domenica 25 aprile 2010

Peter Green - The end of the game (1970)

Un episodio di quelli che ai tempi fece scalpore, avanguardia, incredulità. Anche se si era negli anni più liberi e creativi della storia del rock, il fatto che un chitarrista di talento e fama desse di matto a causa di abuso di lsd o per presunta crisi mistica era comunque una cosa sensazionale.
Peter Green fu contemporaneo dei vari Clapton,Page,Beck,Moore, eppure rifiutò la notorietà oppure ne ebbe una repulsione tale che diventò schizofrenico, devolvette i suoi guadagni in beneficenza e appese la chitarra al chiodo per almeno 10 anni. Mentre lasciava i Fleetwood Mac convocò 4 musicisti jazz e diede vita ad una jam session strumentale di 35 minuti, The end of the game, che, parafrasando il titolo, restò il suo testamento artistico.
Assimilabile ad altri dischi solisti folli di quel periodo (penso ai vari Wyatt, Palmer, Spence) per concezione e free-form artistica, la fine del gioco è un incursione mentale ovviamente imperniata sulla chitarra acida e stridente di Green ma impreziosita dal contributo di classe degli accompagnatori (fondamentali i contributi del bassista di Frank Zappa del tempo e del tastierista Zoot Money).
Rifiutata ogni ipotesi di blues a priori, questa musica è psichedelia purissima. Bottoms up, Burnt Foot e la title track sono nervose e concitate, ai limiti del parossismo. Se esistesse un codice di traduzione psico-melodico, di certo il quadro mentale non sarebbe stato fra i migliori.
Descending scale mette in mostra gli otto minuti più folli: un intro jazz prelude ad una situazione di calma spettrale, prima che avvenga un esplosione allucinata che non avrebbe sfigurato su Ummagumma, pubblicato appena un anno prima dai Pink Floyd. Timeless time e Hidden depth sono i due numeri che offrono un po' di pace e relax.
Una jam che gli costò caro ma che gli permise di diventare un icona.

(originalmente pubblicato il 12/04/08)

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