Di fronte ad un disco dedicato al fu Jimmy Fernandez, non si può fare altro che togliere il cappello, qualunque siano i risultati artistici.
E comunque lo si poteva togliere anche dopo l'ascolto. La God Machine-connection era una componente molto importante nel quintetto inglese: Robin P.Sheppard produceva le registrazioni ricambiando il favore al leader Ian Bishop, che 3 anni prima era stato protagonista dell'assolo di clarinetto in quella fantasmagorica meditazione infernale che era Seven sul primo fantasmagorico disco dei God Machine.
Senza raggiungere livelli divini come gli amici, i RM furono ugualmente sfortunati; messi sotto contratto dalla Mute, fecero qualche EP, due album e poi scomparvero. Avrebbero meritato senz'altro migliori sorti, giacchè la formula sonora ereditava senz'altro qualcosa dal noise rock americano anni '80, ma veniva diluita con soluzioni ad alta densità emozionale. Quintetto misto (3 boys e 2 girls) con 3 chitarre ma con svariati ruoli intercambiabili (bene o male tutti suonavano anche uno strumento anticonvenzionale), traevano favore da una spiccata coesione strumentale; splendida L'egoiste, fiammeggiante alternanza di desolazione ed energia elettrica. Asbestos frenzy fu rilasciata anche su singolo, viste le sue capacità orecchiabili e il refrain vagamente grungeggiante. La voce femminile (Ramsey, acuta ed eterea) e quella maschile (Bishop, aspra e decisa) si impastavano in duetti perfettamente assortiti (la sfuriata double face di Hopey).
Curiosi ed irresistibili bozzetti pseudo punk come Unrequited love song e Got Muffin' non sono altro che brevi interruzioni semi-serie nel flusso di coscienza di questo disco molto profondo. La trance estatica di Big fat arms sembra quasi un ologramma, salvo poi esplodere in una cortina di chitarre rumorose. Little white horse è una fanfara martellante di fiati e dissonanze. Lo spleen tribale di Touched fa risprofondare nell'ombrosità, in cui ci si immerge sempre più con la spettrale Smack scratch, dolorosissima ballad impreziosita ancora da duetti vocali ad hoc.
Derive sonicyouthiane stampate su Always with wings, mentre un flauto le stempera delicatamente sulla stupenda Stripped and bleeding.
Ma la palma del disco va a Deepness, che stabilisce un piccolo parallelo con gli appena defunti God Machine, quelli più acustici e pastorali: letteralmente commovente le melodie punteggiate dal violino, una sorta di The hunter leggermente darkeggiante.
(originalmente pubblicato il 10/07/08)
E comunque lo si poteva togliere anche dopo l'ascolto. La God Machine-connection era una componente molto importante nel quintetto inglese: Robin P.Sheppard produceva le registrazioni ricambiando il favore al leader Ian Bishop, che 3 anni prima era stato protagonista dell'assolo di clarinetto in quella fantasmagorica meditazione infernale che era Seven sul primo fantasmagorico disco dei God Machine.
Senza raggiungere livelli divini come gli amici, i RM furono ugualmente sfortunati; messi sotto contratto dalla Mute, fecero qualche EP, due album e poi scomparvero. Avrebbero meritato senz'altro migliori sorti, giacchè la formula sonora ereditava senz'altro qualcosa dal noise rock americano anni '80, ma veniva diluita con soluzioni ad alta densità emozionale. Quintetto misto (3 boys e 2 girls) con 3 chitarre ma con svariati ruoli intercambiabili (bene o male tutti suonavano anche uno strumento anticonvenzionale), traevano favore da una spiccata coesione strumentale; splendida L'egoiste, fiammeggiante alternanza di desolazione ed energia elettrica. Asbestos frenzy fu rilasciata anche su singolo, viste le sue capacità orecchiabili e il refrain vagamente grungeggiante. La voce femminile (Ramsey, acuta ed eterea) e quella maschile (Bishop, aspra e decisa) si impastavano in duetti perfettamente assortiti (la sfuriata double face di Hopey).
Curiosi ed irresistibili bozzetti pseudo punk come Unrequited love song e Got Muffin' non sono altro che brevi interruzioni semi-serie nel flusso di coscienza di questo disco molto profondo. La trance estatica di Big fat arms sembra quasi un ologramma, salvo poi esplodere in una cortina di chitarre rumorose. Little white horse è una fanfara martellante di fiati e dissonanze. Lo spleen tribale di Touched fa risprofondare nell'ombrosità, in cui ci si immerge sempre più con la spettrale Smack scratch, dolorosissima ballad impreziosita ancora da duetti vocali ad hoc.
Derive sonicyouthiane stampate su Always with wings, mentre un flauto le stempera delicatamente sulla stupenda Stripped and bleeding.
Ma la palma del disco va a Deepness, che stabilisce un piccolo parallelo con gli appena defunti God Machine, quelli più acustici e pastorali: letteralmente commovente le melodie punteggiate dal violino, una sorta di The hunter leggermente darkeggiante.
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