Si sa, hardcore e hare-krishna sono sempre stati parecchio correlati e nel caso di questi newyorkesi si tratta più o meno della stessa cosa. Ma essendo prettamente interessato alla musica, lascio perdere la fede e mi concentro su questo Holyname che in effetti fu un ottimo esempio di hardcore contaminato, forse non eccessivamente evoluto ma con effetti e varianti di levatura.
Non so se l'originale era composto di una traccia unica come il solco ivi incluso, ma non ha importanza. Uno scampanellio e un flautino fanno da intro all'esplosione cingolata della title-track, dove gli stop and go sono al servizio della furia espressiva del quartetto. La voce è un impazzito scartavetrare come da tradizione, e sono i rallentamenti di Hopeless ad intrigare, con relativi paesaggi desolatamente bronxiani nel sottofondo. Dopo la pausa di Idefy che è una preghiera per sitar, bonghi e voce indiana, il treno hc riprende con Thirst, disorientante quanto basta per attirare l'attenzione. L'aggressione a mano armata di Grow sfuma in fade out, sono passati solo 17 minuti e l'ideologia prende il sopravvento: arriva un suono lo-fi di percussioni e litania di prece in sottofondo. Il disco è finito, la musica era tutta in quel quarto d'ora abbondante. Un lunghissimo e monotono monologo sulla schiavitù della società, un altro scampanellio con voce di donna e cori da processione, ed è un peccato per questi riempitivi che si possono tranquillamente saltare, perchè resta quel pugno di tracce che manifestava una band comunque valida.
Non so se l'originale era composto di una traccia unica come il solco ivi incluso, ma non ha importanza. Uno scampanellio e un flautino fanno da intro all'esplosione cingolata della title-track, dove gli stop and go sono al servizio della furia espressiva del quartetto. La voce è un impazzito scartavetrare come da tradizione, e sono i rallentamenti di Hopeless ad intrigare, con relativi paesaggi desolatamente bronxiani nel sottofondo. Dopo la pausa di Idefy che è una preghiera per sitar, bonghi e voce indiana, il treno hc riprende con Thirst, disorientante quanto basta per attirare l'attenzione. L'aggressione a mano armata di Grow sfuma in fade out, sono passati solo 17 minuti e l'ideologia prende il sopravvento: arriva un suono lo-fi di percussioni e litania di prece in sottofondo. Il disco è finito, la musica era tutta in quel quarto d'ora abbondante. Un lunghissimo e monotono monologo sulla schiavitù della società, un altro scampanellio con voce di donna e cori da processione, ed è un peccato per questi riempitivi che si possono tranquillamente saltare, perchè resta quel pugno di tracce che manifestava una band comunque valida.
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