mercoledì 30 giugno 2010

Capricorns - Ruder forms survive (2006)

Ammetto di aver ascoltato questo disco principalmente per il cameo di quel folle di Robinson degli Oxbow, nella terza traccia, The first broken promise. Ed è facile immaginare quale impronta delirante (quasi superfluo dire anche plusvalenza) possa aver dato a quello che è un sound composto, ben strutturato e genericamente ordinato, dei londinesi.
Che non sono poi tanto novellini, in quanto reduci da esperienze di straight-stoner degli anni '90 come Orange Goblin e Iron Monkey, per intendersi di seconda categoria. In queste nuove vesti i Capricorns cercano di dare vita ad una versione asciutta degli Isis, e allora si va a cozzare, forse inconsapevolmente, contro i Pelican con cui condividono il wall of sound ossessivo e la mancanza di voci. Oltre al pezzo con Robinson, ci sono due piccole varianti in tutto il disco: la parte centrale di 1969 A predator among us che ricorda le cose più riflessive dei June Of '44, ma è solo un minutino. L'inizio di The harring of the heathen è un'altro passo dolente su coordinate post-rock louisvilliane.
Mah, dappertutto colate di cemento armato, e già io non sono proprio entusiasta dei Pelican, per cui passo oltre senza pormi tanti problemi, a parte il cameo del matto che merita più di un ascolto.

Om + Lichens - Live at Bronson 29/01/2010








Nel freddissimo venerdì sera in quel di Ravenna, abbiamo avuto il piacere di un vero e proprio bagno mistico grazie all'ipnotico live degli Om spalleggiati da Rob "aka Lichens" Lowe, prima esibitosi in solitudine e poi a supporto del duo Cisneros/Amos.
Un Bronson non esattamente pieno fa pensare che probabilmente l'Om-sound non è genericamente molto compreso presso il pubblico alternativo, nonostante le generiche recensioni positive dell'ultimo disco (Blow Up in copertina, Rumore addirittura disco del mese).
Apre la serata Lowe, di cui ho uno splendido ricordo fra il 2002 e il 2004 in qualità di funambolico bassista dei fenomenali e dimenticatissimi 90 Day Men. Riciclatosi come ambient-freak, ha proposto una delirante mezz'ora di auto-campionamenti a stratificazione, partendo da un paio di semplicissimi giro di chitarra, aggiungendo un goccio di steel, un fischiettio e poi dando il via ad esperimenti vocali arditi (possiede un tono molto acuto e con una notevole estensione) che si sovrapponevano in un vero e proprio maelstrom. Molto, molto coraggioso e coinvolgente nonostante l'oggettiva difficoltà della proposta.








Qualche minuto e fanno la propria comparsa gli Om. Cisneros è pressochè irriconoscibile rispetto a come lo si è sempre visto nelle foto promozionali: capello corto, visibilmente ingrassato e senza occhiali, ricorda vagamente il giovane Jaz Coleman. Amos ha un aspetto assolutamente ordinario, e a vederlo non gli si darebbe nulla. Lowe si siede alla destra del palco e agirà da jolly interattivo, contribuendo con sparuti interventi di chitarra, voce acuta, tastiera e tamburello.
L'apertura è riservata a Thebes. Cisneros ha il suo classico Rickenbacker e dietro di sè una montagna di ampli in cui spicca un santino di Geezer Butler; ha inizio la purificazione metal-mantra. Quando entra Amos si ha la una piacevole conferma già sentita in Conference Live: un'autentica macchina da guerra, potentissimo sui suoni ed elastico come un jazzista, che calibra la sua metronomia al servizio del basso con un ondata di paradiddles ed acrobazie ritmiche (nonostante non perda mai occasione per attaccarsi ad una inseparabile bottiglia di vino rosso).









God is good verrà eseguito in tutta la sua bellezza ed interezza, con il post-dub di Cremation in grande risalto. Poi verrà privilegiato il repertorio più duro, quello di Variations on a theme, la faccia cattiva di Conference e un altro paio di pezzi che la memoria non mi aiuta ad identificare, forse anche perchè ero letteralmente mantrizzato, calamitato specialmente dal poderoso drumming di Amos. Non è stato riservato spazio invece a nessun pezzo di Pilgrimage, è questo è per me l'unico neo di una serata che comunque mi ha lasciato molto soddisfatto, e con un ronzio di tuoni a toni bassi nelle orecchie fino alla mattina successiva (e che purtroppo ha reso inascoltabili le mie riprese video!)
Molto molto affabili e disponibili i ragazzi dopo il live, intenti a vendersi il merchandising. E' passata una vita da quando il video di Dragonaut passava su Indies e mostrava i giovani stonatissimi Sleep, ed oggi Cisneros appare molto più lucido di allora (sarà anche per via della sua professione di maestro di scacchi, probabilmente)...
(originalmente pubblicato il 02/02/2010)

Jah Wobble - Bedroom Album (1983)

Niente male come progressione per uno che proveniva dal punk, che era famoso per le risse e che si dice sia stato introdotto al basso da Vicious, che notoriamente non sapeva suonare. Bedroom Album è il suo capolavoro della prima fase, in cui si smarca da tutto e tutti e affronta un trip misticheggiante dalle mille sfumature e coloriture. Dub, reggae, arabia, africa, bossa nova e quant'altro possibile, a condizione che sia contraddistinto dalla visionarietà di questo artista bianco dal sangue oriundo.
Realizzato con il contributo del chitarrista Maltby, il disco è ovviamente imperniato sulle profondissime linee, ma è costruito con arrangiamenti che lasciano spazio a percussioni, synth, flautini, melodiche e persino la voce incerta e stonata di Wobble, peraltro perfettamente in tema con le atmosfere "sballate".
Fra i pezzi migliori, la dilatazione afro di Fading, il circolo vizioso di Long long way, il dub arabeggiante di Invaders of the earth, il post-metalbox di Concentration camp, il miraggio di Desert song.
Tutto è deliberatamente lo-fi, ricco di mistero e minimale.

(originalmente pubblicato il 29/01/2010)

Minox - Downworks (1994)

Un vero peccato, questa estrema rarefazione di produzioni per Monfardini e Magnani che in quasi un quarto di secolo hanno prodotto la bellezza di 2 dischi ed un EP (Plaza, qualcuno ce l'haaaa???).
Peccato perchè la media qualitativa fu sempre elevatissima. Se Lazare era un elegantissimo affresco di decadenza romantica, questo loro ultimo ha rappresentato sì la tendenza elettronica che spadroneggerà lungo tutto l'arco del decennio, ma sempre col gusto giusto e la ricerca melodica che evidentemente avevano nel loro Dna. Fra l'altro potrei quasi dire che molti passi del disco mi riportano ad un classicone come Kid A dei Radiohead, e non mi sembra di delirare. Con quell'elettronica così fredda nei suoni ma al tempo stesso così umana, come un robot che sorride o piange, Downworks è lavoro di classe evidentemente superiore.
Il passo sintetico di Fenotype è già parecchio indicativo, con saporiti inserti di clarino e il moog circolare. Il songwriting è quasi sempre incentrato sul piano, mentre i fiati discreti e felpati punteggiano gli arrangiamenti sopra ritmi fra trip-hop e letargie kraftwerkiane. Splendide le elucubrazioni di Pseudo, Disenchant, Cobalt, gli esotismi di Lost Poet, la più movimentata Arp 2001 nonchè l'ineffabile Necropolitan.
E poi, c'è un tris d'assi calato così, come se niente fosse, a stabilire un punto di contatto col passato, con la brillantissima song decadente. Il croonering liscio e compassato di Tribute to an end e Town sono due perle d'impressionismo luccicante, con un uso vocale parco e ben bilanciato.
E il sigillo finale, Old and deluxe, squisita soundtrack per piano e glitches, che sembrerebbe essere la sigla dei titoli di coda. Ma speriamo che ritornino, i toscani, chè ormai la scadenza dei 15 anni si avvicina....

(originalmente pubblicato il 28/01/2010)

Have A Nice Life - Deathconsciousness (2008)

Altro che il revival della new-wave, che bene o male ha prodotto soltanto un paio di bands valide su mille. Questa operazione compiuta dai Buona Vita americani è uno dei tributi più sani, personali e avvincenti al dark-gothic che bel bello se ne compie 30 anni e ringiovanisce un bel po'.
Questo è il disco che un Robert Smith stellare farebbe oggi se avesse 23 anni, la stessa età al tempo di Pornography di cui Deathconsciousness secondo me è degna trasposizione e reincarnazione al giorno d'oggi, con qualche sottile differenza.
La prima è la durata, con questo che è lungo il doppio. Le sonorità, che includono inserti elettronici e drum machine e appaiono comunque meno compresse e più, se vogliamo, "ambientali". Lo spirito, la disperazione e l'alienazione sembrano veramente nascere dallo stesso ceppo, ma l'angoscia opprimente di Pornography qui viene diluita in un pentolone di umori più vario e colorito. Con una specialissima attenzione per le voci, splendidamente arrangiate.
Sembra avere mietuto parecchie vittime, questo mastodonte; indubbiamente chi ha amato le pietre miliari d'Inghilterra primi anni '80 non potrà non subirne il fascino. Barret e Macuga dichiarano influenze svariate, fra black metal e jazz, e stendono un opera indimenticabile. Soltanto citare i pezzi migliori richiede parecchie righe, e i due dischi sono equalmente bilanciati in ogni ingrediente. Bloodhail è una sintesi suprema, posta dopo l'intro ambiental-dronica di A quick one: lugubre col basso, ipnotica col beat glaciale, mesmerica con la chitarra flangerizzata, però di una coralità molto sensibile. Memorabile la desolazione di Hunter, con quei colpi sparsi di rullante effettato nella prima desertica parte; successivamente il pezzo ingrana con aumento di ritmo e synth sinfonici, con la parte vocale che è una vera e propria citazione dello Smith più depresso. I killer si susseguono senza lasciar tregua: Telephony persevera l'esplorazione psichica, con passi e progressioni che ricordano Figurehead. Il chorus estatico è da brividi sottopelle. Who would leave their son out at the sun è un solenne mantra sussurrato in stile Black Tape for a Blue Girl che si dissolve nel sottosuolo.
Il secondo disco continua la meraviglia. Un minaccioso rantolo spaziale è il preludio alla spietata Waiting for black metal records in the mail, per chitarre fragorose, ritmo pestato e splendidi incroci vocali, come se i Nine Inch Nails avessero fatto un pezzo con Smith. Lascia increduli Holy fucking shit, probabilmente il miglior pezzo mai scritto dai Death Cab For Cutie! Una ballad acustica di splendore trasversale per chitarrina, beat da tastierina casio, piano e linea vocale commovente. Nella stessa traccia si sviluppa l'esplosione 40.000, sua contraltare techno-metal che lascia senza respiro. Qualche reminescenza anche dei Joy Division, nell'incessante The future. Passaggi melodici riuscitissimi nel finale grazie al pop camuffato da industrial di I don't love e al pathos parossistico degli undici minuti di Earthmover. Come se lo Smith di Disintegration si fosse ubriacato pesantemente e messo alla guida di un bulldozer.
"Opera" forse non è la parola giusta per definire questa immane produzione, così come non lo è neanche "viaggio" nè "esplorazione". La realtà è che questi due yankee che vengono dal nulla hanno compiuto un piccolo miracolo, credo con pochissimi mezzi e con una grande umiltà. Li aspettiamo al varco con il seguito...
Consiglio a chiunque ami questo disco di metterlo su mentre si fa sesso; è un esperienza totalizzante ed impagabile!

(originalmente pubblicato il 27/01/2010)

Contrastate - Throwing out the baby with the bathwater (1995)

Esoterismo puro e sulfureo per uno degli acts industriali più dimenticati del passato, forse perchè a differenza degli altri mostri sacri che passano i 30 anni di carriera decisero di sciogliersi.
Throwing out the baby è un lavoro di atmosfera impressionante, parecchio giocato sui chiaro-scuri, con rifrazioni multicolore e inserti di concretismi rabbrividenti.
Il disco si apre con il drone glaciale di Midnight in this century, che come magma insistente ribolle con tanto di colpi percussivi echeggianti. The green shots of oppression è un altro mantra grigio-scuro seguito da rantoli industrial-tribali. The end of history vede addirittura l'entrata di una chitarra elettrica in strumming, fra la nebbia dark-ambient e i rigonfiamenti liquidi di blob sonico. Extinction è un mini-trip fra pale acquatiche e sit-in imprecisati. Altering the circumstances chiude col recitato metronomico di Grieve, lasciando una sommessa inquietudine sull'ascoltatore.
E' un disco molto molto lineare, non vario come il loro capolavoro A live coal under the ashes, ma l'affronto è sempre molto carismatico.

(originalmente pubblicato il 26/01/2010)

VV.AA. - Mental Hour Vol. 1 (by Planet Rock 1993)

Dopo innumerevoli citazioni sparse, era quasi ora di tributare un post(ino) a questa esperienza così stravolgente e fondante per la mia formazione di ascolti musicali. Ebbene, siamo nel gennaio di 17 anni fa e su Radio Due c'era la più mirabile trasmissione che sia mai stata trasmessa sulla radio pubblica nazionale, ovvero Planet Rock, che aveva il grande merito di spaziare su tantissimi fronti con competenza, simpatia ed intelligenza.
E quando arrivava il sabato sera, alle 23.00, c'era per me un appuntamento immancabile.
La Mental Hour.
I conduttori di rotazione erano Luca De Gennaro (nella foto, intento a svolgere la sua professione di dj) e Gennaro Iannuccilli. Non penso di poter essere in grado di descrivere lo shock positivo di ascoltare queste sonorità per le prime volte: ambient, elettronica, trance, etnica e dub erano del tutto nuove alle mie orecchie e ne rimasi letteralmente ipnotizzato. Il tutto mentre i vari Mixo, Rupert, Roccaforte, mi educavano sulla storia del rock a partire dai '70 e mi tenevano aggiornato sulle attualità più interessanti.
Quasi sempre l'ora era strutturata in forma di collage montato da djs esterni (ricordo il nome più assiduo, Dub Master Spillus), ma suppongo che gli stessi due conduttori partecipassero attivamente alla redazione delle scalette. Che, manco a dirlo, erano delle meraviglie.
Questa è la prima di 12 C-90 che registrai per il mio preziosissimo archivio personale che, nonostante gli anni, si è mantenuto discretamente. Però, dei titoli in questa ora e mezza contenuti, non sono riuscito a saperne più di 4-5 (Orb, Clock Dva, This Mortal Coil, Ozric Tentacles, Art of Noise) pertanto, a chi volesse perdere il tempo di un ascoltino e fosse così luminare da rivelarmi qualche altro artista presente sul volume, sarei infinitamente grato.
A Planet Rock va sempre il ricordo più caro e commosso, per quei 5 anni di musica elargita generosamente e a piene mani.

(originalmente pubblicato il 25/01/2010)

Green Machine - King Mover (1993)

(Serie: i dischi che avrebbero potuto segnare l'adolescenza come certi altri storici, soltanto che li ho scoperti dopo 15 anni!) parte 3.
Da non confondere assolutamente con i triviali stoner-rockers giapponesi venuti dopo, i GM erano un atipico trio di Minneapolis formato da chitarra (Midland), batteria (Swank) e organo (Krejci) che realizzò un paio di dischi a metà anni '90. Sono dimenticatissimi (in rete non si trova assolutamente nulla, e la foto qui sopra è stata scansionata dal sottoscritto da un servizio su Rockerilla n. 167/8 dell'estate 1994) e questo albo l'ho recuperato da uno di quei tanti magazzini americani che svendono a prezzi ridicoli le montagne di cd alternative/indie del decennio di gloria. Il mio ricordo di loro, come tanti altri dell'epoca, è legato ad un aggancio merito del sempre mitico Planet Rock, che una sera trasmise Villains, di cui parlerò dopo.
Creavano un ponte brillante fra '60 e '70, grunge e psichedelia. L'assenza del basso contribuiva a rendere ancora più peculiare il sound, che di certo non inventava nulla ma si basava sulla bravura dei singoli, con il surplus delle ottime song in dotazione. L'intro strumentale Nerves è subito uno scossone, martellante hard-psych con le rasoiate di chitarra e i vortici di organo. Rodeo è un ipercinetico freak-grunge che stabilisce il parallelo coi mitici Dead Flowers di Moontan, con soltanto un po' più elaborazione ed acrobazie strutturali. Un po' di Iron Butterfly, un po' acid-rock westcoastiano, il GM sound era incentrato sulla chitarra psicotica di Midland, sui bordoni ipnotici del Leslie di Krejci e sull'elastico drumming di Swank, quasi jazz in certi frangenti. Con la nevrosi drammatica della splendida Wrong heart, la tracotanza dell'allucinazione di Melissa's molasses, il fuzz-punk-grunge di God of brick, il disco è dotato di tutta la varietà possibile di umori e scorci atmosferici. I 20 minuti di Blind to you si sviluppano su un tema quasi mediorientale che viene poi dissolto in pulviscolo psych-ambient ummagummiano.
Ma il vero capolavoro, ciò che vale la pena di ricordare di più in assoluto, è uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito in tutta la vita, la sopracitata Villains, che il benemerito Mixo scelse in una delle sue scalette. L'unico in cui Krejici utilizza il pianoforte, è talmente bello che non riesco a trovare le parole per poterlo descrivere, lasciando il piacere di scoprire a chi vorrà farsi il favore di sentirlo.

(originalmente pubblicato il 24/01/2010)

Frank Zappa - Hot Rats (1969)

Leggo una grande e triste verità, cioè che il mondo si sta dimenticando di lui. Quantomeno le sue prime opere andrebbero sempre ricordate come episodi storici di crossover, e c'è da dire anche che alla fine la sua popolarità a livello mondiale l'ebbe, se non altro per la stravaganza del personaggio. Oltre che l'aspetto esteriore, davvero singolare, lo era anche l'atteggiamento, sempre privo di compromessi e pronto a sparare a zero contro chiunque.
Ma non serve a niente parlarne, chè sono state spese enciclopedie intere a proposito. Hot rats fu un vinile a pieno sfondo orchestrale, per ensemble rock-neo-classico. Più gentile e rifinito dei precedenti volumi, annoverava i soliti fenomeni di supporto come Underwood e Ponty su tutti.
Cpt. Beefheart fornisce un contributo vocale nella viscida Willie the pimp, e resta l'unico brano cantato nonchè il tralasciabile del lotto. Perchè sono gli incantevoli strumentali dagli eleganti arrangiamenti a rendere Hot rats uno dei suoi massimi capolavori. L'arte sublime di Peaches en regalia e Son of Mr. Green genes rappresentava un'ardito avanzamento del rock verso forme nuove ed indefinibili, con un gusto melodico che rasentava la musica classica. Altrove si propendeva un po' più verso il jazz come in Little umbrellas o Gumbo variations. Anche Zappa contribuì, come i Family, alla creazione del progressive con la sua arte coraggiosa.

(originalmente pubblicato il 22/01/2010)

Ben Frost - Steel Wound (2003)

Sarà mica andato a cercare il fresco, questo australiano emigrato in Islanda?
Steel wound è il suo debutto, fatto di ambient altamente evocativa ma mai impalpabile, frutto di oscure stratificazioni, di synth imponenti e chitarre riverberatissime. I primi due movimenti, Swarm e I lay my ear to furious latin, sono praticamente concatenati in un tema celestiale, di onirismo circolare. You, me and the end of everything rispolvera il vecchio fantasma dei Flying Saucer Attack, con una melodia indolente per chitarra sporca e le vocals femminili con i fischi procurati dai delays, per 10 minuti di grossa, magica psychedelia rurale.
Si torna alla grazia rifinita con la title-track. Se Klaus Schulze fosse nato nel 1980, probabilmente oggi suonerebbe come Frost. Un sentore di corrieri cosmici, inquinati però dai mali sociali del giorno d'oggi, è cosparso per tutto il disco.
Invece Frost sta a Rejkyavik e si sente. Sembra quasi di stare a contemplare le terre artiche all'ascolto di Last exit to Brooklyn, con quel chitarrismo di post-rock frantumato e sparso come urne cinerarie. In chiusura And I watched you breathe stratifica ancor di più il corpo portante del suono; sembra una vera e propria orchestrazione ambientalistica, da cui non si perde mai l'attenzione dell'orecchio.
Un disco stupendo, che sa catturare e far viaggiare. Anzi, verrebbe quasi voglia di andare in Islanda a testarlo su un geyser.

(originalmente pubblicato il 20/01/2010)

Orthrelm - OV (2005)

Quale mai sfoggio di ipertecnicismo si può concepire senza un minimo di autoindulgenza? Si potrebbe dire nessuno, e secondo me neppure il death-grind si è salvato dalla dura legge estetica che condanna i virtuosi ad annoiare, quando poi ci si ripete all'infinito. Fino a quando non sono arrivati questi due mostri washingtoniani a stravolgere un concetto che pensavo inattaccabile. Non penso che l'universale (nel senso di grandezza!) prova di resistenza che è OV sia roba per narcisi o per vanesi. Sembra più una missione martirizzata, un sacrificio pagano, e immagino secondo i più una tortura simil trapano-dentistica. Per me è un caposaldo di assurdità.
I primi due LP dai nomi impronunciabili su piccole indie labels non li ho mai sentiti. Il terzo, altrettanto esperantico, era una collection di schegge impazzite di pochi secondi ma composte con estrema accuratezza. Dopo OV credo si siano sciolti, ma quale miglior testamento per un genere talmente peculiare che non avrebbe avuto un seguito razionale? Le schegge del sopracitato si ricompongono fino a formare una carica di tritolo abnorme, per 45 minuti di scosse elettriche sovrumane. Si è parlato di minimalismo (per lo schema), di grindcore o di black metal (per l'efferatezza del sound, aggressivo ma non pacchiano), ma sono solo definizioni per dare un'idea.
Guardando un qualsiasi loro video ciò che impressiona è anche la calma e l'estrema concentrazione con cui Barr fa volare quelle dita come ali d'insetto, ridicolizzando qualsiasi altro chitarrista al mondo in fatto di rapidità. Nonchè la chirurgica precisione e la compostezza di Blair, che sembra quasi sfiorare le pelli con le bacchette, calcolando scientificamente la misura dello sforzo sovrumano di suonare paradiddles e doppia cassa continuativi per tutti i 45 minuti di questo mostro dalla forma ben precisa, e che quindi incute ancor più paura.

(originalmente pubblicato il 19/01/2010)

Oneida - Each one teach one (2002)

Mostri deformi si aggirano per quello che viene da tutti considerato il capolavoro degli Oneida, doppio cd di allegra e lucida follia. In qualsiasi ottica lo si voglia considerare nella carriera decennale dei newyorkesi, Each one teach one è ossessivamente divertente e riflette alla perfezione la loro attitudine un po' gigioneggiante, unita ad una voglia di osare e sperimentare, prendere in giro i luoghi comuni della psichedelia, dell'hard-rock e del noise in modo dissacrante.
Il missile terra-aria Sheets of easter è massimalismo minimale, una vera tortura di 14 minuti. Antibiotics è un po' il manifesto del disco: le tastiere di Matador conducono un motivo demente per oltre 10 minuti, poi tutto si polverizza in un canto celestiale ed in un vortice lisergico drumless space.
Il secondo cd ristabilisce qualche contatto col pianeta terra, se non altro per la maggior presenza della voce. I ritmi sono sempre saltellanti e sostenuti, la scura title-track riesuma la vecchia influenza di Trans Am. People of the north e Number nine sono motivi praticamente pop, sotto una scorza ben poco gentile di chitarroni e synth circolari.
L'ipnosi per organo e flauto mistico di Sneak into the woods è forse il brano più curioso per una minore sbrodolatura arrangiativa, di grande suggestione peraltro. Il disco si chiude in bellezza con il melodramma epico (alla loro maniera) di Black Chamber e i magnetismi minimalistici di No label.
Non mi sembra di essere eccessivamente controcorrente per dire che non è il mio disco preferito degli Oneida, in quanto giudico più focalizzati e riusciti The wedding e Happy New year. E' comunque un simbolo dell'alt-rock dei 2000 ed ha avuto il merito di lanciarli un po' ovunque.

(originalmente pubblicato il 18/01/2010)

Om + Current 93 + Six Organs Of Admittance - Split singles 2006


Nella spasmodica attesa del 29 Gennaio, data in cui saliranno sul palco del Bronson, l'accoppiata di splits che sanciva lo sdoganamento totale degli Om, accoppiandoli con un nome ultrastorico come Tibet e un altro già bello decennale e fondato come Chasny.
Current 93 apre con Inerrant Infallible, litania demoniaca delle sue per chitarra elettrica distorta, cornamuse e sermone invasato. Om replicano con Rays of the sun, in pieno stile Variations o Conference, digressione classicissima, si potrebbe quasi dire del loro immobilismo a condizione che la si prenda da fan, quale sono io indiscutibilmente.
Six Organs of Admittance sperimenta forte con Assyrian blood. Drone di sapore ritualistico, cori sommessi in sottofondo e lacerante sgraffiata di elettrica.
I nostri invece ritornano con il solito panzer, Bedouin's vigil, spingendo sempre più forte sulle impronte già lasciate, e poco importa se macroscopicamente uguale al pezzo sopracitato, o alla maggior parte del loro repertorio. Ciò che conta è quello che è venuto dopo, gli sviluppi di God is good, il concerto che sta arrivando, quanti saranno sul palco, etc etc.
Metal-Mantra forever.

(originalmente pubblicato il 17/01/2010)

Nirvana - From the muddy banks of Wiskah (1996)

N.B. Post originalmente pubblicato domenica scorsa 10 gennaio, e totalmente rimosso intorno a metà settimana. Alcune volte anche un blogger pirata può perdere le staffe, e a me succede in questi casi. Ma voglio dire, cancellami il link, avvisami, minacciami, ma non mi cancellare tutto il post! Almeno quello che ho scritto, lascialo, no???
Ma tanto, una volta miracolosamente recuperato lo scritto con la cronologia del browser, sospiro di sollievo e mi rilasso pensando sempre alla stessa cosa: devono fallire tutti :-)
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Anche alla luce della leadership di disco più clicclato conquistata a larghe spallate (con Incesticide) fra chi passa da queste parti, suppongo che il loro cult sia tutt'altro che morto, anzi.
E come dare torto a chi ancora li ama? Io sono uno di quelli, e questo live antologico è una rarissima combinazione fra sfruttamento discografico e documento essenziale, compendio meritocratico al quinquennio bruciante di vita del trio. 17 pezzi che ripercorrono equamente un po' tutto il repertorio, che pendono dal lato più violento e viscerale del sound, e con le solite grandi prestazioni di Cobain. Occorre rendere giustizia anche agli altri due, questo è ovvio, in particolare ad un Grohl davvero scatenato. Ma il biondo era veramente un performer eccezionale, con quello stile vocale unico e inimitabile e le sue songs immortali.
Fra le chicche principali: la primitiva Spank Thru, definito il primo pezzo in assoluto dei Nirvana, ripescata in un live a Roma nel 1991, irresistibile. La migliore versione possibile di Polly, del 1989, è un pop-core che non ha nulla a che vedere con la moscia originale, e con un impennata vocale di Cobain da pelle d'oca. Le dissonanze chitarristiche (insieme a Smear) di Milk it, la sfuriata di Tourette's, il terremoto di Negative creep. Ma sono solo preferenze minime, chè raramente i Nirvana sbagliavano un pezzo e ciò è ovviamente riportato anche su questo live, con il plusvalore di una umanità disperata che si sbatteva sul palco.

(originalmente pubblicato il 17/01/2010)

Offlaga Disco Pax - Socialismo tascabile (2005)

A dimostrazione del fatto che non occorre creare qualcosa di necessariamente nuovo per attirare clamore e curiosità, il puro vintagismo degli ODP ha ottenuto un giusto riscontro a livello nazionale.
Le due menti musicali elaborano paesaggi elettro-wave fatti di drum machines antidiluviane, tastierine Casio, melodiche e synth, nonchè qualche bell'impasto di chitarre. Al centro, l'uomo antipalco, l'anticantante-frontman per eccellenza, il romanziere nostalgico che snocciola colonnine di cronache padane con sottile ironia, che inventa piccoli tormentoni con fare ineffabile, che regala eloquenti perle di quotidianità spicciola e proprio per questo superiori a qualsiasi fiction.
Tutto funzionale e complementare, tutto ad incastro. Gli irresistibili raccontini di Collini sono spesso ambientati in anni '80 ancora non inquinati da televisione nè da drammatiche (e apparentemente indolori) rivoluzioni sociali, e le musiche pure. Ma c'è da dire che senza i primi, le seconde probabilmente resterebbero un gradevole sottofondo e non molto di più.
Ritengo giusto pertanto citare il podio delle soundtracks più azzeccate, come il travolgente funk bianco-sporco di Robespierre, la rude baldanza di Enver, e la splendida melanconia di Defonseca.
Perchè le cronache del geometra vanno ascoltate ed interpretate sul campo.

(originalmente pubblicato il 14/01/2010)

martedì 29 giugno 2010

Cabaret Voltaire - Mix-Up (1979)

Arrivo con colpevolissimo ritardo a conoscere questo disco (un piccolo ringraziamento a chi me l'ha indicato!), evidentemente per qualche oscuro motivo non mi erano mai arrivati alle orecchie ed è un gran bel scoprire questo trio di Sheffield che era non poco avanti con la sperimentazione.
Trafficanti di nastri speculari e suoni acidi, clangori industriali e goticismi elettronici, erano attivi in laboratorio già da diversi anni ma comprensibilmente dovettero aspettare l'avvento della new-wave (l'anno in questione ha bisogno di poche illustrazioni, peraltro) per ottenere una pubblicazione significativa, su Rough Trade. E l'iniziale Kirlian Photograph è subito disorientamento a tutti gli effetti: una linea di basso cupissima e la voce beffarda (Mallinder), i suoni stentorei e assordanti dei nastri (Watson), la chitarra corrosiva e claustrofobica (Kirk). Fourth Shot, Heaven And Hell, Photophobia, Expect nothing, proseguono sulla scia: su ritmi sintetici e lentamente strascicati, i CV elaborano rinfuse le loro litanie meccaniche con fare marziale. Quando i bpm crescono, l'effetto è persino devastante: le sirene allarmanti di Eyeless sight, il funk fratturato di On every other street, il robotico Capsules (dei Kraftwerk sotto crack).
La summa è una specie di incrocio fra Pop Group e Chrome, che già sembra abbastanza improbabile, senonchè ci si accorge che sono tutti contemporanei! Il che la dice lunga sull'assoluta valenza di questi folli, grigiastri inglesi.

Nurse With Wound - Chance Meeting on a Dissecting Table of a Sewing Machine and an Umbrella (1979)

Sigla leggendaria della sperimentazione europea, al tempo del debutto NWW era un trio improvvisato che Stapleton allestì in tutta fretta di fronte all'opportunità presentatagli di poter registrare un disco. Due amici, una dose infinita di follia collagistica, il tecnico dello studio auto-impostosi alla chitarra psycho-blues ed il gioco era fatto per un solco apripista nell'industrial del decennio successivo.
Che poi l'etichetta in sè è più una comodità, giacchè Stapleton si è sempre distinto per una personalità fortissima. In questa sede, per dare un idea, si potrebbe pensare ad una destrutturazione totale dei Faust e si è ancora lontani anni luce nella descrizione
Un inferno di chitarre impazzite e dissonanti apre Two mock projections: al terzo minuto sembra arrivare un momento di quiete, condotto da un inquietante motivo di synth violoncellistico. Poi il ritorno delle selve metalliche, delle schegge impazzite di Fothergill.
Ancor più frenetico l'inizio di The six buttons of sex appeal, con l'aggiunta di una ritmica sorda ed infame sul sottofondo, con queste chitarre letteralmente maltrattate, tirate per il ponte e asservite alla disarticolazione più totale. Tutto sublima quando compare un lungo, demente e terrorizzato gemito maschile. E termina con una parvenza di psichedelia da centro di igiene mentale.
Il lato B era occupato da Blank capsules of emroidered celloph, sicuramente il pezzo (?) migliore. I rumorismi concreti entrano in scena, l'atmosfera è meno incasinata e compaiono accordi inquietanti di pianoforte riverberato. Entrano, nell'ordine, un recitato femminile in francese, slabbrature di contrabbasso, un flauto schizofrenico. In un orgia di synth sballati e chitarre abbandonate a sè stesse il collage si auto-stratifica fino al termine fisico dovuto ai limiti del vinile, chè potrebbe non aver mai fine.
Se il punk aveva insegnato che non serviva essere maestri per suonare, questo disco insegnò che la creatività non ne aveva proprio nulla a che fare, e non a caso era dedicato all'illustre rumorista Russolo.

(originalmente pubblicato il 13/01/2010)

No Means No - Sex Mad - You kill me (1985/86)

Storici alla pari di Black Flag e Minutemen, seppur usciti un attimo dopo, questi inossidabili canadesi hanno detto la loro in termini di post-punk creativo ed originale in cui la ragguardevole tecnica strumentale si mescolava perfettamente con lo spirito sarcastico ed iconoclasta dell'hardcore. I fratelli Wright, una sezione ritmica di sangue davvero comune, ne sono i titolari da 30 anni, nel corso dei quali si sono alternati soltanto due chitarristi. Sex Mad e You kill me videro l'ingresso determinante di Kerr, a seguito del debutto come duo di Mama, qualche anno prima. Ed è subito terremoto tecnico: jazz, funk e progressive fusi e ricoperti di una carta vetrata grossa grossa.
You kill me è una parodia dei Black Flag del periodo, senza però neanche una goccia della seriosità (in senso positivo) di Ginn e Rollins. La cariche dinamitarde di No fkuing, Paradise, Stop it vedono un power-trio scatenatissimo con il bassista in grande evidenza.
Kerr ha modo di ritagliarsi spazio decisivo in Sex Mad, che già affinava il tiro e allargava le braccia accogliendo stili all'apparenza lontanissimi fra di loro. Dad è ancora un anthem hardcore in pieno stile BF, ma è più che altro un rigurgito. La novità si trova nelle scale vertiginose di Obsessed e Long days, nei deragliamenti psicotici di Love thang e Dead Bob, nel funk metallico di Self pity.
Suoni arzigogolati e imprevedibili, per l'inizio di un percorso che non sarà facile da seguire...

(originalmente pubblicato il 12/01/2010)

No Age - Nouns (2008)

Ci mancava un gruppo così, che riconciliasse col concetto di punk e ne confezionasse la versione più moderna possibile senza snaturarne lo spirito.
E in effetti il coro di consensi è stato pressochè unanime per questo duo chitarra-batteria che, complice un manipolo di songs irresistibili, è salito in alto in molte polls del 2008. Nulla di rivoluzionario, ma semplicemente un pop-noise-core in cui le stratificazioni di Randall riecheggiano tante cose, dai My Bloody Valentine agli Husker Du, mentre il vocalismo immobile e stonato di Allen Spunt è adolescenziale il giusto per dare ancora più energia al sound.
Il segreto di Nouns, ciò che lo rende squisitamente interessante, sta nel tenere alta l'attenzione con una scaletta studiatissima: ad interrompere i fracassi trascinanti di Teen Creeps, Cappo, Sleeper hold, Brain Burner, solo per citare i migliori, ci sono variazioni significative nelle pause shoegaze di Eraser, nella placida e atmosferica Things I did when I was dead (simile alle ultime cose degli Usa Is A Monster), nella stasi quasi mogwaiana di Keechie, nel rumorismo torbido di Errand boy, e nella tronfia solennità di Impossible bouquet.
Se si pensa che il punk ormai è una tradizione, i No Age ne sono prosecutori validi e creativi e Nouns dovrebbe essere pompato sulle radio al posto di certi impostori.

(originalmente pubblicato il 11/01/2010)

Nightstick - Blotter (1995)

Una band che si presentava con una cover così non poteva perlomento passare inosservata. E infatti ricordo che dalle pagine di Rockerilla Riva li pompava abbastanza, descrivendoli come bruti, pesantissimi e dediti ad un grand guignol sonoro che estremizzava la volgarizzazione dei Type O Negative. E così, per la serie "grazie al p2p ripeschiamo ciò che non avevamo avuto il coraggio di comprare all'epoca", dopo 15 anni riesco a sentirmi questi impasticcati che in effetti erano davvero lascivi al massimo. Il disco inizia con una lunga distorsione di basso saturato, preludio al doom-sludge monotono di Workers of the world unite. E il chitarrista Cowgill inizia subito a farsi notare, con un assolo galattico alla Creed, da cui è molto influenzato.
Un improbabile incrocio fra Chrome e Melvins si materializza in Some boys; i ritmi sono sempre medio-lenti, il bassista-vocalist Smith grugnisce rozzo e atonale. La cover di Set the control for the heart of the sun è fatta esattamente come l'avrebbero pensata Buzzo e Crover senza far agire la loro tipica fantasia. Ancora Cowgill in evidenza nella jam Mommy what's a funkadelic.
La title-track è l'apoteosi del loro doom impazzito e deragliante, mentre Fellating the dying christ chiude con dei larsen alla Metal Machine Music e una coda sorprendente di cori quasi religiosi.
Il classico modello di gruppo che non aveva nulla da proprorre se non mettere in mostra il loro stile barbaro e truculento. Quasi totalmente privi di creatività, fecero altri due dischi (introvabili anche in rete) e poi scomparvero.

(originalmente pubblicato il 09/01/2010)

Motorpsycho - Demon Box (1993)

Ho il ricordo molto ben nitido di una puntata del marzo 1993, all'interno di Planet Rock, dello spazio settimanale che veniva riservato a Sorge il direttore di Rumore. Durava un paio d'ore, e la seconda di solito era riservata al death-grind, mentre la prima alle cose più eccitanti del panorama di cui di solito la sua rivista si dedicava. Quella sera (dovrei avere ancora la registrazione, fra l'altro) trasmise fra gli altri God Machine, Cows, ma soprattutto fece ascoltare la versione integrale (17 minuti!) della title-track di questo secondo disco del trio norvegese, e per me fu amore a prima vista.
Diciamo la verità; col tempo il loro status ai miei occhi si è ridimensionato, ma riascoltare Demon Box oggi mi fa ricordare bene perchè mi appassionai, alla luce del fatto che si tratta del loro vertice insuperato. Sono sempre stati degli abilissimi riciclatori, crossoveristi inguaribili e potentissimi dal vivo (li vidi allo Slego nel 1996, ed erano anche molto simpatici sul palco).
In questi 75 minuti avviene praticamente di tutto: sincopi metalliche alla Helmet (Feedtime, Sheer Profundity), apoteosi pop-noise alla Dinosaur Jr. (Sunchild, Junior), atmosferici psych-folk (Tuesday Morning, All is loneliness), incubi da horror soundtrack (Step inside again), sfuriate pop-core alla Husker Du (Babylon), ballad al limite del country (Waiting for the one, Come on in), cornici post-grunge (Plan #1, Nothing to say). Ma ciò che incantò me, come Sorge, fu la lunghissima title-track, che beneficiava del fondamentale apporto del manipolatore sonoro Deathprod, e che viveva di alternanze fra i rumorismi inquietanti dello stesso ed un pesantissimo hard-doom alla Black Sabbath. Un vero epic-master.
Se sono ancora vivi tutt'oggi, lo devono senz'altro alle loro abilità di saper galleggiare con fierezza e determinazione sopra le loro indubitabili influenze.

(originalmente pubblicato il 08/01/2010)

Modest Mouse - Building Nothing Out of Something (1999)

Un istituzione da mettere alla pari dei Built To Spill, sorta di cugini che però hanno guadagnato un maggior successo complice l'irresistibile appeal melodico, mai ruffiano nè ammiccante ma squisitamente bilanciato. Poi ci si è messo anche Brock a fare notizie col suo stile di vita dissennato e quasi da rockstar, e la fama è diventata quasi planetaria.
All'inizio i MM erano solo un oscuro trio di Seattle che si proponeva con qualche tratto ereditato dai Pixies, ma con un un modus operandi tutto proprio. Alla vigilia del capolavoro su major The moon & Antarctica, questa raccolta sigillò il loro tragitto indie raccogliendo qualche singolo e un ep degli anni precedenti. Ed è, come quasi tutti i loro dischi, irresistibile e appiccicosissimo.
La classica andatura caracollante ed insistente fa bella mostra di sè in Never ending math equation, All night diner, A life of arctic sounds, Grey ice water, Whenever you breath ou e nel capolavoro Other people's lives. Il segreto è: melodie ripetute fino allo sfinimento, ipnosi chitarristiche di vario tipo e le vocals sgraziate di Brock. Un cesello artigianale di songwriting fra i migliori in circolazione e qualche assestatissima puntina di psichedelia e le altre perle sono servite: Broke, Workin' on the leavin', Interstate 8.
L'indie americano non muore mai grazie anche a loro.

(originalmente pubblicato il 06/01/2010)

domenica 27 giugno 2010

Camel - The Snow Goose (1975)

Il lavoro per cui vengono principalmente ricordati i Camel è questo concept del tutto strumentale e già uno potrebbe dire, se non ci sono liriche come si fa a definirlo concept? Il discorso è che presero ispirazione da un libro, e l'autore non la prese tanto tanto bene, tanto da intraprendere azione legale nei loro confronti...
Privi delle inflessioni pop e jazz che ne avrebbero corrotto il seguito, i londinesi davano il meglio di loro stessi in un articolazione sonora fatta di 16 frammenti corti legati in continuità pressochè assoluta. E' un lavoro strettamente progressive, con qualche influenza genesisiana e qualche morbidezza tipica della scena di Canterbury. Il tastierista Bardens appare il prime-mover compositivo, ma fa una gran bella figura Latimer che si alterna fra chitarre e flauto.
Non giganteggia fra i capolavori della stagione, forse perchè in effetti si sente la mancanza di una voce a completare il quadro, ma è estremamente piacevole.

Motörhead ‎– Motörhead (1977)

Come resistere di fronte a cotanta e selvaggia potenza? Come non dare rispetto a chi ha coniato un suono leggendario, un trademark che da oltre 30 anni resta immutato e continua a fare scuola.
Ecco perchè ho scelto il primo disco, la sorgente del mito con cui Kilminster ha formato il proprio personaggio. E chissà quanto, dietro quella faccia improponibile, quella rozzezza dilagante che lo ha sempre caratterizzato, nella sua mente avrà benedetto quei 5 giorni di carcere in Canada che lo hanno fatto sbattere fuori da Brock e compagnia space-rockeggiante. Niente più psichedelia o synth, niente più formazioni allargate ed orpelli, un ristrettissimo power-trio e la porta sul successo mondiale si apriva piano piano. Quel Rickenbacker rombante e la voce unica al mondo, una cattiveria impareggiabile e la fortuna di due compagni che più adatti non si potevano.
Motorhead vive di tutto questo e poco altro, i pezzi si somigliano più o meno tutti. In maggior parte il classicissimo ed abusato schema blues viene scartavetrato all'uopo. La differenza la fanno le esecuzioni: Clarke è una mitraglia di assoli esaltanti, Taylor una vera macchina da guerra ritmica, in mezzo il baffo maligno non può che goderne. I vertici, senz'altro The watcher, Lost Johnny, Iron Horse, Keep us on the road.
Tutta roba sudaticcia e catartica, che non si manda più via dalla testa...

(originalmente pubblicato il 05/01/2010)

sabato 26 giugno 2010

Buzzcocks - Singles Going Steady (1979)

Curiosamente non li avevo mai sentiti e sapevo soltanto che Devoto proveniva da loro al momento di fondare i Magazine, sul cui primo albo aveva importato la Shot by both sides di precedente produzione. Poi un mesetto fa, rivedendo Control, sono stato incuriosito durante le scene in cui gli emergenti JD vengono incalzati dalla tacchetta coi Buzzcocks, con un eloquente risposta di disprezzo da parte di Hook.
Ora, dopo aver ascoltato questa raccolta, capisco gli epiteti e ancor di più la mossa di Devoto. Questi non sono neanche lontamanente parenti dei Sex Pistols. Questi erano i Green Day della new-wave. Trattasi di pop-punk pacchiano, triviale e scandalosamente ruffiano.
Assolutamente insopportabili alle mie orecchie!

Moltheni - Toilette Memoria (2006)

Se esiste un proseguimento ideale della tradizione cantautoriale italiana, è perfettamente rappresentata dall'ombroso e misogino barbuto che ama performare sgambato.
Di pochi artisti si può ricordare una carriera in crescita dopo 10 anni, eppure è proprio il suo caso, di quest'escalation produttiva che è corrisposta al suo scendere gradualmente negli scantinati di una popolarità molto marginale. Troppo modesto, troppo anti-star per poter amare la gente. Anche se il ricordo di vederlo quest'estate sul palco a vendersi le magliette mi fa solo sperare che il suo greatest hits rimodellato appena uscito gli possa portare qualche soddisfazione in più.
Toilette è un tredici-tracks senza passi falsi. L'artigianato più unico che raro nel saper scrivere, la sua voce di fustagno, la malinconia e la verve, il piano elettrico, la sobrietà d'impianto e i bellissimi testi. Giardini è fuori da ogni scena e costume, chi lo ascolta ne gode.
Le nubi fitte di Io formano una liquida introduzione ad un trio di pezzi fra i più accessibili, L'età migliore, Bufalo e Eternamente. Bollato ormai come alternativo, potrà creare altri 1000 di questi hits spaccaclassifiche ma non verrà mai cagato da nessuno.
E allora tanto vale fare un paio dei suoi strumentali d'atmosfera che fanno rabbrividire (Requiem per la repubblica italiana, Deserto biondo). Tanto vale ravvivare un po' con la baldanzosa e memorabile Minerva, abbandonarsi alla progressione mesmerica di Nella mia bocca.
Una strana inquietudine accompagna lo stellare cabaret onirico di Sento che sta per succedermi qualcosa, e al termine l'ennesima perla, la più fragorosa e contaminata Cavalli sciolti del nord che osa persino dotarsi di qualche timido glitch elettronico, e mi domando solo come avranno fatto a convincerlo di quest'inserimento per lui così lontano.
E che la salita sia ancora lunga....

(originalmente pubblicato il 28/12/2009)

Mercury Rev - Yerself is steam (1991)

Questi erano i "veri" Mercury Rev, quelli che conobbi io col video di Chasing a Bee su Videomusic, dei primi 3 dischi, della psichedelia rumorosa, della deviazione mentale.
Yerself is steam è un vortice creativo di suoni ruvidi ed ovattati. L'esperienza di Donahue nei Flaming Lips aveva lasciato il segno (vedi la splendida armonia di Frittering che di sicuro ha fatto un invidia terribile a Coyne) ma ai tempi non aveva la leadership, perchè c'era 'sto omone corpulento alla voce, tal Baker, che sembrava una versione giovane di David Thomas e giocava un ruolo fondamentale, credo, anche sulle musiche.
La stessa Chasing a Bee, Coney Island Cyclone e Syringe mouth sembrano mutuate parecchio dalle labbra fiammanti, fatte come sono di quella pasta noise-pop-psych, che in qualche punto riprende anche la lezione chitarristica dei Loop. Ma per ogni pezzo c'è sempre una sorpresa, una deviazione, uno scarto personale che li toglie dalle castagne di essere accostati a cloni. Da segnalare anche l'apporto della flautista, che sembra quasi estraniata dai giochi ma quando entra ha una funzione calmierante che attira l'attenzione. E poi ci sono le perle: Blue and black è una fosca ambientazione drumless con le sommesse declamazioni di Baker a raggelare. Sweet odyssee è un'esplosione di tribalismi space-dark. Trucks un breve schizzo robotico alla Helios Creed. Very sleepy river una jam ipnotica che sfiora i 13 minuti, in cui le chitarre inscenano duelli epico-misticheggianti quasi alla Hawkwind.
Non toccheranno più questi livelli, ma alla luce dell'exploit dell'ultimo Flaming Lips, non è mai detta l'ultima parola...

(originalmente pubblicato il 27/12/2009)

Meat Puppets - Up on the sun (1985)

Non avranno cambiato la storia e avranno anche beneficiato della raccomandazione di Cobain, ma i MP di questo disco sono stati veramente originali. E divertenti, in questa raccolta di frizzantissime canzoncine che definire country-punk è alquanto riduttivo.
Questa ristampa include diversi bonus e alternate takes che sono praticamente da buttar via, tanto il trio sembra sotto metadone per la flemma esecutiva a confronto dei prodotti finali.
Le acrobazie dei fratelli Kirkwood, nonostante avessero un batterista limitato, sono davvero uno spasso: le chitarre di Curt passano da arpeggi limpidi a tessiture elaborate, il basso di Cris pulsa insistente e pungente. Le voci sleazy, quasi stonate, contribuiscono a rendere ancor più peculiare lo scenario. Il melodismo della title-track apre in modo rilassato, ma le sorprese arrivano già col secondo pezzo Maiden's milk: un inusitata intro degna del progressive più acrobatico (quasi Yes!) prelude ad uno strumentale irresistibile in cui le linee vocali sono sostituite dai fischiettii. La baldanzosità di Away e Animal Kingdom è figlia del country quanto della psichedelia, tutto adeguatamente velocizzato ai dogmi del punk. Ma le aperture rurali e melodiche sono magistrali: gli scarti improvvisi di Hot pink, Swimming ground, Buckethead, sono contagi immediati per l'orecchio. Un songwriting che riesce a competere con quello contemporaneo di Westerberg, con un occhio di riguardo per le finezze strumentali (Enchanted porkfist, Creator) e per la psichedelia (Two rivers), rende questo album il vertice assoluto di una carriera alquanto contraddittoria, e che troverà ampia retribuzione nelle royalties incassate courtesy Cobain.

(originalmente pubblicato il 26/12/2009)

May Queens - May Queens (2000)

Curiosa la sorte di questo one-shot, che viene quasi all'unanimità ritenuto come un episodio poco felice della carriera di Sheppard. Ricordo che lo comprai a scatola chiusa sapendo che si trattava praticamente dello stesso organico dei Sophia, anche perchè era ad edizione molto limitata e forse, povero illuso, era presentato come un ritorno al rock forte e in cuor mio speravo di sentire nuove emissioni di macchine divine. Ma un passo falso ci può anche stare, dopotutto.
E dire che basta chiudere gli occhi e non pensare che sia lui, che alla fine MQ non è neanche un brutto disco, anzi. Se fosse stato lanciato da una major avrebbe anche fatto sfracelli di vendite, ne sono sicuro, in virtù di un power-indie-pop ben assestato ed epidermico che fa battere il piedino ed ondeggiare la testolina in Changes, If you want it, Rollin', Falling, ad un passo dal college-rock yankee. Senza parlare dell'hit folk Like a record, che mi è capitato anche di sentire a Radio Capital una volta.
Esaurita la camuffazione, Sheppard torna ad essere sè stesso nella sorniona ballad Tonite, nella torbida Closer e nello strumentale joydivisioniano di Fench. E a porre come sigla di chiusura lo splendido surf malato di Theme for the may queen no. 2.
Sul suo sito mr. Sophia parla dei MQ liquidando la pratica con poche righe scarne e svogliate, e giurando che non ci sarà una seconda puntata. Ma io conservo ancora questo cd ad edizione limitata...

(originalmente pubblicato il 25/12/2009)

Magnetic Morning - A.M. (2008)

Franklin ha fatto ancora un bel centro l'anno scorso.
Sull'onda dell'entusiasmo della reunion degli Swervedriver, un esordio solista esaltante e il varo dei Magnetic Morning, insieme al drummer degli Interpol, suo coetaneo e veterano della scena indie americana, Fogarino (origini italiane?). A.M. è un disco del quale poi si scopre in un intervista che la maggior parte delle musiche sono state composte dall'americano, ed in seguito messe in ordine e parolizzate dall'inglese. Poco importa, perchè alla fine è davvero molto bello e il sound d'insieme suona elegante ed atmosferico, un ideale punto d'incontro fra le bands madri deviato in una deriva barocca.
La prima parte della lista è memorabile: Spring unseen è un onda eterea di tastiere, un ambient-rock magistrale. Franklin prende le canzoni, le marchia col suo timbro fragile e profondamente inconfondibile, le infioretta e le stende con la solita classe. Il riff malinconico di At a crossroads passive, avrà fatto riflettere Banks e gli Interpol sul caso o no di chiedere composizioni a Fogarino in futuro. Il break di chitarre distorte e mellotron è un momento da brividi, ma tutto il pezzo è caldo ed emozionante. Atmosfere rilassate e magniloquenti con Indian summer e Come back, in una forma di psichedelia a rilascio controllato.
Poi la meraviglia di No direction, il miglior pezzo nonchè quello mai composto dagli Swervedriver, grintoso, trascinante e con una progressione paurosa.
Sulla seconda metà di A.M. ci sono i fragori torrenziali di Motorway, i barocchismi filigranati di The wrong turning e la ruvida levitazione di And I wonder. Tutti gli arrangiamenti sono curatissimi, riccamente distribuiti e perfetti alla guisa delle brillantissime composizioni.
Due marpioni ben assortiti che speriamo ci diano un bel bis in futuro.

(originalmente pubblicato il 24/12/2009)

Magma - Köhntarkösz (1974)

Al di là dei contenuti fantascientifici, del linguaggio inventato dal nulla, delle storie che oggi possono sembrare davvero di un altra epoca, il fascino e l'imponenza del Magma-sound restano intatti. Il capo della crew francese era il batterista/pianista Vander (anzi è, chè con la pelle grossa che hanno sono ancora attivi), un compositore con la fissa di Coltrane e dell'opera lirica che filtrava il tutto con il prog dell'epoca e creava una musica scura, minacciosa ed affascinante.
Quarto album della serie e per me il loro migliore, Köhntarkösz aveva il pregio di smorzare le eccessive vocalizzazioni del precedente Mekanik, troppo succube dei melodrammi isterici della vocalist Stella, e puntava su una manciata di splendide composizioni contrappuntate da cori enfatici. La title-track è divisa in due parti ed è un movimento che estremizza le pulsioni canterburiane con una sana iniezione di cattiveria espressiva, guidata da frasi spezzate di piano, di grande ispirazione. I tempi dispari e le strutture volatili create da Vander esaltano i superbi musicisti al suo fianco. Il chitarrista inglese Godding era un funambolo che nulla aveva da invidiare a Fripp. I tastieristi Bikialo e Grailler non salivano mai sopra le righe e fornivano un tappeto sopraffino. Il bassista Top era un motore ringhiante degno contraltare del poliritmico drummer, e fu proprio egli a ricavarsi uno spazio compositivo per la prima volta nella storia dei Magma. La sua Ork Alarm è un inquietante piece cameristica che fende il disco in modo drammatico. Ma Vander si riscatta e decide di chiudere con i toni rilassati dell'incantevole pastorale Coltrane Sundia, elegia pianistica che fa spalancare gli occhi dalla meraviglia e pesa profondamente sul bilancio di un disco che già prima era ottimo.

(originalmente pubblicato il 23/12/2009)

Lynx - Lynx (2000)

Quando uscì la formazione dei Battles, di fianco ai nomi illustri lessi il nome Konopka, creditato come ex-componente dei Lynx. E mi chiesi ma chi mai fossero 'sti Lynx?
In giro si trovano pochissime info al riguardo di questi bostoniani emigrati a Chicago in cerca di gloria, che però riuscirono ad incidere soltanto questo omonimo albo per una indie davvero poco conosciuta, e finì lì. E all'ascolto mi viene proprio da capire perchè faccia parte della banda di Williams & co., giacchè queste linci erano davvero un validissimo combo di rock algebrico, viscerale e movimentato. I Don Caballero potevano essere una delle influenze principali, ma lo stile più asciutto, compatto e perchè no, ordinatamente spigoloso li rendeva atipici persino in quel contenitore genericamente rigoroso. Gli stridori delle chitarre alternano frasi dissonanti a sviluppi armonici ben calibrati che in un certo senso aiutano la freddezza naturale di questo sound a non raggelare anche l'ambiente.
Ovviamente tutto strumentale, Lynx è un flusso coeso di esibizioni anche bellamente tecniche (davvero notevole lo stile del drummer), che piacerà molto agli estimatori, e nel quale si intravedono anche certe soluzioni battagliere di lì a venire.

(originalmente pubblicato il 22/12/2009)

Gerogerigegege - Sexual behaviour in the human male (1988)

Fra la mucchia immane di hardcore-trash-power-electronics e concretismi fetish/corporali, Jamanouchi ha sempre avuto lo schizzo di fare qualcosa di alternativamente diverso, come già descritto a proposito dell'inquietante Endless humiliation, o pensando all'elettronica minimale di None Friendly. Invece questo fu uno dei primi e viene proprio da pensare a cosa girasse nella testa di questo pazzo, nel voler fare il suo disco pop.
Perchè di tale si tratta, sottilmente travestito di new-wave con chitarre jingle-jangle, di ordinaria fattura, certo non epocale ma che attira sempre curiosità nel caso del nipponico. Water business è un ingannevole sigla punkcore urlata e con coda di feedback, preludio alla prima parte della title-track, di cui si trovano ben 5 versioni. E' uno strumentale etereo e soffuso, che curiosamente si avvicina parecchio ai contemporanei Fall di I am kurious oranj. Più interessante la 2° parte, un dolente e sommesso surf suonato in punta di dita. Bellissima invece la 3°, in cui il clima si fa più acceso con delle progressioni piano-forte davvero suggestive. La 4° e la 5° riprendono il tema inziale prima in chiave riverberata e poi lo-fi.
Poi si gioca a fare i Guns and Roses in Ensan in natt, con il surf-punk di Change matter, poi ancora hardcore con Japanese title #1. E sorprese grosse con Japanese Title #2, un incredibile arpeggio di chitarra dal sapore ancestrale che anticipa certe cose dei Supreme Dicks!
Tutto questo, condito dalle urla belluine di Jamanouchi, non troppo invadenti anzi ben dosate.
Tutto questo senza comunque rinunciare allo spaziettino dedicato alla masturbazione telefonica (B-men no saisho no kyoko) o al concretismo industrial spaccatutto di Symphony for the age destruction.
Onestamente parlando, dev'esserci stato un gruppo o un songwriter dietro il leader, che tutto è fuori che musicista, allo stesso modo in cui un chitarrista e un batterista lo hanno assistito nelle pagine più famose della sua storia power-harsh come Tokyo Anal Dynamite. Quindi eleggo Sexual behaviour come unico suo disco consigliato ai deboli di orecchie.

(originalmente pubblicato il 21/12/2009)

venerdì 25 giugno 2010

Bugskull - Phantasies And Senseitions (1994)

Ma che combinava questo ragazzo di Portland, tale Byrne?
Indecisissimo sul da farsi, e con un nome improbabile da metal-band, nel 1994 dava alle stampe il suo esordio sull'illustre etichetta Road Cone. Dico indecisissimo perchè è un listone di 18 pezzi, di durata accettabile ma che svaria su fronti difficilmente avvicinabili.
L'indie-rock modello Pavement e Guided By Voices occupa una buona metà del tempo, ed è il lato meno interessante. Va molto meglio quando decide di barocchizzarsi, (Shorty, Opening theme) di creare stralunati strumentali per bordoni circolari e fiati evocativi (Elfin Majic, Almost blue), di mettersi nelle vesti di folkster ultra-lo-fi di discreta classe (Recoder, Old Town, Concrete boots), di impaurire con clangori metallici e fuzzati (Long Corridor #6), o di sbragarsi in dilatazioni post-psichedeliche (Death Valley '94, Space).
Se avesse messo nel disco solo questi titoli, si sarebbe parlato di un capolavoro di surrealismo sulla scia dei Residents.

Will Oldham - Guarapero Lost Blues 2 (2000)

Diciamo che Oldham ha sempre avuto un piccolo problema, che più o meno si può chiamare "incontinenza" produttiva. Ma diciamo anche che ha iniziato ad averlo proprio con questa raccolta. I numeri sono questi: 23 album fra inediti, live e antologie, 23 Ep, 43 Singoli. Il tutto in 16 anni, fa decisamente troppo perchè l'artista non si sia auto- "svalutato".
Guarapero fu la sua seconda antologia di rarities, e raccoglie principalmente 7 pollici dei suoi primissimi anni, quindi improntato sul lato più profondamente lo-fi, quello di Days in the wake, per intendersi. Soltanto che le canzoni migliori finirono in quell'album, e le seconde scelte se ne andarono sparse.
Ma Oldham ormai era già un istituzione nel 2000 quando fece uscire la raccoltina. Tre anni prima aveva compiuto un operazione simile con Lost blues and other stories, soltanto che fra le frattaglie sparse erano state accuratamente scelti le migliori. Risultato; un bellissimo disco che non aveva neanche le sembianze del fagotto di raccolta. Qui invece c'è ben poco di interessante, a parte la curiosità di sentire un paio di tracce in cui Oldham si fa supportare da un elettronica vintage anni '80, in The risen lord e Boy you have cum. L'effetto è veramente straniante e resterà credo isolato.
Si può passare ben oltre.

(originalmente pubblicato il 21/12/2009)

Love Spit Love - Love Spit Love (1994)

Come quasi tutte le coppie storiche vocalist/chitarrista provenienti dalla stagione gloriosa new-wave e oltre, anche per Butler e Ashton arrivò il momento della separazione, cioè lo scioglimento dei PF. Fortus faceva parte di una band che li aveva supportati nell'ultimo tour, evidentemente piacque a Butler che si trasferì a NYC e lo volle al suo fianco al momento di allestire i LSL.
La sensazione di sentire un proseguimento naturale delle pellicce dura i primi due pezzi. Seventeen e Superman sono energici e melodicamente azzeccati, non troppo ruffiani per essere pop e non troppo chitarrosi per essere grunge. Il vocalist è in ottima forma e sentire quel timbro roco e maturo fa sempre piacere. Anche il singolo Change in the weather ricalca ottimamente le coodinate, avrebbe meritato un successo mondiale.
I problemi però iniziano a partire dal 3°, Half life, e proseguono tristemente fino alla fine. Se Fortus denotava un buon stile elettrico, non riesco a spiegarmi per quale motivo l'80% del disco sia stato improntato su un folk-rock agreste mutuato profondamente dai R.e.m. meno brillanti, il che è tutto un dire. Persino Butler riesce a far scadere il suo classico cantilenare in una sommessa ripresa di Stipe, e non mi pare servano altre parole. Si salva soltanto l'inquieta All she wants, peraltro inserita come bonus-track per l'edizione europea.
Anche i giganti cadono, e fanno rumore.

(originalmente pubblicato il 20/12/2009)

Liars - They were wrong so we drowned (2004)

Il passo di transizione verso il capolavoro astrattistico di Drum's not dead fu questo secondo albo in cui Andrew e Hempill si liberavano della sezione ritmica e decidevano di complicare sul serio le cose. Con un nettissimo inserimento dell'elettronica e l'innesto di un drummer come Gross, che puntava molto più sui pad che sui rullanti tradizionali, i bugiardi inserivano ancora qualche bel danzabile post-funk come They don't want your corn, Hold it and will happen, There's always room on the broom, che cacciano riffoni belli pregni come nel primo disco, ma già denotano un avanzato stato di schizofrenia. Che straborda da tutti i pori degli altri 7 pezzi.
Sono indefinibili, queste malsane atmosfere atonali. I rintocchi sinistri rendono Broken Witch un mostro deforme figlio della paranoia metropolitana della grande mela. Steam rose è un perfido strumentale dal ritmo tachicardico. If you're a wizard indugia su una destrutturazione chitarristica infernale. Desolazione e disincantata angoscia regnano sovrane su We fenced other houses. They took 14 sembrerebbe avere un ritmo normale ma si perde in una nebbia impenetrabile di glitches. Il minuetto minimalista di Flow my tears chiude con un drone leggerissimo e qualche spruzzata di organetto.
Nè triste ne allegro, nè Radiohead nè Gang of Four, nè concreto nè rock, il Liars-sound è qualcosa di veramente imprendibile e in cui è facile perdersi. Sicuramente una delle formazioni più creative del decennio, li attendo al varco per un nuovo lavoro.

(originalmente pubblicato il 19/12/2009)

Le Orme - In concerto (1974)

Un bel live del power-trio veneziano in un teatro di Roma, anno di grazia 74, forse nel loro momento di massima fama e perchè no, anche forma.
Sui passi importanti provenienti dalla Gran Bretagna (Quatermass, EL&P), le Orme erano stati fra i primi a sdoganare il progressive nello stivale con Collage, e il gran successo di quegli anni assicurò loro un futuro radioso, anche perchè sono in quello stretto club di gruppi che nonostante tutto, non muoiono mai.
Il lato A è occupato per intero dall'inedito Truck Of Fire, che tale restò. La tentazione di incidere la propria Tarkus restò un progetto abortito, evidentemente; trattasi di suite complessa e spesso atonale, in cui Pagliuca si auto-proclama del titolo di "Emerson italiano". Non meno spettacolare Dei Rossi, che forse con la doppia cassa fa un po' troppo casino, ma si ritaglia qualche minuto di assolo e comunque per tutto il concerto domina muscoloso e compatto. L'ultima parte riserva spazio anche alla voce fragile ed ancestrale di Tagliapietra, per la parte più tradizionalmente arrangiata. Ma nel suo complesso di 20 minuti restava uno scoglio difficilmente digeribile anche per i fan più fedeli, nella sua estrema cervelloticità.
Il lato B ristabilisce i pieni applausi del teatro, anche se il gusto delle fughe strumentali resta quasi una priorità. Sguardo verso il cielo e Collage, eseguite con maggior grinta e verve, fanno un figurone. Era inverno e Ritorno al nulla cozzano fra strofe e arsenali tastieristici, ritmi incessanti e showcase di tecnicismi mai antipatici, classicismi e iperboli rumorose.
La classe non era acqua alta.

(originalmente pubblicato il 18/12/2009)