Ho sempre avuto una grande stima e rispetto per Will Oldham, autentico pioniere di un genere che ha fuso l'America rurale del country con il folk e il rock indipendente. A differenza dei mostri sacri suoi contemporanei che elogiavano la lentezza e le atmosfere, ha sempre preferito un approccio come dire brutale nel suo essere cantastorie, sia con l'ausilio della sua sgangherata voce e della chitarra acustica, sia con un complesso completo alle spalle. Dopo quindici anni ed una discografia pressochè sterminata fra alti e bassi, viene quasi da dire che quando tornò nella natia Louisville, reduce da una fallimentare carriera di attore ad Hollywood, non fece la scelta sbagliata a diventare cantautore delle storie americane dell'ordinario, liricista che non usa mezzi termini e parla come mangia, seppur con un certo approccio poetico.
Arise therefore non è stato il suo disco migliore, eppure fu un episodio importante. Dopo Viva last blues del 95, un disco quasi festaiolo, Oldham si immerse in un tunnel narcotico componendo questi 11 pezzi. Sorprendentemente scelse Steve Albini come produttore, ma ascoltandolo non si direbbe; non c'è batteria umana, solo una drum box minimalissima, c'è il fratello Ned al basso e l'importante presenza di Mr. David Grubbs alle tastiere.
Stablemate chiarisce subito gli intenti dell'album; i ritmi sono lentissimi, il clima è rilassato anche se molto cupo e dimesso. Scorrendo i titoli si troverà un minimo di vita solo in No gold digger o The sun highlights the lack in each, mentre la stragrande maggioranza si muoverà su temi pressochè immobili, guidati dalla scarna chitarra di Will e dalla sua voce sgraziata, in cui gli unici colori che non sono grigio/nero sono dati dai contrappunti impeccabili di Grubbs, magistrale all'accompagnamento misurato di piano ed organo.
Un disco molto difficile e coraggioso.
(originalmente pubblicato il 10/04/08)
Arise therefore non è stato il suo disco migliore, eppure fu un episodio importante. Dopo Viva last blues del 95, un disco quasi festaiolo, Oldham si immerse in un tunnel narcotico componendo questi 11 pezzi. Sorprendentemente scelse Steve Albini come produttore, ma ascoltandolo non si direbbe; non c'è batteria umana, solo una drum box minimalissima, c'è il fratello Ned al basso e l'importante presenza di Mr. David Grubbs alle tastiere.
Stablemate chiarisce subito gli intenti dell'album; i ritmi sono lentissimi, il clima è rilassato anche se molto cupo e dimesso. Scorrendo i titoli si troverà un minimo di vita solo in No gold digger o The sun highlights the lack in each, mentre la stragrande maggioranza si muoverà su temi pressochè immobili, guidati dalla scarna chitarra di Will e dalla sua voce sgraziata, in cui gli unici colori che non sono grigio/nero sono dati dai contrappunti impeccabili di Grubbs, magistrale all'accompagnamento misurato di piano ed organo.
Un disco molto difficile e coraggioso.
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