cambio in corsa è spiazzante; l'esecuzione si attenua, placida e riflessiva. I 10 minuti di Oriente Effects mi ricordano il lavoro con le campane di Charlemagne Palestine, il che non è forse un grandissimo complimento vista la monocromaticità della composizione.
Come dire: se la ascoltassi in chiesa sarei estasiato dal fascino del suono, ma..... Gladiator è un lavoro dimenticato da tutti e forse è per questo che l'ho voluto bloggare, ma artisticamente soltanto Canto Fermo è appena interessante. Parafrasando un simpatico presentatore televisivo: non sono un ascoltatore di avanguardia, sono un rockofilo che ogni tanto prova a masticarla. Invano, però.

(originalmente pubblicato il 07/08/08)

Sophia - Collections One (2004)

Un intermezzo di rarità ed inediti, per non dire outtakes, uscito in edizione limitata poco dopo lo splendido People are like season. Il talento di Robin secondo me non si discute, così come la sua portata umana, evidenziata sia nelle interviste che di persona, come potei constatare quando lo coinvolsi in una breve chiacchierata qualche anno fa all'Ex Machina dopo un live dei Sophia.
Francamente non so la provenienza di questi pezzi, preso com'è comunque resta un ottimo disco nel percorso multiforme del californiano dopo i divini GM. Sprazzi di elettronica si amalgamano alle partiture di chitarre, violini e piano nell'intro Airports, per certi versi simile alle cose che fa Helios. Easy if you want me è un eterea song di culto, melodia riverberata di trombe e piano segnata da una progressione fra le migliori del suo repertorio. Dolenze rimembranti i primi due dischi segnano le toccanti Wind in your sail e Razorblades. Un duetto vocale bucolico (penso sia Adele Bethel dei Sons & Daughters, ma non sono sicuro) contraddistingue You only tell me you love me when you're drunk, curiosamente vicina a certe cose degli Arab Strap. Sul versante più pop, quello che comunque non sfigura mai nelle mani di un artista così intenso, Holidays are nice e If you want a home, con breve intervallo di riff metallico alla GM.
Il disco si chiude con due pezzi d'ambiente che lasciano intravedere un lato nascosto di Robin, forse ritenuto fuori luogo sui dischi ufficiali. Zinc si lancia su derive post-rock minimali, Genius tiene fede al nome che porta, in virtù di accordi panoramici di piano rhodes e chorus d'effetto. Quasi un peccato che sfumi dopo neanche 3 minuti, visto che alle prese con questa specie di trip-folk ha confezionato una piccola perla.
Che dire, io amo la musica di quest'uomo da 15 anni, non sono obiettivo....

(originalmente pubblicato il 07/08/08)

Motorpsycho - Let them eat cake (1999)

Il disco della rottura del trio norvegese, e non solo per loro dal punto di vista artistico. Mentre lo ascoltavo dal mio amico Pig, scossavo la testa e pensavo, essendo loro fan dai tempi di Demon Box: "no, questa non è la loro musica, loro devono essere heavy o dannatamente sballati". E così, ingrato, smisi di comprare i loro cd. Dopo quasi 10 anni l'ho risentito e sono rimasto colpito, allora non accettai la svolta per presa di posizione, la stessa cosa mi accadde ad esempio coi Karate. Quindi mi sembra doverosa una rivalutazione. Potrei definirlo il disco canterburyano dei Motorpsycho, tanto è ricco di arrangiamenti fiatistici, tanto è deliziosamente melodico, aperto a strutture pop lineari e ariose.
Quando ascolto la seconda traccia, Upstairs downstairs, mi viene da pensare al lungomare di Diano Marina. Fiati bucolici, chitarre acustiche, violini ed una leggerezza indicibile. Su questo stile vincente ci sono anche 30-30 e la magnifica Whip that ghost, in cui il classico motore Saether-Gebhardt pedala veloce ma senza pestare, mentre Snah indovina una delle parti chitarristica più belle, forse la più bella che abbia mai confezionato. Siamo quasi dalle parti di un jazz-rock rude, che dato in mano a 3 nordici abituati a heavy metal e psichedelia diventa così un gran bell'esperimento. Il resto del disco si agita fra filastrocche squisitamente pop, qualche ballad tipica e soul screziato di vaudeville.
Un anomalia vincente nella loro discografia.

(originalmente pubblicato il 06/08/08)

Drive Like Jehu - Yank crime (1994)

Nati praticamente come side-project di John Reis dei Rocket from the crypt, i DLJ pubblicarono soltanto due dischi ma furono una delle sensazioni più clamorose dell'hardcore di metà anni '90. Dotati di un potente suono chitarroso (Freiberg e Reis), con Yank Crime chiusero alla grande la loro breve storia di band post-emo, a tratti persino più elaborato dei capiscuola Fugazi.
Difatti un pezzo come Do you compute è un esempio brillantissimo; girandole ipnotiche di chitarre, la voce di Freiberg che risuona cruda e squillante, quasi un incrocio fra McKaye e Picciotto, ripartenze devastanti dopo stasi riflessive. Pezzi sparati alla velocità della luce marchiano a fuoco il lato più violento, Golden brown e New Math sono manuali perfetti di emo-core allucinato. Le chitarre sparano muri di suono rocciosissimi e in certi punti sibilano quasi come dei synth. Ma sono le sperimentazioni delle tracks più lunghe a farla da padrone, quasi ad anticipare certe sonorità deviate degli ultimi Fugazi a venire. Luau (9 minuti), Super Unison (7), Sinews (9), sono escursioni rallentate, distorsioni mentali drammatiche e grintose, in cui la fisicità non cede mai il passo completamente. Ciliegina sulla torta è la differente New intro, un breve escursus strumentale, aperta e purissima citazione slintiana.
Questo era il sound che avrebbe dovuto fare la Rollins Band invece di ammosciarsi col funk.

(originalmente pubblicato il 05/08/08)

Scorn - Colossus (1993)

La colonna sonora dell'apocalisse potrebbe essere partita proprio dagli Scorn, un progetto che nacque dalla sezione ritmica dei Napalm Death e che fu protagonista di una metamorfosi a dir poco sorprendente, considerando l'elevato grado di integralismo e conservazione che è tipico del death-grind. Eppure Harris e Bullen uscirono indifferenti dalla setta satanica, fecero quadrato attorno al dub glaciale dei Pil, all'industrial, alla dark-ambient, un po' di elettronica e così via. Colossus fu il secondo parto di queste menti fosche, e inizia con un dub ossessivo come Endless, costruito attorno a delays insistiti, flanger rumoristici, pattern di batteria monocromatici e linee di basso iper-profonde. La pesantezza sarà il comune denominatore con altri pezzi su questa linea, Crimson seed, Blackout, Beyond, Night ash black sono circoli minimali che scavano nel subconscio. Le chitarre sono quasi sempre relegate in seconda linea, le voci deformate o campionate, ovviamente è la sezione ritmica a dominare. Nothing hunger e White irises blind mostrano un lato appena più accessibile, ripristinando una linea diretta con la wave più dubbata, ovviamente. Incubi spettrali di dark ambient come The sky is loaded, Little Angel, o la tempesta di Sunstroke sono intermezzi per impaurire più che per spezzare i ritmi.
L'idea degli Scorn è quella di mettere a punto un suono, più che raccolte omogenee. E' chiaro che l'ascolto non è dei più facili, ma gli amanti del dub più oscuro l'avranno apprezzato. Soprattutto il pezzo in cui gli equilibri si reggono in maniera miracolosa, Scorpionic, un avvincente strumentale condito da buone dosi di psichedelia e con un grande basso, degno di Jah Wobble.

(originalmente pubblicato il 04/08/08)

Sneaker Pimps - Becoming X (1996)

Non sono mai stato un appassionato di trip-hop o downtempo, eppure questo disco passatomi quasi per caso da mio fratello mi colpì subito nel vivo, affascinandomi alquanto. Ancora oggi, a 12 anni di distanza, Becoming X suona fresco e non certo una copia sbiadita dei Portishead.
Forte di una vena melodica che incrociava pop, rock, dark-hop ed elettronica abbinata a buone songs, il debutto degli SP resterà l'unico con la vocalist Kelly in formazione, che verrà presto defenestrata da Howe e Corner, le menti musicali dietro al progetto.
Peccato, perchè la suadente voce della ragazza, che a volte sembra una versione decisa di Alison Shaw dei Cranes, impreziosiva non poco le escursioni sonore dei due. I singoli Six underground e Spin Spin Sugar, che donarono loro un certo successo in Inghilterra, evidenziavano il lato più pop delle loro costruzioni di ritmi sintetici, samples suggestivi (Howe) e chitarre (Corner). Un pezzo grintoso in apertura, Low place like home, sviava dalle direttive migliori inseguite dai tre nei lati più interessanti, in corrispondenza delle songs più oscure. Splendida Tesko Suicide, con una litania orientaleggiante a punteggiare un ritmo insistente, condita da una linea vocale superba. Ci si inabissa sulla title-track, immersione notturna dal fascino acuto e dai samples sinfonici. Un sornione contrabbasso sostiene la melodia aerea di Post-modern sleaze. Waterbaby è un altro incubo liquido di grande gusto, Roll on un singolo che mancò le classifiche. Ancora una volta samples e grandi suggestioni su Walking Zero. Ho aggiunto di mia iniziativa una stupenda b-side, How do, ballad acustica con violini che pian piano va alla deriva con spine acuminate di synth.
Un vero peccato che sia finita qui con Kelly, dato che i dischi successivi non riuscirono a ripetere la magia di questo grande disco.

(originalmente pubblicato il 03/08/08)

Liars - Drum's not dead (2006)

Non credo di dirla grossa se affermo che questo disco è l'aggiornamento di Flowers of romance dei Pil dopo un quarto di secolo. Per quanto era schizoide il 3° di Lydon e co., tanto lo è il terzo di Andrew e co., con in comune la leadership assoluta della batteria e percussioni dall'inizio alla fine.
Un concept astratto, metafisico, a base di tamburi e attacchi cardiaci. Let's not wrestle Mr. Heart attack è una sarabanda di synth circolari e tom tribali che fa partire il disco alla grande. Certo, l'idea di un concept su una storia nel 2006 è molto fuori uso, eppure anche senza leggere le liriche mi incuriosisce molto la sequenza dei titoli, e non si capisce se Drum viene colpito dall'attacco o no (visto il titolo del disco, si confida in un lieto fine). Titoli come A visit from drum e The wrong coat for you Mr. Heart attack stabiliscono un parallelo con le cose più astratte dei Radiohead, forse per certi falsetti di Andrew. In quà e in là si scorgono anche vaghe reminescenze wave che non fanno certo male, d'altra parte all'inizio erano partiti come revival funk-punk e non possono aver cancellato proprio tutto. Da qui stabilisco anche il paragone con Flowers of romance; forse plausibile sui momenti più duri e casinisti, dacchè qui la melodia non resta sempre sotterrata.
Non mi stupisco che molte testate e siti l'abbiano esaltato, per una volta forse mi sono trovato d'accordo. Un grande disco, specchio delle ossessioni metropolitane odierne.

(originalmente pubblicato il 02/08/08)

Mogwai - Ten Rapid (1997)

Il primo disco che comprai dei Mogwai era ovviamente Young team, di lì a procurarmi Ten Rapid il passo fu brevissimo. Quando vennero fuori per me erano un cataclisma; finalmente qualcuno che potesse proporre una vera risposta agli Slint già missing da un pezzo, e per giunta scozzesi... Insieme agli Arab Strap sono stati la vera sensazione britannica di 10 anni fa, e nulla toglie al loro peso il fatto che tutt'ora siano in pista, senza aver sconvolto più di tanto il loro canovaccio sonico fatto di musica prevalentemente strumentale, fisica e cerebrale.
Ten rapid era sostanzialmente una raccolta dei primi singoli con cui il quartetto si affacciava timidamente sul panorama. Angel vs. alien e Tuner vedevano Stuart ad un flebile canto, pratica che abbandoneranno totalmente fino a Rock Action. Summer è un po' il loro grido di battaglia, con quelle risonanze lontane, quel vibrafono che fa un po' Tortoise (ricordati molto anche in A place for parks), gli arpeggi di basso e poi i muri di distorsione a manetta, il rumore bianco e così via. Ithica proponeva un'aria melanconica sfigurata da assalti metallici.
L'accoppiata vincente stava nelle due Helicon: la 2 era una pigrissima decantazione da siesta estiva dopopranzo, con una solista delicatissima. La 1 era una levitazione galattica da brividi.
Il meglio doveva ancora venire (secondo me con C.o.d.y.), ma era già un grande inizio.

(originalmente pubblicato il 01/08/08)

Explosions in the sky - All of a sudden I miss everyone (2007)

Io sono uno che si è innamorato di The earth is not.... alla follia! Mi hanno fatto aspettare 3 anni e mezzo per dare un seguito concreto, il timore di una delusione era forte, ma i ragazzi mi hanno entusiasmato ancora. L'attacco è potentissimo, la graniticità di The birth and death of the day scuote fin da subito nervi e mente. Welcome ghosts segue in soluzione di continutà con il classico andamento piano/forte; ormai il loro stile è così marcato e riconoscibile che non si può fare altro che amarli o odiarli. Io ovviamente adoro le loro frequenze multicolori, i loro sprazzi di luce accecante, le ondate emozionali. L'inizio di It's natural to be afraid, con quegli accordi sospesi nel vuoto, preclude ad una suite di 14 minuti da brividi in cui acuminatissimi incroci di chitarre alte esplodono letteralmente nel cielo. What do you go to home to e So long lonesome sono gli immancabili momenti ambient-purissimi-pastoral per lasciarsi andare, per sognare con essi, in attesa che prima o poi, come dice Mark Smith, qualche regista si accorga della divinità e si decida ad impreziosire un film con queste delizie.
Per me, unici.

(originalmente pubblicato il 31/07/08)

Grand Funk Railroad - Live the 1971 Tour

Una musica invecchiata male, direbbe qualcuno per screditare l'hard-fun dei GF. Eppure nella mia fase più vintage-rock ho adorato questo disco, molto più degli album in studio, dove esigenze produttive sacrificavano la sana, selvaggia attitudine di uno dei power-trio più animaleschi della storia. Live the 1971 tour è un disco travolgente e divertente, registrato in un periodo in cui riempivano (letteralmente) gli stadi americani. La loro miscela di hard e heavy soul non era soltanto frutto dell'abilità di Mark Farner, factotum carismatico, ma anche e soprattutto del basso grasso e gommoso di Shacher e dell'elastica batteria di Brewer, che in più contro-vocalizzava il front-man in maniera incredibile (secondo me era anche superiore). Are you ready era la tipica opener (che nostalgia, la suonavamo all'inizio anche noi con lo Studio Ten...:-)), il treno fischiava e aveva inizio la corsa. Erano in grande forma e il loro live era ricco di suggestioni, checchè se ne dica in giro. Pezzi come Footstompin' music, Hooked on love, Get it together, con Farner all'organo, erano più funzionali come intermezzi soul-danzerecci per spezzare la pressione di panzer abnormi come Paranoid, T.N.U.C., Gimme shelter, eruzioni vulcaniche che facevano vibrare l'emisfero boreale intero. Il lato più melodico espresso in I'm your captain / Closer to home e Into the sun rendeva inoltre piena giustizia al songwriting di Farner, che quando aveva voglia poteva anche creare qualche bello scorcio immortale.
Nonostante una certa autoindulgenza, Live è pur sempre un disco festaiolo e divertente. In un certo senso i GF furono l'equivalente americano dei Black Sabbath: distrutti dalla stampa ma adorati dalla gente semplice e comune.

(originalmente pubblicato il 31/07/08)

Dakota Suite - Alone with everybody (1998)

Un cantautore inglese che si elegge manifesto della lentezza, Chris Hooson. Alone with everybody fu la raccolta delle sue prime pubblicazioni. 15 pezzi, buone capacità d'arrangiamento e discrete canzoni. Il folk storico di Drake è una chiara eredità, con le acustiche in bella evidenza. Il problema è che Hooson sembra nel complesso non riuscire ad azzeccare qualche colpo da urlo, sembra non riuscire a focalizzare l'obiettivo, a non canalizzare le proprie intenzioni con dovuta coesione.
In questo campo gente come Pinetop Seven o Barzin hanno fatto cose decisamente migliori. Lo vedrei meglio come autore di colonne sonore, per via di certe sonatine pianistiche solitarie che forse si fanno gradire di più ai pezzi strutturati, anche perchè la voce sinceramente non è un granchè. Da non buttare via, ma neanche da esaltare.

(originalmente pubblicato il 31/07/08)

Caustic Resin - The medicine is all gone (1998)

Dal desertico Idaho, un power trio di un'onestà e purezza artistica incredibile. I Caustic Resin, guidati dal cantante/chitarrista Netson, hanno pubblicato soltanto 6 dischi in 15 anni e non so dire se siano ancora attivi, dato che ne sono passati 5 dall'ultima pubblicazione. Comunque il loro percorso è stato segnato da un continuo interscambio / collaborazione con i concittadini Built To Spill, ben più conosciuti anche oltre i confini a stelle e striscie. Come la band di Martsch, anche i CR hanno improntato una carriera intera sull'illuminazione ricevuta dal Santo Padre Neil Young, ma senza ricopiare pedissequamente s'intende....The medicine is all gone è una raccolta di ballads iper-amplificate ed elettrificate, dal passo pesante e marziale. Un senso di fatalità regna sovrano ovunque, Netson domina in lungo ed in largo con la sua chitarra torrenziale dimostrandosi un allievo modello dell'illustrissimo canadese, creando uno stile atmosferico dall'energia vulcanica. Quando i ritmi si fanno più incessanti poi, la sua voce acuta e particolare fa quasi venire il senso di uno stranissimo ibrido, fra i Crazy Horse e i Jane's Addiction. Soprattutto in Dripping, Half Step, Salamander, splendido trittico centrale, sembra materializzarsi il vocalismo acuto e penetrante del migliore Farrell. La sequenza Mysteries of.../Enough è il miglior momento nello stile younghiano, con quegli assoli lenti e lancinanti che ti distruggono la mente.
Dall'Idaho, con causticità ma anche con sentimento.

(originalmente pubblicato il 29/07/08)

Spandau Ballet - Parade (1984)

Per molti anni, circa una ventina, ho completamente rinnegato la musica che aveva fatto da sottofondo massiccio alla mia infanzia. Era la metà degli anni '80 e gli Spandau Ballet erano un complesso di oceanico successo, soprattutto in Italia. Mio fratello li suonava continuamente e il mio orecchio curioso ed acerbo mandava inevitabilmente a memoria tutti i pezzi dei loro primi 4 dischi. Poi vennero i Cure, il grunge, tante altre cose e ho mughinamente aborrito (si dice cosi??) la musica di quegli anni, relegandola ad orrenda preistoria plastificata.
Soltanto l'anno scorso, quasi per puro caso, mi sono reimbattuto nei dischi degli Spandau e li ho rivalutati in maniera significativa. Non per spirito di revival puro a se stesso (o per mancanza dell'infanzia), ma per soggettivo giudizio globale. Gli SB erano dediti ad un pop-rock tipicamente anni '80, ma lo deponevano con indubbia classe e grosse capacità tecniche.
Il frontman Tony Hadley era l'elemento di spicco del quintetto, il più immortalato e adorato. Era (e credo lo sia ancora) un immenso cantante, dalla voce potente e limpida, con molta estensione ed espressività da vendere. Credo sia stato uno dei più grandi vocalist bianchi della storia del pop-rock. Ma le folle di fan adoranti e la stupida stampa non si curavano minimamente del fatto che l'unico artefice del SB sound era il chitarrista Gary Kemp, unico compositore del repertorio. Indubbiamente le produzioni risentivano di certi viziacci usuali degli anni: quelle batterie plastificate e acide (un peccato per un buon batterista come Keeble), e certi suoni di synth troppo edulcorati (un peccato per il tastierista, fra l'altro valente pianista che non figurerà mai nella line-up e resterà sempre nell'ombra, forse non era abbastanza bello!). Ma in questo Parade, 4° disco e segnale di chiara conquista di tutta l'Europa, ci sono 8 pezzi che fondamentalmente avevano un cuore pulsante. Ben lontani dallo sfornare pop insensato, gli inglesi mettevano da parte certe sonorità elettro-funk dei primi dischi e si dedicavano semplicemente a canzoni, ben strutturate, appassionate ed emozionali. La maestria esecutiva oltretutto era dalla loro parte; la sezione ritmica era fondamentale e non si faceva mai sotterrare dai 2 solisti principali, essendo Kemp molto funzionale ai pezzi. Only when you leave è già di per se un piccolo capolavoro: riff fluido di chitarra, bridge epico, la splendida voce sugli scudi, curatissima anche nei cori. I'll fly for you diventerà uno dei loro più grandi successi, un pezzo da spiaggia tropicale, con protagonista Norman al sax. Nature of the beast incupisce un attimo l'atmosfera prima di diventare potentissima. Always in the back of my mind, seppur considerato minore, si fa notare per il suo piglio deciso e lo splendido ritornello. Verso la fine, il pezzo più bello, With the pride, manifesto del loro emo-pop dalle movenze marziali e romantiche al tempo stesso: Hadley dà tutto se stesso, e il passaggio al minuto 3:20 è letteralmente da pelle d'oca, con un altro grande solo di Norman ed un finale che sfuma mentre si vorrebbe non finisse mai....
I due dischi successivi sfigureranno un po' al confronto, e col decennio si chiuderanno degnamente le loro trasmissioni. Nessuna reunion patetica.

(originalmente pubblicato il 21/07/08)